Correre (e sorpassare) il cancro

«Il 27 aprile dello scorso anno mi sono fatto otto ore di intervento per un tumore al pancreas all’Istituto del pancreas di Verona: una maratona. Il 4 luglio, dopo tanto tempo trascorso tra ospedale e casa, sono uscito per la prima volta a fare due passi: da una piazza all’altra di Noale avrò percorso in […]

«Il 27 aprile dello scorso anno mi sono fatto otto ore di intervento per un tumore al pancreas all’Istituto del pancreas di Verona: una maratona. Il 4 luglio, dopo tanto tempo trascorso tra ospedale e casa, sono uscito per la prima volta a fare due passi: da una piazza all’altra di Noale avrò percorso in tutto 250 metri e ci ho impiegato un’ora.»

Fabrizio Stevanato. Un uomo e la sua malattia, un passo dopo l’altro, come la maratona di Venezia, conclusasi ieri, di 42 km in poco più di cinque ore con un meteo che avrebbe scoraggiato chiunque. Da brividi in ogni senso.

«Più correvo e meno sentivo la fatica e le avversità del tempo.»

Una corsa, una vittoria infinita. Un esempio per chiunque, ma soprattutto per chi è scoraggiato, demotivato, abbattuto dalla malattia.

«La mia non è una sfida personale e solitaria. In questi mesi ho percorso tutti i passi possibili per allontanarmi dal tunnel oscuro di quella malattia che si chiama tumore al pancreas. Li ho compiuti grazie alla straordinaria équipe dell’Istituto del Pancreas di Verona e della Medicina dello Sport ULSS3 Serenissima, e a un sacco di amici che mi hanno aiutato e sostenuto.»

Dopo l’intervento i dubbi e le preoccupazioni per il recupero; gli consigliano di fare moderata attività fisica, «ma con il “moderato” io non ci vado d’accordo e quindi è partita questa sfida con il mio chirurgo».

Per questo con la sua associazione “Corri in muso al cancro” realizza una sfida solidale e di sensibilizzazione.

«Ogni volta, in quello spazio, incrocio gli sguardi di terrore dei parenti di chi in quel momento si trova in sala operatoria. Persone in attesa, che chiedono una parola tranquillizzante dai medici. Ogni volta i medici, per rispondere, mi indicano da testa a piedi dicendo ai parenti: “Vede questo signore? Pochi mesi fa era anche lui in sala operatoria e oggi è così: in piedi e in forma”. E ogni volta vedo nei loro occhi increduli un’iniezione di fiducia. E così corro: dal mio tornare a star bene vorrei ricavare una piccola medicina di speranza e coraggio per gli altri».

Ieri una maratona massacrante, oggi è già al lavoro. Al telefono mi chiede scusa perché è in riunione, e concordiamo di sentirci più tardi. Pochi minuti al telefono e mi coinvolge la sua carica, la sua energia, e rivedo il sorriso contagioso di tante foto viste.

 

 

Fabrizio, è stata dura, con l’aggravante del meteo che ha messo in ginocchio mezza Italia. Da dove ti viene tutta questa energia?

Sinceramente me lo chiedo molte volte anch’io. Non avevo mai corso prima in vita mia, anzi l’ho sempre detestato. Fatica e costanza sono sempre state l’antitesi del mio modo di essere, e i miei 118 chili che pesavo il giorno dell’intervento stavano a dimostrarlo: guizzo e sregolatezza erano le mie parole d’ordine. Forse la malattia e il lungo periodo di degenza e inattività mi hanno fatto capire quante occasioni mi sono perso per poca dedizione e costanza, ed è scattato qualcosa per dimostrare in primis a me stesso che il cancro non mi ha tolto nessuna possibilità. O forse più semplicemente mi è scattata la voglia di vivere la vita fino in fondo.

Hai un sorriso meraviglioso e contagioso. È l’immagine della vita come deve essere vissuta. Un sorriso di rinascita. Sei consapevole ovviamente di essere un esempio, una speranza per tanti?

