Che cos’è per te il lavoro?

C’è una domanda pronunciata da Walter Passerini sabato mattina a NobilitaFestival che mi ha molto colpita e che anche nei giorni seguenti ha continuato a ronzarmi in testa. Che cos’è per te il lavoro? Passerini sottolineava l’importanza della domanda, invitando i recruiter a chiedere sempre ai propri candidati che idea hanno del lavoro. Di fronte a questa […]

C’è una domanda pronunciata da Walter Passerini sabato mattina a NobilitaFestival che mi ha molto colpita e che anche nei giorni seguenti ha continuato a ronzarmi in testa. Che cos’è per te il lavoro? Passerini sottolineava l’importanza della domanda, invitando i recruiter a chiedere sempre ai propri candidati che idea hanno del lavoro.

Di fronte a questa domanda, mi sono sentita chiamata in causa direttamente. Lavoro da tanti anni in un’agenzia per il lavoro, ho fatto (e faccio) tanti, tantissimi colloqui. Ho passato mentalmente in rassegna i miei schemi di intervista e mi sono sentita come quando a scuola ti davano la soluzione dei problemi di logica: la risposta è lì sotto il tuo naso, ma non riesci a vederla perché la stai cercando da tutt’altra parte.

Quel giorno e i successivi, ho continuato a chiedermi come mai questa domanda – evidentemente fondamentale – non sia mai rientrata nei miei colloqui. Non che non ci abbia mai riflettuto sopra, anzi. È un argomento che mi appassiona, su cui mi informo, studio. Il senso che le persone attribuiscono al lavoro, come e se il lavoro contribuisce a costruirne l’identità, sono domande che  mi pongo in continuazione.

Nonostante questo ho dovuto ammettere che tra quelle che solitamente rivolgo ai candidati, quella domanda proprio non c’è!

Mio malgrado, ho iniziato a pensare che la mancanza fosse tutta mia. Che fossi io a non porre una domanda così importante e che tutti gli altri invece lo facessero, me ne sono voluta accertare e ho iniziato il mio personale sondaggio. Ne ho parlato con diversi colleghi, con persone che fanno il mio stesso lavoro in altre aziende: head hunter, career coach, imprenditori, responsabili HR, sindacalisti, insomma ho provato ad esplorare il punto di vista di persone cha abitualmente interagiscono con il personale delle aziende. Ma il riscontro è stato veramente deludente. Il più delle volte mi è stato detto – a mio avviso più per difendere il proprio operato che non per onestà intellettuale – che la domanda è superflua perché tanto la risposta si desume da quanto racconta il candidato durante tutto il colloquio.

Ci ho pensato e ripensato e sono sempre più convinta che Walter Passerini avesse proprio ragione.

Che cos’è per te il lavoro è una domanda fondamentale, potente che la maggior parte dei recruiter non fa! E sapete perché? Perché non siamo capaci di affrontare le risposte che ne verrebbero!

Cosa volete che vi risponda un candidato al quale state proponendo un lavoro a tempo determinato, magari mal pagato e sul quale non siete in grado di dare nessuna prospettiva di medio – lungo termine? Cosa volete che pensi del lavoro una persona di trent’anni che fino a quel momento ha avuto come unica esperienza quella di un call-center con un turnover altissimo e dal quale è stato cacciato dopo mesi senza nemmeno una spiegazione? Quale senso può dare al lavoro un individuo che a più di cinquant’anni lo perde e che ha enormi difficoltà per  ritrovarlo. Beh…io spero per lui poco o nessuno, altrimenti il prosieguo di quel colloquio sarebbe davvero difficile da gestire.

Il punto fondamentale sta proprio qui. C’è la necessità di riappacificarsi con il concetto di lavoro. Il lavoro non è una merce, il lavoro non è una tecnologia, lavorare non può voler dire soltanto “guadagnare qualcosa”. Il lavoro è relazione, è realizzazione di sé con gli altri. Oggi il lavoro è sempre più individualizzato e la sua dimensione collettiva (e di conseguenza la tutela) è stata completamente distrutta dalla flessibilità ad ogni costo.

