Esperienze da privilegiare: università o lavoro?

L’importanza dell’università è innegabile. Come lo è il fatto che, troppo spesso, il titolo non si allontana dal metaforico “pezzo di carta”. Le Università si affannano a creare un contatto fra i propri laureandi e le aziende, nella speranza che attraverso gli stage possano accrescere la loro media di occupati entro il primo anno dalla laurea. Perseguono, in […]

L’importanza dell’università è innegabile. Come lo è il fatto che, troppo spesso, il titolo non si allontana dal metaforico “pezzo di carta”. Le Università si affannano a creare un contatto fra i propri laureandi e le aziende, nella speranza che attraverso gli stage possano accrescere la loro media di occupati entro il primo anno dalla laurea.
Perseguono, in altri termini, il loro prestigio, l’incremento dei loro iscritti, i loro bilanci. Ma sono numeri anche questi, niente di più.

Un sistema scolastico adeguato sarebbe permeabile alle contaminazioni delle aziende, favorendo un’osmosi naturale fra studio e lavoro, soprattutto in un periodo in cui il lavoro scarseggia.
Il problema dell’alto tasso di disoccupazione giovanile è che si esce dall’università con tanta teoria in testa, che poco serve ad un’industria che vuole rinnovarsi, e poca pratica. In questo informe “mare magnum” emerge, oggi più che mai, il problema della scelta. La scelta di come monetizzare un sogno che condizionerà il resto della vita: realizzarsi studiando o lavorando.

Il punto di vista di Michele Lustino, professore universitario

Mille sono le storie di insuccessi, ma qualcuno ha costruito la sua strada pietra dopo pietra, pagina dopo pagina. Ne parliamo con Michele Lustrino, professore al Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università La Sapienza di Roma.

“Mi sono laureato all’Università di Napoli Federico II nel 1994″ – inizia a raccontarci – “Dopo il servizio militare ho conseguito il titolo di dottore di ricerca in petrologia delle associazioni magmatiche (consorzio Università di Napoli – Università di Catania) nel 1999. Nello stesso anno sono stato assunto all’Università degli Studi di Roma La Sapienza come ricercatore universitario. Nel 2006 ho sostenuto il concorso da professore associato all’Università di Palermo e sono stato chiamato a La Sapienza nel 2009. Nel 2014 ho superato la selezione nazionale per professore ordinario”.

Quando era dall’altra parte della cattedra, puntava ad una professione oppure fare il professore universitario era il tuo sogno?

“Ovviamente non ci pensavo affatto. Figurarsi se uno studente universitario alle prime armi (o, meglio, uno studente liceale) pensa a fare il professore universitario. Al massimo pensavo al mio grande Vesuvio, e ai suoi tesori nascosti. Sono sempre stato appassionato di minerali e i minerali che si formano quando il magma entra in contatto con le pareti di rocce carbonatiche del serbatoio sono eccezionali. Tenete presente che sul Vesuvio sono state identificate per la prima volta una dozzina di minerali, ad esempio la vesuvianite”.

Quanto è stato duro arrivare?

“Per me non c’è sacrificio quando fai le cose con passione. Non ho sentito il peso di lavorare come un matto sempre, giorno e notte, sabato e domenica comprese. Probabilmente chi ha avuto maggiore peso in questo mio percorso è stata proprio mia moglie e anche le mie figlie che hanno perso molti aspetti della vita familiare con un padre sempre attaccato al computer o fuori alla ricerca di sassi da studiare”.

Quanto è soddisfatto del trattamento economico e della realizzazione professionale?

“Tutto dipende da dove metti l’asticella della soddisfazione. Io la metto molto bassa, quindi mi sento molto soddisfatto del trattamento economico. Quando però vedo che persone alle quali viene chiesto un impegno di gran lunga minore del mio a fine mese portano a casa il doppio del mio stipendio, qualche domanda me la pongo. Alla fine dei conti però, considerando quanta gente sta per strada,  e soprattutto considerando che vengo pagato anche per fare quello che mi piace, allora non mi lamento certo. Una cosa certa però è che noi abbiamo gli stipendi fermi da 5 anni, mentre per altre categorie statali, ad esempio i dipendenti del CNR, le cose non stanno così”.

Perché in Italia una professione come la vostra non è retribuita quanto all’estero ?

“Non so. Probabilmente perché la cultura scientifica in Italia è praticamente inesistente. Nei campi di giurisprudenza, economia, ingegneria o medicina le possibilità di guadagno (ad esempio con le consulenze) sono altre, quindi in quel caso i professori non si lamentano, perché tanto i soldi li prendono da altre fonti e il titolo di “professore” serve solo ad aumentare l’importo della fattura. Da noi continua ad esistere il concetto che un professore universitario è un nullafacente che costa oltre 100mila € all’anno. Andassero a vedere quanto prende un qualsiasi Sottufficiale dell’Esercito o della Marina e poi mi venissero a dire quale delle due figure costa di più. Faccio notare che un Sottufficiale non ha certo le stesse caratteristiche dirigenziali che un professore universitario può e deve avere”.

