Cambiare mercato senza cambiare radici

Chiesi Farmaceutici è una realtà parmigiana con una forte caratterizzazione multinazionale: 27 filiali in tutto il mondo per 5000 persone. Non ho detto una multinazionale con sede a Parma di proposito, poiché, come emerge da questa intervista con Ugo Bettini – il direttore del Personale – è evidente che il processo evolutivo (come amano definirlo in […]

Chiesi Farmaceutici è una realtà parmigiana con una forte caratterizzazione multinazionale: 27 filiali in tutto il mondo per 5000 persone. Non ho detto una multinazionale con sede a Parma di proposito, poiché, come emerge da questa intervista con Ugo Bettini – il direttore del Personale – è evidente che il processo evolutivo (come amano definirlo in azienda) che li ha portati ad avere una fortissima presenza con oltre l’80% del fatturato all’estero abbia un comune denominatore completamente differente da molti progetti di internazionalizzazione: mantenere fermo il punto da cui si parte. Parma, in questo caso.

Per me il cambiamento è la capacità di adattarsi all’evoluzione di un progetto, mi dice Ugo Bettini descrivendo il motivo per cui ho chiesto di incontrarlo. “Chiesi aveva la volontà di uscire dai confini nazionali e conquistare alcuni mercati lasciando ad ogni Paese l’autonomia necessaria per sentirsi il meno possibile dipendente da una realtà italiana”.

Mi faccio raccontare la storia di un’azienda in 3 fasi: “la fase pionieristica che inizia negli anni ’30 e che ha un po’ il sapore di quelle storie italiane, tuttavia comune a tante storie di aziende farmaceutiche italiane: siamo proprio agli albori. Il dott. Giacomo Chiesi era un farmacista della provincia di Parma che aveva il piacere e la fantasia di preparare da solo i prodotti e invece di venderli al banco in farmacia li proponeva direttamente ai medici partendo da Parma. Questo precursore di informatore medico scientifico aveva in dotazione una bicicletta; l’evoluzione del fatturato e del business lo hanno portato a dotarsi poi di una lambretta con cui ha iniziato a girare l’Emilia Romagna con enormi borsoni.

E’ stata un’evoluzione anche quella, mi viene da dire a Bettini.

Lui finisce di raccontare come Chiesi è uscita da una dimensione artigianale per diventare un laboratorio strutturato, semi industriale, con il supporto di una trentina di dipendenti e di informatori presenti in tutto il Nord Italia.

Giacomo Chiesi era il tipico imprenditore che scendeva in produzione, dove c’erano anche i figli, laureati in farmacia e che in azienda facevano un po’ di tutto. Paolo Chiesi racconta sempre che suo padre lo metteva a “fare il packaging”: un impacchettamento molto artigianale, che consisteva nell’inscatolare pillole e inserire il foglietto illustrativo. Siamo dunque in una fase dove il modello è il classico modello di imprenditoria italiana con una coesione anche operativa, massima. Conosceva tutti i dipendenti per nome, si interessava di loro non solo dal punto di vista professionale, ma anche personale: una famiglia allargata, insomma.

E’ importante fare questo quadro, perché è evidente che poi, quando l’azienda si trasforma, anche le persone che erano prima abituate a un modello imprenditoriale di un certo tipo hanno delle aspettative, delle riserve, delle resistenze.

“Una costante che non è mai mutata, a dispetto della grandezza dell’azienda, è la vicinanza al territorio e alla sua gente”. Ugo Bettini prosegue spiegando che la trasformazione è avvenuta verso la fine degli anni ’80 dove questa dimensione fortemente italiana e nazionalistica pura e semplice inizia a trasformarsi in un progetto di allargamento dei confini, non soltanto con un piano strategico articolato ma anche attraverso la sensibilità dell’imprenditore che ha deciso di andare oltre i propri confini, affidandosi un po’ al caso e un po’ all’intuizione. Alla fine degli anni ’80 tutto questo diventa un vero e proprio piano strategico, un progetto in cui anche tutta la struttura dell’azienda si trasforma in tal senso.

Qui entriamo nel vivo, perché a me, chiaramente, interessa capire come un organico di dipendenti così fortemente radicati al loro territorio e alla loro cultura abbiano vissuto questo cambiamento. Notoriamente quando avvengono questi passaggi epocali qualcuno ci rimette sempre. Provoco Bettini, ma non mi sembra particolarmente turbato.

“Abbiamo impostato questa operazione un po’ come l’Inghilterra che va ad aprire le colonie nel Commonwealth. Con un approccio quasi “colonialista”. I dipendenti l’hanno vissuta come una scelta commerciale ma non come una minaccia o un cambiamento di pelle. Abbiamo cambiato il paradigma: non eravamo noi a diventare “esteri”, ma era un’azienda parmigiana che apriva filiali all’estero”.

Conosco Bettini da qualche anno per sapere che la “Pubblicità Progresso” non gli appartiene. Voglio sapere quali possono essere state le resistenze con cui un’azienda si deve confrontare in questi momenti e non c’è bisogno di fare domande.

“Abbiamo naturalmente dovuto far fronte ad alcune resistenze: prima di tutto quelle linguistiche, perché un’azienda nata, cresciuta e sviluppata in un contesto provinciale non era certamente avvezza a parlare inglese. Ci siamo trovati di fronte ad una impreparazione dal punto di vista non solo linguistico ma anche culturale. Abbiamo dunque optato per un’internazionalizzazione molto leggera con grande rispetto e libertà di azione per le filiali estere. Non c’è mai stato un processo di italianizzazione delle sedi fuori confine ma sempre un annettersi della realtà fortemente rispettoso delle tradizioni locali. Quindi un management locale con libertà d’azione da parte del general manager. Ognuno poteva mantenere la propria lingua, la propria cultura, le proprie tradizioni.

Dal ’93 in poi c’è stata la terza fase: un forte cambiamento anche dal punto di vista di management. Abbiamo importato in azienda manager con esperienze internazionali che provenissero da multinazionali e che avessero già in qualche modo caratteristiche che ci permettessero di fare un salto in avanti”.

In che modo l’anima locale e quella esterna si sono integrate?

“Hanno convissuto in maniera naturale: le persone che provenivano da esperienze multinazionali e che si sono integrate nel modello valoriale e familiare si sono rivelate dei successi e lo sono rimaste fino ad oggi. Chi è rimasto invece ancorato a modelli internazionali e non si è integrato è stato rigettato dall’organizzazione. Le persone che abbiamo mandato via non sono state allontanate perché incompetenti ma perché non si integravano con una realtà estremamente forte nei valori e con una famiglia ancora molto presente”.

E l’imprenditore, a sua volta, in che modo si è rapportato con una cultura differente da quella che aveva creato lui per primo, come si è integrato nel veder trasformare la sua creatura?

“Partiamo dal presupposto che tutto nasce dalla consapevolezza della necessità di avere persone diverse nell’organizzazione e accettarne le diversità. Poi c’è stato il vero passaggio: da necessità a fiducia, che è tipico nell’assetto delle organizzazioni familiari. La competenza è importante, ma se non c’è fiducia la famiglia diventa riluttante. Il vero risultato ottenuto dal passaggio di questa ondata che è durata circa due anni, è che tutto il top management è rimasto in azienda”.

Saluto Bettini con la convinzione, ancora una volta, che si possa internazionalizzare senza farsi fagocitare, mantenendo sempre intatte le proprie radici.

 

 

[Credits immagine: Ramocchia]

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