In Toscana la prima legge sulle Lobby

Il nostro ordinamento giuridico non prevede una normativa che regolamenti la rappresentanza di interessi particolari in Parlamento e dal 1948 ad oggi sono state presentate circa 25 proposte di legge (mi scusino i puristi se ho tralasciato qualche cosa) per disciplinare il fenomeno lobbistico ma nessuna è mai stata discussa in aula. Solo in Toscana, […]

Il nostro ordinamento giuridico non prevede una normativa che regolamenti la rappresentanza di interessi particolari in Parlamento e dal 1948 ad oggi sono state presentate circa 25 proposte di legge (mi scusino i puristi se ho tralasciato qualche cosa) per disciplinare il fenomeno lobbistico ma nessuna è mai stata discussa in aula. Solo in Toscana, nota regione “rossa”, la situazione è decisamente migliore poiché è stata la prima a dettare una specifica disciplina in materia. Con la legge regionale n. 5 del 2002, il fenomeno lobbistico è stato chiaramente istituzionalizzato. Quasi un paradosso. La legge, che è stata approvata con una larga maggioranza e col solo voto contrario del Pci (altro paradosso) aveva la scopo di favorire la presenza di soggetti rappresentativi di interessi nell’attività politica ed amministrativa della Regione in modo da consentire la trasparenza dell’attività politica.

In questo modo la Regione Toscana, così come poi anche la Regione Molise (che ha replicato con la propria legge regionale n. 24 del 2004), hanno riconosciuto i gruppi di pressione sviluppandone quel ruolo peculiare di portatori di interessi.
Ma in realtà, a ben vedere, qualunque gruppo di pressione cerca come meglio può un’azione di lobbying. Qualsiasi organismo di rappresentanza prevede tra i servizi che eroga ai propri affiliati la capacità di esercitare pressioni efficaci in modo da orientare la messa in opera di politiche pubbliche che siano il più possibile confacenti alle loro aspettative. Niente di illegittimo in tutto questo ma per quanto possa considerarsi fisiologico nel processo legislativo, nulla ha a che vedere con la democrazia partecipativa.

Nell’esperienza italiana l’attività di lobbying ha invece spesso puntato al risultato specifico e puntuale (l’emendamento di una legge, la delegittimazione parziale o totale di un progetto legislativo, il rinvio di una decisione politica) senza di fatto mirare ad aprire una qualche discussione di interesse pubblico. Non solo, l’esperienza italiana di lobbying formula giudizi di valore proponendoli come giudizi di fatto, il lobbying sa benissimo che solo “sparando alto e nel mucchio” ottiene attenzione dai media e che solo in questo modo si può tentare di influire su una classe politica quando questa sta ancora decidendo se e quali orientamenti assumere su una data tematica conflittuale.

Ma come vedono il lobbismo gli Italiani? Secondo Chiara Putaturo di TI – Transparency International Italia – l’informazione è considerata insufficiente dal 73% delle persone. Non solo: si evidenzia anche come un 70% sia convinto che il governo venga influenzato da poche organizzazioni e che la figura del lobbista sia associata a quella del faccendiere. Ed è per questo che TI Italia ha individuato alcune miles-stones da perseguire, ovvero:
1. L’istituzione, da parte del governo, di un registro pubblico dei lobbisti, garantito da un’autorità super partes.
2. L’apertura al pubblico del processo legislativo, soprattutto nelle primissime fasi dell’iter normativo e nella fase cruciale in cui le proposte di legge passano nelle Commissioni Parlamentari: due fasi salienti che però non sono pubbliche.
3. L’obbligo per i parlamentari di rendere pubblici i dettagli degli incontri con lobbisti e gruppi di interesse, oltre ad un maggiore controllo e alla trasparenza degli accessi al Parlamento e ai Ministeri, che devono essere registrati e resi pubblici.
4. L’introduzione di un Freedom of Information Act, che garantisca libero accesso ad ogni informazione e ai documenti prodotti e detenuti dalla pubblica amministrazione.
5. La regolamentazione del cosiddetto fenomeno delle “porte girevoli” (revolving doors) che includa anche l’attività di lobbying, e in particolare l’introduzione di “periodi di attesa” per ex parlamentari o membri del Governo o alti funzionari pubblici, durante i quali non può essere loro consentito di effettuare attività di lobbying nei confronti dell’istituzione in cui hanno svolto le proprie funzioni.

Se vogliamo avere una visione più complessa del fenomeno, possiamo fare un paragone tra Stati Uniti ed Europa: nonostante alcuni punti di somiglianza, di fatto offrono due modi completamente differenti. Più aggressivo lo stile targato Usa, più votato al compromesso quello di stampo europeo. La vera distinzione tra i due non è tanto cosa viene fatto, quanto come viene svolto il lavoro di influenza e di difesa degli interessi privati. Negli Stati Uniti fare lobby è considerato parte della politica, non crea gli imbarazzi a cui assistiamo in Italia e in Europa, e non c’è confine tra l’attività di avvocati e lobbisti.

Gli studi legali, ingaggiati per difendere posizioni verso leggi e atti amministrativi, hanno nelle loro fila esperti di politica e di organizzazione dei gruppi di pressione in grado di aggredire e influenzare in maniera diretta i decisori politici. Non solo, diverso è anche l’approccio della attività di controllo: ogni azione dei lobbisti americani è pubblicata online nel Federal Register, strumento che li vincola all’attività strettamente richiesta dai mandanti. I gruppi d’influenza europei invece, se non raggiungono totalmente l’obiettivo prefissato, hanno la possibilità di siglare compromessi che tengano conto dei vari interessi in gioco, senza preoccuparsi di andare oltre il proprio mandato.
È questo il genere di sfide che il legislatore italiano è chiamato a rispondere, se vuole ribadire il senso stesso della sua autorità istituzionale. Compito pesante, anche perché la proposta toscana fà da apripista a una di quelle riforme strutturali che l’Italia da troppi decenni rinvia non avendo il coraggio di affrontare apertamente un modus operandi che sostanzialmente simula una situazione di fatto.

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