Il lavoro per molti è un diritto, per altri un progetto – dice Passerini – ma quando il lavoro manca è fondamentale costruire una rete di supporto che ci permetta di passare dal “diritto” del lavoro al “diritto” di avere una rete qualificata ed efficace di servizi che portano al lavoro. Alla rivendicazione del lavoro che non c’è, dovrebbe aggiungersi quella dell’orientamento che manca completamente.

Le persone hanno il diritto di sentirsi chiedere “che cos’è per te il lavoro”? Ma soprattutto hanno il diritto di poter rispondere pensando ad un orizzonte che disegni il progetto di una vita intera. E noi, che siamo operatori di questo mercato, abbiamo il dovere di porre questa benedetta domanda e di ascoltare le risposte che ci vengono date, facendoci interpreti. Fino a quando in Italia non ci saranno gli orientatori di concezione europea, gli orientatori siamo noi e di questo dobbiamo assumercene la piena responsabilità.

Quando ho iniziato a lavorare in questo settore, fin da subito, ho maturato la convinzione che le agenzie per il lavoro fossero una delle poche modalità di accesso al mercato del lavoro per un’ampia fascia di soggetti (soprattutto quelli particolarmente deboli) che altrimenti nessuna azienda si sarebbe mai presa la briga di prendere in considerazione.

Oggi, dopo più di dieci anni, mi rendo conto che il settore è cambiato moltissimo e non solo dal punto di vista normativo. Quello che percepisco in maniera forte è soprattutto un cambiamento culturale. Da un lato le ApL (o almeno la maggior parte di esse) vengono finalmente riconosciute da candidati, lavoratori e aziende come interlocutori professionali e garanti della legalità;  dall’altro l’ApL stessa interpreta il proprio ruolo in maniera sempre più incisiva nel determinare gli indirizzi delle politiche legate al mondo del lavoro. A fronte di questi cambiamenti, noi che operiamo all’interno di questo settore siamo chiamati a rispondere con una crescente professionalità alle istanze di orientamento e di supporto che coloro che si rivolgono a noi a diritto ci chiedono.

Che cos’è il lavoro per tutte queste persone? Per molti è sicuramente una necessità, un mezzo attraverso il quale condurre una vita dignitosa. Tanti, tantissimi sono coloro che si rendono disponibili per qualsiasi tipo di attività, senza indicare né preferenze, né ambizioni, né inclinazioni, evidenziando così il significato meramente strumentale che riveste per loro il lavoro. Personalmente sono convinta che non c’è mai solo questo. Oltre il bisogno c’è un desiderio di riconoscimento, oltre la necessità stingente c’è la convinzione di non poter ambire ad altro, oltre la disponibilità c’è la voglia di mettersi in gioco, oltre l’apparente mancanza di ambizione c’è spesso la stanchezza e la sfiducia.

La scelta è nostra: possiamo far finta che tutto questo non esista, che oltre a quello che ci viene detto non ci sia nient’altro, oppure possiamo provare a restituire il lavoro alla persone valorizzandone senso e significato, portandoli alla luce anche quando sembrano non esserci. Possiamo scegliere di chiedere alle persone che cos’è per loro il lavoro e possiamo decidere di ascoltare quello che avranno da raccontarci.

Quel giorno a Nobilita sono state dette molte, moltissime altre cose su come oggi il lavoro viene progettato, considerato, vissuto, mortificato, tutelato, perso, trovato, valorizzato, ecc. Gli argomenti e gli interventi sono stati tanti e tutti di qualità. Personalmente, quello che porto via con me da questa esperienza è una domanda, che da oggi ho deciso di porre tutte le volte che ne avrò l’occasione.

CONDIVIDI

Leggi anche

Guai a parlare di fabbrica nelle Università!

Ai primi di dicembre ho prenotato insieme agli amici del Cammino di Santiago un weekend in Sardegna per festeggiare l’inizio della Primavera e farci qualche bella camminata (e mangiata) insieme dopo l’esperienza dei circa 140 km la scorsa estate. A fine febbraio, dopo aver rimuginato un paio di mesi, mi scuso con gli amici, ma […]