Editoriale 47. Previsioni dei tempi

Un futuro prevedibile non lo vorrebbe nessuno, nemmeno chi sostiene il contrario. Tra le poche, pochissime, zone franche che ci restano da tutelare c’è proprio lei, l’incertezza. Senza saremmo orfani di padre e di madre, ci mancherebbero ragione e sentimento e vivremmo con l’illusione di non avere limiti. Sarebbe una vita d’inferno. Non suoni irriverente verso […]

Un futuro prevedibile non lo vorrebbe nessuno, nemmeno chi sostiene il contrario. Tra le poche, pochissime, zone franche che ci restano da tutelare c’è proprio lei, l’incertezza. Senza saremmo orfani di padre e di madre, ci mancherebbero ragione e sentimento e vivremmo con l’illusione di non avere limiti. Sarebbe una vita d’inferno.

Non suoni irriverente verso la purezza classica ma, con le dovute differenze, gli oracoli di una volta sono gli algoritmi di oggi. Ogni tanto, dopo millenni, riemergono ancora pezzi di tempi o luoghi sacri che evidentemente hanno ancora qualcosa da dire sennò non si farebbero trovare. E’ della scorsa estate il ritrovamento di un pozzo risalente a 1800 anni fa nella necropoli di Kerameikos, sede del più antico tempio dell’oracolo di Apollo nel cuore di Atene. Tutti pensano a Delfi come l’oracolo per eccellenza ma il primo edificio dedicato al Dio del sole e di tutte le arti si trovava nella capitale ed è lì che l’Istituto tedesco di Archeologia aveva da tempo concentrato le sue ricerche. C’è però un aspetto non irrilevante che rendeva unico quello di Delfi: solo lì, il verdetto arrivava tramite la parola; era la Pizia, sacerdotessa di Apollo, che seduta sopra un tripode dava i responsi dal centro del santuario dopo essere andata in trance respirando il vapore che veniva fuori da una fessura della terra. Quanta poesia nella divinazione, gli algoritmi se la sognano.

Alla tecnologia non è chiesto di prevedere o di consigliarci con giudizio sul futuro: lei semplicemente anticipa, anche quando nessuno glielo chiede in modo esplicito. La modernità ha questo di fastidioso, si apposta tra noi e la vita con la presunzione di addolcire la pillola e, per farlo, ci osserva, ci studia, ci tira giù dal trono della libertà con la scusa di chiederci soltanto l’ora.

Kevin Mitnick, detto Condor, è un programmatore e ingegnere sociale statunitense considerato l’hacker più ricercato di tutti i tempi. Più volte in carcere per aver violato i sistemi di sicurezza informatici di molte aziende – tra cui Nokia, Fujitsu, Motorola, Sun e Apple – e dello stesso governo americano, il suo stile era quello di usare schemi sofisticati di social engineering grazie ai quali riusciva ad ottenere codici e password direttamente dagli interessati per accedere ai terminali riservati. L’hacking gli deve molto, impossibile negarlo. Ricercato per oltre 14 anni, la caccia all’uomo scatenata dall’FBI produsse il suo arresto nel 1995 e, facendo leva su una sorta di patteggiamento, scontò solo cinque anni di pena prima di essere rilasciato sulla parola nel 2000 con l’obbligo di non usare più un computer fino al 2003. Rendersi invisibile era la sua peculiarità – il suo libro The art of invisibility resta un punto di riferimento e, in gergo, venne coniato per lui il termine IP spoofing a indicare la capacità di rendere irrintracciabile il terminale da cui operava. Oggi fa l’amministratore delegato di una società di sicurezza informatica e chissà quanto mercato riesce ad intercettare mettendo a frutto le capacità “divinatorie”.

Se c’è una cosa che non possiamo pretendere dal tempo è di essere affidabile; la sua natura è quella di scorrere senza curarsi di tutte le esigenze umane che si fanno zavorre. Non può perdere tempo con noi o suggerirci a quanti chilometri all’ora andare per tenere il suo ritmo o rassicurarci uno ad uno su ciò che ci converrebbe fare di lui.

Il finto virtuosismo della previsione è quello di congelare gli animi e creare sospensioni: l’economia e la politica si nutrono di ipotetici se, la storia cerca goffamente di rileggersi per evitare di beffarsi un’altra volta, le statistiche si spacciano per buoni strumenti interpretativi ma non convincono più. Se solo fosse affidabile, il tempo sarebbe anche prevedibile ma torneremmo al punto di partenza azzerando quel margine di stupore che ci deriva dal non sapere cosa accadrà.

L’Agenzia delle Entrate ha da poco deciso di cambiare rotta ed archiviare i tanto discussi studi di settore: entro la fine del 2017 arriveranno i primi settanta ISA, indici sintetici di affidabilità, altri ottanta seguiranno entro l’anno successivo. Ce n’era davvero bisogno di questi indicatori elementari che consentiranno di posizionare i contribuenti su una scala da uno a dieci, in base al loro livello di attendibilità fiscale? In vista ci sarebbero premialità per i cittadini più virtuosi, ne vedremo delle belle.

Il grande ostacolo dell’affidabilità coincide alla fine con l’aspettativa che riserva costantemente sonore delusioni.

Una buona organizzazione degli impegni resta il vero nervo scoperto: i patiti delle previsioni ne hanno bisogno in quanto convinti di poter pianificare senza margini di errore e ancora non si rassegnano alla verità universale delle variabili e degli imprevisti.

E’ quando ti abitui a non guardare più le previsioni meteo che il meteo smette di essere un problema. La metafora climatica traduce ogni altro contesto quotidiano in cui cerchiamo rassicurazioni per avanzare da qui a lì quando basterebbe fare un passo per guardare coi nostri occhi e non dipendere da nessuno, nemmeno dal tempo. Sulla bocca dell’uomo medio è persino scomparsa la divina provvidenza che, bene o male, una volta rincuorava i più.

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