All’inizio l’idea e il progetto “Corri in muso al cancro” l’ho preso in modo spavaldo e spensierato, come al mio solito. Poi però, mano a mano che prendeva forma e si accresceva l’impatto mediatico, il peso di essere un esempio e una speranza ha cominciato a farsi sentire. Le persone che in un modo o in un altro mi contattano e che mi cercano anche solo per una parola di conforto, per sé o per un proprio caro, sono tantissime. Devo dire che non è sempre facile rimare lucidi, ma ho la fortuna di avere dalla mia parte un sacco di persone che mi sorreggono e che a loro volta sono le mie ancore di salvezza.

Quando sei lì, da solo, tu e la fatica, tu e i muscoli che urlano, come fai a non fermarti?

Devo dire che forse madre natura deve avermi dato un “fisico bestiale” e io non me ne ero mai accorto. Non sono state poche le occasioni in cui sono stato il primo a meravigliarmi delle risposte fisiche che il mio corpo mi dava nei tanti test e negli allenamenti; quello che mi dicevano di fare io lo facevo, e vedevo che potevo sempre andare un po’ oltre. La parte debole per me è sempre stata la testa, ed è stato forse su questo aspetto che ho dovuto superare gli ostacoli più duri. Saper superare la fatica per me era più una questione di pigrizia psicologica che di fatica fisica, ma grazie a qualche stratagemma impartito dalla psicologa sportiva e pensando che “avevo visto di peggio” sono sempre riuscito a superare anche i momenti più difficili. Poi c’è da dire che, mano a mano che la cosa si faceva più concreta, è aumentata la consapevolezza che un po’ di responsabilità verso tutte le persone coinvolte nel progetto c’era, e soprattutto ho percepito che tante persone che si trovavano ad affrontare situazioni simili a quelle in cui mi sono trovato io mi osservavano. Poi di mio sono un caprone, in genere quando voglio veramente una cosa ci sbatto le corna ma non mollo.

Cosa potresti dire a chi ha voglia di mollare la sua lotta personale, a chi ha gli occhi spenti per la stanchezza di coricarsi con la morte?

In tutta onestà, penso proprio di non poter dire nulla a nessuno. Io quando c’ero dentro fino al collo ero fortemente infastidito da chi cercava di impartirmi le solite retoriche infusioni di ottimismo. Non esistono soluzioni preconfezionate che consentano in quei momenti di affrontare una malattia come quella sapendo benissimo che le tue possibilità di salvezza sono appese a percentuali a una cifra. Bisogna trovarcisi per capire. Nel lungo periodo in cui sono stato ricoverato ho visto persone reagire nei modi più diversi: chi si arrendeva, chi si arrabbiava, e si arrabbiava con il mondo intero, e chi reagiva e affrontava la sfida con il sorriso. Io ho scelto di combattere e di affrontarla con il sorriso, fosse solo anche per far squadra con chi mi stava intorno, dai miei cari fino ai medici, agli infermieri e agli amici. L’unica cosa che posso fare è raccontare la mia esperienza: se qualcuno vorrà e potrà trarne un qualche supporto, ne sarò felicissimo.

Un punto di forza nella tua battaglia è stata l’équipe del centro tumori al pancreas di Verona, un centro di eccellenza in territorio italiano. Com’è stata la tua esperienza?

