Declino del capitalismo e occhi puntati a Sud

Fino agli anni Duemila Mediobanca ha scritto l’agenda del capitalismo italiano, con il Nord come locomotiva. Oggi, sostengono alcuni, le migliori speranze stanno nel Mezzogiorno.

Il declino del capitalismo italiano ha una sua data di inizio simbolica: il 23 giugno del 2000, anno in cui muore il banchiere dei banchieri, Enrico Cuccia, patron di Mediobanca, la banca d’affari che per oltre trent’anni ha protetto e curato gli interessi dei grandi gruppi industriali italiani, dettandone le strategie.

Ci sono studiosi che sostengono, a ragione, che in realtà il declino del capitalismo del Nord è cominciato molto prima, quando negli anni Ottanta inizia il più poderoso processo di deindustrializzazione che sia mai avvenuto in Europa, e che colpisce soprattutto le regioni che venivano definite il triangolo industriale, ovvero Lombardia, Piemonte e Liguria. Come vedremo nella conversazione che abbiamo fatto con Marco Revelli, questa tesi ha un fondamento e ha che fare con la fine del fordismo, ma prima di arrivare ad analizzare quella fase della storia industriale italiana vorremmo soffermarci sul ruolo che Mediobanca ha avuto, dalla fine della Seconda guerra mondiale fino alla morte di Enrico Cuccia, sull’evoluzione del capitalismo italiano, che era prevalentemente a carattere famigliare.

Il regista del capitalismo italiano: la strategia di Enrico Cuccia

Da questo punto di vista, la storia del capitalismo italiano è originale e inedita, perché in nessun Paese europeo c’è stata una banca d’affari che abbia avuto un ruolo così strategico – ma anche così vincolante – nei confronti dei grandi gruppi industriali.

Mediobanca, fondata dal grande capo della Comit Raffaele Mattioli, non era affatto una banca d’affari autonoma. Era controllata dalle tre banche pubbliche Banca di Roma, Credito Italiano e, appunto, Banca Commerciale italiana (che poi attraverso fusioni e privatizzazioni confluiranno in Banca Intesa e UniCredito); questi istituti dagli anni Trenta erano controllati dall’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, fondato durante il fascismo per salvare dalla crisi del ‘29 banche e imprese devastate dalla grande depressione.

Grazie a una grande abilità finanziaria il banchiere siciliano Enrico Cuccia riuscì, in base ad accordi molto sofisticati, a capovolgere il rapporto di dipendenza che aveva con le tre banche; per cui Mediobanca, per oltre trent’anni, riuscì a utilizzare una parte importante del denaro raccolto dalle tre banche commerciali e a metterlo a disposizione dei grandi gruppi industriali per gli investimenti di medio periodo. Ciò avvenne sia nei momenti di crescita sia nel momento in cui Mediobanca intervenne per salvare alcuni gruppi, come ad esempio la Fiat, il Gruppo Ligresti, il gruppo Pirelli.

L’ombra lunga di Mediobanca sui grandi gruppi italiani

In sostanza Mediobanca per decenni divenne la grande regista delle scelte strategiche finanziarie e industriali dei grandi gruppi privati. La strategia di Enrico Cuccia era duplice: da un lato fermare la concorrenza dei gruppi stranieri (e questo avveniva ad esempio nei collocamenti azionari, dove venivano privilegiati dalle banche sempre e soltanto i titoli italiani), e dall’altro tenere le debite distanze dalla politica, in modo tale da essere l’unico dominus delle strategie industriali. Non a caso la Borsa italiana è assai modesta e ristretta, a differenza di altre borse europee.

Chi ha vissuto quegli anni da cronista finanziario non può dimenticarsi che al primo piano di Mediobanca non si decidevano soltanto le strategie industriali e gli investimenti finanziari, ma si decidevano anche i nomi degli uomini che dovevano gestire quelle strategie.

Un aneddoto apparentemente laterale valga per tutti per capire qual era l’influenza di Mediobanca sui grandi gruppi industriali: quando nel 1984 finì l’amministrazione controllata del Corriere della Sera, e dunque si dovette decidere se andare verso il fallimento o verso un passaggio di proprietà, Enrico Cuccia non si limitò a consigliare agli Agnelli di acquistare il Corriere, ma ordinò alla grande famiglia torinese di portarlo nell’alveo di Fiat e Mediobanca, così come qualche anno dopo avrebbe ordinato alla Fiat di liberarsi dell’azionista scomodo Gheddafi.

Un capitalismo chiuso e in declino: perché l’economia italiana non cresce

Si può dire insomma che sotto la regia di Mediobanca il capitalismo italiano era protetto finanziariamente, ma era chiuso. Godeva di una sorta di oligopolio che gli garantiva una forte protezione dalla concorrenza straniera, che si affacciava aggressiva ai confini del nostro Paese. Quando con la morte di Enrico Cuccia questa protezione è venuta meno, i grandi gruppi si sono trovati senza regia, ma soprattutto, sostengono alcuni studiosi, a corto di finanziamenti da destinare agli investimenti.

