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Borghi terremotati: come prima, più di prima, sbaglierò
Quando si parla di lavoro nelle Marche non si può fare a meno di pensare al comparto della calzatura (più prosaicamente, gli “scarpari”) in prossimità e sulla costa sud, agli elettrodomestici nel Fabrianese o al distretto del mobile a Pesaro più varie eccellenze meno polarizzanti. Di certo non si pensa a un lavoro fuori dell’industria, […]
Quando si parla di lavoro nelle Marche non si può fare a meno di pensare al comparto della calzatura (più prosaicamente, gli “scarpari”) in prossimità e sulla costa sud, agli elettrodomestici nel Fabrianese o al distretto del mobile a Pesaro più varie eccellenze meno polarizzanti.
Di certo non si pensa a un lavoro fuori dell’industria, o quantomeno della fabbrica. Eppure il territorio marchigiano è punteggiato anche da piccoli paesi posti per ragioni storiche in cima a una collina. È un lavoro di piccoli numeri, senza sindacati e scioperi, che solo apparentemente non crea problemi sociali.
La lenta estinzione dei borghi marchigiani
Recentemente sono ripassato per Montepulciano e Montalcino e non ho potuto fare a meno di fare un paragone con i nostri omologhi centri più o meno medievali: borghi incantevoli, dove si respira aria che si potrebbe vendere imbottigliata a Roma o Milano; ristoranti dove è davvero difficile mangiare male e negozi di prodotti tipici che sono l’anima e la firma di quel territorio.
Mentre pensi questo, pensi pure: ma di cosa vivono queste città? Le vie sono un susseguirsi di negozi più o meno fotocopia con prodotti simili, intervallati da articoli che sono tipici solo nel senso che si trovano in ogni città turistica.
Roba per turisti, insomma. E i residenti? Impossibile trovare un negozio di alimentari “normale”, cioè non da turisti (sia per i prezzi che per i prodotti); non immagino dove si potrebbe comprare una scopa o un sapone se non in un centro commerciale, che è diventato un po’ l’omologo delle zone industriali. Tutto bello e organizzato. Tutto artificiale e pertanto non ecologico. E infatti l’ecosistema sta scomparendo.
L’uomo nella sua lunga storia ha sempre avuto un impatto negativo sull’ambiente in cui vive: è l’unico animale che si comporta così e già sta cominciando a pagarne le conseguenze. Divagazioni da ecologista della domenica? Può darsi, ma foss’anche solo per ragioni di mero business, non si tratta di un problema che può essere ignorato: le oltre trenta milioni di visualizzazioni del video con la cannuccia che inquina il mare hanno indotto Starbucks a iniziare una battaglia contro la plastica. Qualcuno, altrove, sta facendo qualcosa. E qualcosa prima o poi cambierà: non tutto, ma qualcosa lo farà.
Ecco allora che, riducendo la scala, si intercetta la questione nascosta del lavoro non ecologico; del lavoro fatto per sopravvivere e non per vivere. Eppure una delle reali peculiarità delle nostre zone è la qualità della vita: città a misura d’uomo, inquinamento a bassi livelli, un’ora per fare cento chilometri e non cinque o dieci, paesaggi ameni che includono mare e montagna – ma modelli economici e di lavoro che non tengono minimamente conto dell’ambiente.
Mi fanno sorridere quelli che si lamentano dello svuotamento dei vecchi paesi o delle campagne: al giorno d’oggi molti vogliono il massimo del risultato col minimo sforzo, quindi la grande città che crea indotto è destinata a crescere, sempre in maniera non ecologica. Dunque da una parte pochi innamorati delle loro radici e del loro lavoro, dall’altra un mercato che scappa nei centri più grandi.
I borghi con i loro lavoratori ecologici sono dunque in via d’estinzione? Forse: prima o poi di anziani o affezionati non se ne troveranno più e anche l’ultimo pizzicagnolo chiuderà. Oppure accadrà l’esatto contrario, senza che il risultato cambi. Avremo delle cattedrali nel deserto usate (e non vissute) dai turisti, forse perché nel frattempo l’ambiente sarà cambiato portandoli all’estinzione; questo però è un discorso solo all’apparenza simile all’estinzione naturale. La natura non ha un governo, né è democratica. L’essere umano, invece, si vanta della politica che ha costruito in un tempo evolutivamente assai ristretto (poche migliaia di anni rispetto a milioni di storia): dov’è allora questa politica? O, al contrario, non è una questione di semplice politica ma di politica economica: chi dovrebbe fare politica economica sul territorio? Una regione carrozzone che abita in palazzoni su una costa distante? Un sindaco senza competenze e risorse?
Reagire al terremoto
In attesa che qualcuno trovi una risposta interviene il terremoto, che funziona da macchina del tempo, accelerando istantaneamente le conseguenze del declino: altera in pochi secondi equilibri precari, e distrugge quel briciolo di sistema economico che ancora sopravviveva.
La politica, quella con la p minuscola, grida slogan consensocentrici: “Tutto dov’era prima, come prima”. Non si sa ovviamente quando né per chi. Ammesso che abbia davvero un senso farlo.
Il terremoto è, in teoria, una grande opportunità, perché costringendoti a ricostruire ti costringe anche a chiederti come ricostruire. Come nota Giorgio Nardone, “non esistono risposte intelligenti a domande stupide”; ergo, se non troviamo la domanda giusta, il risultato non potrà che essere deludente. Dopo il terremoto del 1997 sono stati ricostruiti borghi splendidi, ma oggi non vissuti: le persone si erano nel frattempo trasferite, estinte o riorganizzate altrove.
“Non importa quale strada prendi, se non sai dove devi andare” chiosava il gatto a un’attonita Alice: nessuno sa dove andare, questo mi pare chiaro.
L’Aquila dal 2009 si è riorganizzata in periferia. E il centro è lungi da venire.
Conosco una persona gravemente malata che si ostina a correre nonostante una terapia distruttiva e che condivide esperienze di gente altrettanto tosta, contraddistinta dalla consapevolezza che nella vita il 10% è quello che ti succede e il 90% è come reagisci.
Ovviamente, siccome i problemi complessi non possono avere soluzioni semplici, non è che da poche righe possa uscire non dico una risposta, ma nemmeno un elenco esauriente di domande giuste. Può uscirne però almeno un seme: quello della cooperazione. Se la politica latita e lo Stato è bravo solo nell’emergenza, da qui bisogna (ri)cominciare.
Nella mia città fantasma (tutto il centro è zona rossa da oltre 2 anni) si ripartirà a breve con un mini centro commerciale in zona un tempo periferica. Forse i giochi sono fatti e il centro sarà l’ennesima cattedrale da turisti.
Mentre scrivo mi viene in mente il sindaco di Riace e gli extracomunitari che sono ospitati in qualche struttura in zona: visto che i nostri preferiscono il mare, la pianura, il centro commerciale, sento che loro, che hanno ancora fame e voglia di fare, avrebbero il desiderio e il coraggio di tentare qualcosa di diverso.
Sempre di roba impopolare finisco per parlare.
Photo Credits by La Presse
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