Definirlo un centro di eccellenza in territorio italiano è riduttivo: sono un centro di eccellenza a livello mondiale. Diamo a Cesare quel che è di Cesare! Detto questo, posso dire che la mia esperienza è stata eccellente come lo è il centro. Tralasciando gli aspetti tecnici, che sono stati il massimo che la scienza medica mette a disposizione in questo momento, la prima sensazione che ho ricevuto quando vi ho messo piede è stata di sicurezza e accoglienza. Di sicurezza perché senti di aver a che fare con dei professionisti di cui ti puoi fidare e di accoglienza perché ricevi prima di tutto ascolto, ti senti trattato con rispetto e percepisci subito che non sei una cartella clinica ma una persona. Il mio modo di essere e il mio carattere sicuramente avranno influito, ma con tutti loro ho stretto un rapporto che va ben oltre l’aspetto operatore sanitario-paziente. Un altro aspetto di fondamentale importanza per il tipo di organo in questione è che non si tratta di un reparto di chirurgia: è un centro multidisciplinare, il primo in Italia interamente dedicato a diagnosi, cura e ricerca nel campo delle malattie pancreatiche. L’Istituto del Pancreas raccoglie l’esperienza sviluppata in oltre quarant’anni di lavoro da un gruppo composto da chirurghi, gastroenterologi, radiologi, oncologi, patologi e psicologi. Un luogo dove chi si trova a combattere con una patologia così delicata, può trovare in un unico posto tutte le risposte di cui ha bisogno.

 

 

Giuseppe Malleo è nato nel 1980 a Caltanissetta. È Dirigente Medico presso l’Unità di Chirurgia Generale e del Pancreas dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona. Ha eseguito più di 1300 interventi, prevalentemente nell’ambito della chirurgia pancreatica. Si occupa di ricerca sui tumori del pancreas e su aspetti legati alle complicanze in chirurgia pancreatica; è autore di 130 articoli scientifici pubblicati su riviste internazionali, ha un impact factor di circa 600 e un H-index di 32. È inoltre autore di 16 capitoli di libro, e ha all’attivo più di 50 relazioni a congressi nazionali e internazionali. È uno degli Academic Editors della rivista Medicine. Ha vinto il premio AISP (Associazione Italiana per lo Studio del Pancreas) nel 2007, l’European Pancreatic Club travel grant nel 2011, 2012, 2013, 2014, l’European Hepato-Pancreato-Biliary Association young investigator award nel 2013, e l’International Hepato-Pancreato-Biliary Association best oral presentation award nel 2014.

 

E mi fermo qui, il suo curriculum è lunghissimo. È passione più che lavoro?

È un lavoro fatto con molta passione. Il mix perfetto!

Com’è stata la sua esperienza con un vulcano come Fabrizio Stevanato?

Fabrizio è venuto nel nostro ambulatorio in seguito alla diagnosi di una neoplasia pancreatica. Ha affrontato la situazione con molto dinamismo e positività sin dall’inizio. Poi l’intervento, molto impegnativo, e il postoperatorio altrettanto difficile. Non si è mai abbattuto, mai rassegnato. E dopo la fine del percorso di cura ha trovato la sua via nella corsa. “Sono debole, cosa posso fare per riprendermi?”. Io gli risposi, quasi per scherzo: “Inizia a correre Fabrizio!”. Da questa frase alla maratona di Venezia è passato un anno, che lui ha vissuto con determinazione ed entusiasmo, coinvolgendo la politica, l’imprenditoria, la stampa. Un vulcano, esattamente! Fabrizio ha dato voce non solo alla sua storia personale, ma alla storia di migliaia di persone che ogni giorno combattono faticosamente la battaglia contro i tumori del pancreas. Per dimostrare che a volte una via d’uscita c’è.

Mi perdoni se la definisco un ragazzo di quasi 40 anni, ma lei sembra più una di quelle menti brillanti che lasciano il paese. Perché è ancora in Italia?

Ormai si parte dal presupposto che le menti brillanti debbano per necessità lasciare l’Italia. Questo assioma deriva da un fondo di verità, nel nostro paese ci sono difficoltà rilevanti legate al mondo del lavoro. Ma non possiamo farne una legge generale: io sono ancora in Italia perché – nel mio campo – non potrei avere nulla di meglio all’estero. Ciò vale per qualità della formazione chirurgica ricevuta, per l’organizzazione del gruppo di lavoro, e per l’accesso alla ricerca. A Verona l’età media della nostra équipe è di 40 anni. E siamo tutti chirurghi autonomi, cosa piuttosto inusuale in un ambito ad alta complessità tecnica e gestionale. Questo per dire che non sono solo, c’è un’intera generazione di chirurghi “giovani” che sta crescendo bene, e non solo a Verona.