Il sistema industriale è sempre più dipendente dal sistema bancario, ed è così che è emerso l’altro grande vuoto che ha portato al declino il capitalismo del Nord: la mancata crescita dell’economia, una sorta di fallimento dell’imprenditoria italiana, che non riesce più ad avere una strategia e un modello di sviluppo.

Vi è un dato che spesso viene sottovalutato a proposito del declino del capitalismo del Nord: i grandi processi di deindustrializzazione, che colpiscono soprattutto la Lombardia, creano una cesura insanabile con il territorio. Il tessuto di piccole e medie imprese, che dava linfa vitale alla grande impresa ma anche al territorio, o scompare o diviene più friabile, e comunque senza un punto di riferimento. Così avviene per la Fiat e così avviene in Lombardia, dove la deindustrializzazione è massiccia e la terziarizzazione non è riuscita a compensare gli effetti del declino industriale.

La diaspora delle aziende orfane del capitalismo di Stato

A questo scenario ne va aggiunto un altro: negli stessi anni è finita la lunga storia dell’IRI, e dunque del capitalismo di Stato, che aveva dominato assieme al capitalismo privato per decenni, creando occupazione. L’origine della mancata crescita dell’economia italiana sta proprio qui: senza protezione le grandi imprese sono esposte alla concorrenza internazionale e alle acquisizioni che alcune imprese straniere cominciano a fare in Italia.

Così è accaduto che, dopo le privatizzazioni delle aziende controllate dall’IRI, le proprietà di aziende pubbliche e private sono passate di mano nei punti strategici dell’industria italiana, come ad esempio le telecomunicazioni, la moda, un fiore all’occhiello come la Pirelli, o in settori della siderurgia che erano il punto di forza dell’economia e dell’Industria italiana.

Anche la grande mamma dell’Industria italiana, la Fiat, si è orientata verso una fusione con altri giganti dell’automobile, e così facendo ha abbandonato il territorio sul quale si era sviluppata una miriade di piccole e medie aziende che vivevano all’ombra degli dei, ma che creavano sinergie territoriali fortissime. Quindi il Nord, che durante gli anni Cinquanta e Sessanta era diventato il centro propulsore della crescita postbellica e il polo di attrazione della forza lavoro del Sud, non è più capace di svolgere questo ruolo. Siamo alla crescita zero.

L’unico punto di forza che rimane vivace lo si può trovare nelle cosiddette multinazionali tascabili italiane, aziende medio-grandi, con poca dipendenza dal sistema bancario, capaci di stare sul mercato in modo autonomo grazie a una forte presenza sui mercati internazionali. I nomi che generalmente si fanno sono quelli di Barilla, l’ex Merloni e alcune aziende di punta della moda. Tuttavia, a parte alcune eccezioni, proprio nella moda ci sono state numerose acquisizioni straniere che hanno snaturato il Made in Italy, ma che soprattutto non sono state capaci di creare nuova occupazione.

Adriano Giannola, Svimez: “Il futuro del Paese è a Sud”

Come sostiene uno dei critici più accorati del modello di sviluppo nordista, il presidente della Svimez Adriano Giannola, proprio al Nord nasce la grande illusione. In sostanza il capitalismo del Nord si illude di poter ripercorrere i fasti del passato, ma non riesce più a essere forza attrattiva di forza lavoro e di sviluppo.

Ecco la diagnosi spietata di Adriano Giannola: “Questo modello non fa i conti con due elementi: intanto in questi decenni il Nord non è mai riuscito a fare da traino, neppure in termini di immigrazione, e poi non possiamo nasconderci che se il Sud è malato grave il Nord non può illudersi di risollevarsi dalla sua crisi puntando soltanto sui mercati del Centro e Nord Europa. Il Sud, che è il principale mercato interno italiano, con una buona dose di miopia è stato abbandonato a se stesso. Vuole un esempio? Se uso i fondi europei per finanziare il Nord in realtà sto ammazzando il mercato di sbocco costituito dal Mezzogiorno, sto indebolendo me stesso”.

“È per questo motivo che penso che la politica dell’attuale presidente di Confindustria sia inesistente e fragile. Lo stesso vale per il governo: se, come ho sentito dal ministro De Micheli, si ritiene che le priorità siano i porti di Genova e di Trieste, allora è la fine. Se il Sud fosse la base logistica del Sud Europa il Mezzogiorno potrebbe rinascere, ma per fare questo bisogna cambiare il baricentro, bisogna capire che il futuro del nostro Paese è nell’area del Mediterraneo, è in Africa. Come mai secondo lei i cinesi hanno investito miliardi nel continente africano? Non è soltanto espansionismo; c’è una visione del futuro. Perché hanno capito che lì ci sono grandi potenzialità di sviluppo.”

“Al Sud le potenzialità per creare lavoro ci sarebbero, ma è necessario fare investimenti nelle opere pubbliche strategiche per il Mezzogiorno. Questa è l’unica strada per compensare il divario decennale tra Nord e Sud, ma soprattutto per dare linfa vitale a una nuova crescita dell’economia italiana”.

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