Commessi ieri, oggi, domani

In principio era la commessa. Sì, perché negli anni del boom economico, che ha favorito la proliferazione di tanti piccoli negozi – che poi noi abbiamo chiamato rete di vendita al dettaglio – il lavoro del commesso era coniugato principalmente al femminile. Dai quattordici anni, finiti gli studi, si consigliava il lavoro da commessa alle […]

In principio era la commessa. Sì, perché negli anni del boom economico, che ha favorito la proliferazione di tanti piccoli negozi – che poi noi abbiamo chiamato rete di vendita al dettaglio – il lavoro del commesso era coniugato principalmente al femminile.

Dai quattordici anni, finiti gli studi, si consigliava il lavoro da commessa alle ragazze che non volevano andare in fabbrica o continuare a studiare. I manuali dell’epoca, quelli dedicati ai mestieri, presentavano questo lavoro come occasione per “arrivare a farsi una posizione nel commercio”. Un punto di partenza per una carriera che avrebbe condotto le giovani o i giovani ad assumere ruoli sempre più importanti, per ambire poi a diventare piccoli imprenditori, acquisendo magari la proprietà del negozio in cui stavano lavorando.

Del resto, la parola commesso viene dal verbo latino committo, che significa affidare o consegnare. Alla base del rapporto tra padrone e commesso stava quindi la fiducia, che veniva prima ancora del contratto, e che si basava su alcuni requisiti essenziali validi ancora oggi.

Gli albori della vendita

Le buone doti della commessa di negozio” erano quelle richieste a tutti i lavoratori: onestà, buona volontà, cortesia, intuito, buon senso, buon gusto, ordine, pulizia. Questo era evidente perché la commessa si poneva come intermediaria tra gli interessi a vendere del padrone e i bisogni da soddisfare dei clienti, più propensi a spendere il proprio denaro quando accolti con garbo e professionalità. La commessa doveva prendersi cura del cliente, seguendolo in tutte le fasi dell’acquisto, dalla scelta della merce al confezionamento, mostrandosi attiva nel proporre novità e offerte che facessero sentire ognuno un po’ speciale.

I negozi non tenevano tutta la merce esposta e non prevedevano il libero servizio da parte di chi entrava. Il cliente doveva affidare le sue richieste alla commessa, che avrebbe provveduto a tirare fuori da cassetti e scaffali quello che avrebbe potuto soddisfarlo. Conclusa la vendita e uscito il cliente, ogni cosa doveva tornare al suo posto in attesa del successivo avventore.

Il rapporto personale e di confidenza con il cliente inizia a cambiare negli anni Sessanta del secolo scorso con la diffusione dei magazzini a prezzo unico (UPIM, Unico Prezzo Italiano Milano) o a prezzo standard (STANDA). Nelle grandi città, proiettate verso una modernità che legava l’idea del benessere al consumo, la commessa perde il suo ruolo di “sensale”: il servizio di vendita si spersonalizza e la mansione si riduce al riordino della merce negli espositori.

Commessi e grande distribuzione

Nella prima esperienza della grande distribuzione si assiste all’applicazione dell’organizzazione piramidale, tipica della fabbrica, con ruoli e mansioni rigorosamente definiti anche nell’ambito della vendita. Ogni commessa ha il suo reparto, il suo banco vendita, i suoi espositori da curare. Non c’è più spazio per la relazione con il cliente, che è libero di entrare e di girare tra gli scaffali per acquistare tutto quello che desidera e che trova già esposto e prezzato. Quel nuovo stile di vendita trasforma il magazzino anche in un luogo in cui curiosare e ripararsi dal freddo o dalla pioggia, sicuri del fatto che nessuno avrebbe posto obiezioni o fatto domande. Alla commessa si chiedeva infatti di rispettare questo girovagare delle persone nel punto vendita, ritenuto funzionale a far nascere il desiderio di un acquisto non preventivato.

Finita l’austerity degli anni Settanta, il decennio successivo vede la ripresa dei consumi grazie anche alla costruzione dei grandi centri commerciali, fuori dagli agglomerati urbani. Nel mondo luccicante e inebriante della grande distribuzione, nei nuovi templi del consumismo, la tendenza ad acquistare qualsiasi cosa, anche se superflua, in nome di un benessere affermato dal possesso, trasforma profondamente la figura dei commessi. La quantità dei prodotti e il numero delle referenze giocano un ruolo essenziale nel mettere in secondo piano l’importanza degli addetti alle vendite, le cui mansioni vengono ridotte alla mera esecuzione di compiti manuali e ripetitivi. Svanisce l’impatto sociale dei commessi, che perdono il loro ruolo di “cerniera” tra commerciante e cliente – ruolo che continuerà a esistere solo nei negozi di vicinato e nelle boutique dell’alta moda.