Quanto è importante fare ricerca in Italia oggi?

Fare ricerca è importante sempre e dovunque. Nell’immaginario comune il concetto di ricerca è legato alla spiegazione dei fenomeni più complessi, come appunto la biologia e la cura dei tumori. In realtà ogni aspetto della nostra esistenza, anche il più semplice e “scontato”, è indissolubilmente legato alla ricerca: c’è ricerca dietro la forma di una bottiglia di plastica, dietro il modo di rizollare la terra o di fare fermentare il vino, dietro l’interpretazione dei fenomeni politici, nelle scienze sociali. La ricerca presuppone cultura, studio, generazione di ipotesi, verifica sperimentale. Negare una visione scientifica del mondo, basata cioè sul metodo sperimentale, è negare concettualmente il progresso, l’innovazione, il cambiamento. Sia le istituzioni pubbliche sia i privati dovrebbero potenziare in maniera sostanziale le risorse dedicate alla ricerca in ogni ambito del sapere umano; e le nuove generazioni – a partire dai bambini – dovrebbero essere educate in maniera trasversale al metodo scientifico e alla corretta gestione delle informazioni, ormai disponibili senza alcun tipo di filtro.

Quanto è difficile fare ricerca in Italia oggi?

Abbastanza difficile! Limitando il discorso al mio ambito, le difficoltà sono legate principalmente a fattori economici e logistici. Primo, fare ricerca costa, perché sono necessarie persone, tempo e tecnologia adeguata. Purtroppo l’allocazione di fondi pubblici alla ricerca è in costante diminuzione, con tutte le conseguenze che si possono immaginare: aumento della competitività per reperire finanziamenti, possibile mancanza di continuità per progetti a lungo termine. Esistono diverse possibilità di finanziamento da parte di enti privati, ma anche in questi casi la competitività è straordinariamente elevata. In generale, si hanno maggiori opportunità se si è parte di gruppi di ricerca consolidati e multidisciplinari, che possono integrare in un singolo progetto competenze cliniche e di laboratorio. Secondo, in ambito biomedico la figura del ricercatore “puro” è piuttosto inusuale. Ad esempio, io faccio il chirurgo, e la maggior parte della mia attività quotidiana è impegnata tra corsia, sala operatoria e ambulatorio. Dedichiamo alla ricerca le ore serali, o alcune giornate specifiche che riusciamo faticosamente a ritagliare. È una sorta di seconda attività lavorativa. Fortunatamente, nella struttura in cui lavoro i nostri medici specialisti in formazione e i dottorandi di ricerca contribuiscono in maniera attiva e proficua. Inoltre, le nostre data manager/project manager rendono il processo di gestione dei dati e il monitoraggio delle opportunità di finanziamenti più semplice.

Come si fa a trattenere giovani brillanti in cerca di futuro?

Concettualmente è semplicissimo: basta offrire una posizione stabile e autonomia lavorativa, nel contesto di un gruppo in cui ognuno agisce in relazione al suo ruolo e alle sue competenze. In pratica – almeno nel nostro Paese – sembra che ciò sia utopia. Nel settore medico, a causa dell’alto numero di pensionamenti della generazione assunta a fine anni Settanta-inizio anni Ottanta, ci sarà una grave carenza di camici bianchi: potrebbe essere il momento storico giusto per aprire le porte a migliaia di giovani professionisti che guardano sempre di più all’estero come la soluzione definitiva. Questo però potrebbe non bastare. È necessario che i giovani, oltre a essere reclutati, siano adeguatamente formati e valorizzati. Le scuole di specializzazione (specialmente di area chirurgica) spesso non offrono standard formativi pari a quelli europei o statunitensi; e non c’è sempre continuità nel passaggio tra specializzazione e assunzione nel sistema sanitario nazionale o nella sanità privata. Inoltre, il ritardo nella formazione specialistica sul campo porta con sé una acquisizione di autonomia decisionale ed esecutiva nettamente più tardiva rispetto al mondo anglosassone. Questi fenomeni dovrebbero essere quantomeno limitati per avere la certezza di potere trattenere, valorizzare, e garantire un futuro ai nostri migliori talenti.

Come si costruisce materialmente un centro d’eccellenza?

È una domanda da fare al mio attuale direttore, il prof. Claudio Bassi, che ha contribuito in quarant’anni di carriera alla fondazione e allo sviluppo del nostro centro. Noi raccogliamo da lui e da altre importanti figure della pancreatologia italiana, adesso ritirate dall’attività clinica o andate a dirigere altri centri, una grossa eredità da trattare con cura e rispetto. Il loro principale merito è stato anteporre al resto l’armonia di gruppo. Gli ingredienti base sono stati (e sono ancora) la dedizione ai pazienti, lo studio, la competenza; ma l’ingrediente “segreto” è stato mettere da parte l’individualità e perseguire una politica più attenta allo sviluppo collettivo. Ciò ha portato a garantire un ricambio di personale nel tempo mantenendo l’età media bassa, e il livello scientifico e di assistenza ai pazienti alto.

Esiste un punto di contatto fra la ricerca e le imprese, una sinergia ad esempio per i materiali per le attrezzature o strumenti avanzati di diagnosi e cura?

Sì, esiste. Penso da chirurgo all’introduzione di tecniche mini-invasive e robot-assistite, che richiedono un continuo interscambio tra imprese, unità di ricerca biomedica/ingegneristica e chirurghi stessi. I passi in avanti nell’ultimo decennio sono stati enormi, permettendo di operare con precisione millimetrica seduti a una console robotica con visione binoculare tridimensionale. Anche in chirurgia tradizionale c’è una costante evoluzione nella strumentazione che utilizziamo, e ciò passa similmente attraverso un rapporto costante con l’industria. Rapporto di tipo esclusivamente scientifico, che ha come unica finalità il miglioramento degli strumenti di cura e dei risultati per i nostri pazienti. La tecnologia è costosa, perché l’industria investe somme ingenti nella ricerca e nello sviluppo dei materiali. Nell’economia del nostro sistema sanitario nazionale è di fondamentale importanza bilanciare il rapporto costo/beneficio, cercando di mantenere alto lo standard tecnologico-innovativo e contenendo il più possibile la spesa.

Un presidio sanitario come il vostro può generare anche un indotto nelle aree di prossimità, che in ultima analisi potrebbe essere un elemento facilitatore sia per la ricerca sia per la gestione di un polo sanitario come questo?

Sì, ci sono una serie di attività collaterali legate a una fondazione e a un’associazione culturale, anche se l’indotto generato non è sufficiente a sostenere la ricerca e alcuni bisogni gestionali che un centro come il nostro ha. È un’area che ha ampio spazio di implementazione e crescita futura, su cui stiamo lavorando.

 

 

L’eccellenza ha inevitabilmente dei costi umani e finanziari. Al di là delle scontate considerazioni sulla valenza della ricerca in ambiti scientifici, ci preme sottolineare che centri come quello di Verona, in campo medico, rappresentino anche un volano per l’economia del territorio circostante.

Il mondo imprenditoriale e quello governativo dovrebbero collaborare alla creazione di realtà come quella dell’Istituto del Pancreas di Verona, che rappresenterebbe una convergenza di interessi, la perfetta sinergia tra pubblico e privato, tra sociale e sviluppo economico.

Sicuramente uno spunto su cui riflettere, ripensarsi, ripartire.

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