Il lavoro interinale

L’ondata euforica dei consumi subisce un brusco rallentamento agli inizi degli anni Novanta con lo scandalo di Tangentopoli. Inizia un lungo periodo di stagnazione economica, che costringe le imprese impegnate in riorganizzazioni e ristrutturazioni a estromettere personale meno qualificato o con mansioni generiche. La categoria dei commessi è tra quelle che maggiormente subisce perdite di posti di lavoro e riduzioni di orario. Se consideriamo che la maggior parte degli impiegati nel commercio erano donne possiamo renderci conto della portata sociale del fenomeno, che non riguardava soltanto la riduzione degli stipendi e quindi del potere di acquisto, ma anche l’estrema difficoltà di reimpiego nello stesso settore.

Alla fine degli anni Novanta, dei provvedimenti legislativi in materia di lavoro (il cosiddetto “pacchetto Treu”) aprono la strada all’occupazione interinale. Anche nei negozi le persone non si assumono più, ma si “utilizzano” stipulando un contratto commerciale con apposite agenzie autorizzate. Per accontentare un mercato che chiedeva di disporre delle persone solo nei momenti di effettivo bisogno, si precludeva al lavoratore quella continuità di prestazione necessaria a garantire non soltanto retribuzione, ma anche professionalità e competenze.

Il precariato e il franchising

La già difficile vita dei commessi viene ulteriormente scossa dalla liberalizzazione dei contratti di lavoro a tempo determinato, che agli inizi degli anni Duemila apre la strada alla precarizzazione. L’adozione della moneta unica europea crea ulteriori incertezze. In una società i cui consumi non sembrano capaci di sostenere l’economia interviene di nuovo il Governo con la Riforma Biagi, che introduce ulteriori elementi di flessibilità nel mercato del lavoro: lavoro a progetto, associazione in partecipazione e collaborazione occasionale diventano i nuovi mantra delle tecniche di “assunzione”.

Alcune catene in franchising, cogliendo la palla al balzo, si rendono protagoniste di fenomeni di fantasioso utilizzo di questi schemi contrattuali: invece di assumere personale con un regolare contratto di lavoro dipendente, iniziano a utilizzare il contratto di associazione in partecipazione. La commessa, associata in partecipazione, avrebbe apportato il lavoro; l’azienda avrebbe messo il capitale; insieme avrebbero diviso utili e perdite.

Un lavoro apparentemente autonomo, remunerato periodicamente da acconti sugli utili futuri, da conguagliarsi in base al rendiconto annuale, che in quasi niente si distingueva da quello svolto dai lavoratori dipendenti. In caso di perdite, però, gli associati avrebbero dovuto partecipare alla loro copertura. Dopo la Fornero, che già nel 2012 aveva circoscritto la possibilità di stipulare questi contratti, nel 2013 è intervenuta una legge specifica per consentire una “sanatoria” generalizzata per la trasformazione di tutti gli “associati in partecipazione” in lavoratori dipendenti, tramite il pagamento di un modesto importo e con l’unico onere di garantire la continuità del rapporto di lavoro per i sei mesi successivi alla stabilizzazione.

Le manovre sul lavoro del 2014 e 2015, introducendo nuove agevolazioni ed esoneri contributivi, hanno definitivamente aperto la strada alle assunzioni a basso costo. L’uso disinvolto di stage, tirocini extra-curriculari e alternanza scuola-lavoro hanno fatto il resto.

Quello che una volta era un lavoro basato su qualità del servizio e fiducia nelle relazioni interpersonali, si è trasformato in una prestazione fungibile che fa perno soprattutto sulla disponibilità a coprire turni e orari di apertura (anche la domenica e i giorni di festa). La sminuita importanza dei requisiti qualitativi richiesti ha ridotto le prospettive di permanenza e quindi di crescita professionale e sociale; l’aumentata competizione nell’accesso al lavoro ha contribuito a far accettare condizioni di lavoro sempre peggiori.

Le prospettive dei commessi

Quale futuro dunque per le commesse e i commessi?

Secondo alcuni guru dell’economia digitale, i punti vendita tradizionali si trasformeranno in luoghi di esperienza, vetrine degli store digitali, “camerini di prova con assistenti virtuali”; insomma, centri di ritiro degli ordini on line che non avranno più bisogno di commessi. Luoghi in cui la relazione è demandata ai social network e alle chat.

Tuttavia i dati sui volumi degli acquisti effettuati confermano che il negozio fisico è ancora il luogo preferito per lo shopping. La sfida per la sostenibilità economica deve essere affrontata con l’integrazione delle nuove tecnologie nel processo tradizionale di vendita, e con la valorizzazione del personale, dei commessi.

Non si può competere con i negozi on line puntando sulla continua riduzione dei costi. È necessario differenziarsi, e la vera differenza la fanno le persone, con la loro capacità di creare relazioni.

 

Photo by Paul Townsend [CC BY-NC-ND 2.0] via Flickr

CONDIVIDI

Leggi anche

Commessi ieri, oggi, domani

In principio era la commessa. Sì, perché negli anni del boom economico, che ha favorito la proliferazione di tanti piccoli negozi – che poi noi abbiamo chiamato rete di vendita al dettaglio – il lavoro del commesso era coniugato principalmente al femminile. Dai quattordici anni, finiti gli studi, si consigliava il lavoro da commessa alle […]