Tanta teoria e poca pratica: l’università è in grado di fornire davvero agli studenti, oltre ai contenuti culturali, anche gli strumenti operativi che siano immediatamente spendibili sul mercato?

“L’università sta cambiando e sempre di più si sta abbandonando il solo aspetto teorico. I legami con il mondo del lavoro sono sempre più stretti, anche se molto ci sarebbe ancora da fare. Ridurre la burocrazia al massimo nell’Accademia e permettere ai ricercatori universitari di concentrarsi sul trasferimento delle conoscenze e lo sviluppo di nuove linee di ricerca. Purtroppo stiamo sempre di più diventando come dei normali statali e il nostro ruolo di formatori delle classi dirigenziali viene ogni giorno squalificato sempre di più, con richieste assurde di compilazione di rapporti assurdi. I metodi di valutazione esistono, inutile farci compilare kili e kili di carta. Se un ricercatore universitario vale basta controllare le statistiche sul web e la scientometria ufficiale”.

Nel contesto economico di crisi globale, si sente di consigliare ai giovani un percorso di studi universitari oppure è meglio lavorar?.

“Lavorare senza specializzazione vuol dire suicidio. Un muratore rumeno, un sarto cinese, un commesso cingalese o un pizzaiolo egiziano costeranno sempre di meno di un italiano. La specializzazione è essenziale e tutte le statistiche, com ad esempio quelle di Almalaurea, lo dicono chiaro: i laureati guadagnano comunque di più rispetto ai non laureati”.

A meno di non avere quella marcia in più, quell’audacia e quella determinazione che ti consentono di arrivare ovunque, anche senza i libri.

La storia di Tiziano Brunetti, o “solo Tiziano”, 29 anni

“Una volta presa la maturità sono andato subito a lavorare in una ditta di ristrutturazione e costruzione. Lì ho imparato a gestire una società, acquistando materiale pianificando man mano i lavori da eseguire tra fatture, banche e commercialisti. Insomma, mi sono fatto le ossa, per poi lanciarmi nella mia nuova attività, cioè il “Drink Art Gallery”, un cocktail bar misto a galleria d’arte, situata nel cuore di Roma, a Piazza del Fico, da più di due anni. Sono contento del mio lavoro e non rimpiango di essermi fermato alla maturità, visto che molti dei miei amici laureati non hanno ancora trovato un’occupazione fissa ed altri svolgono lavori occasionali. Io in quello che faccio ci credo e spero di gettare le basi per tutta la mia famiglia compreso il nuovo arrivato, mio figlio Francesco”.

I risultati a volte non arrivano subito, tradiscono speranze e aspettative e occorre un’abnegazione particolare per inseguire e realizzare un sogno, contando solo su se stessi, sulla “scuola della strada”.

Gentilissimo dott. Viali, lei è il titolare di una delle maggiori imprese nel campo della sicurezza a Roma, nonché ristoratore per “hobby” e per passione. Ma come è iniziata la sua avventura?

“Carissimo Alessandro cominciamo col non chiamarmi Dottore, visto che non sono laureato.

Non sono mai stato molto portato per lo studio, ho sempre lavorato fin da quando avevo 12, 13 anni, grazie a mio padre, che mi faceva guadagnare qualcosa con lui.
Nel 1996, dopo un periodo di crisi dovuto ad una truffa subita, ho dovuto chiudere la mia prima attività. All’epoca ero titolare, insieme a mio cugino, di un negozio di arredamenti.
Ma essendo io alto quasi 1,90 m e pesando più di 100 kg, ho trovato ben presto un nuovo lavoro, presso una discoteca, come buttafuori. Dopo pochi mesi mi sono reso conto che quel tipo di attività non era per niente organizzata e in poco tempo ho creato la “I.V.S.” (Ivano Viali Servizi), l’attuale International “Viali Safety srl”, ora detentrice di licenza investigativa e di vigilanza armata, con più di 150 addetti.
Il ristorante “Tutto qua”, invece, nasce dalla passione per il buon cibo e il buon vino, aperto successivamente come nuova attività, più per divertimento che altro, ma che è diventata un’altra bellissima impresa, non più considerabile secondaria”.

I primi lavori che ha effettuato sono stati il frutto di una scelta, di un’opportunità o di una costrizione ?

“A 12 anni ritrovarsi con 50.000 lire mi rendeva libero, non ero a carico di qualcuno. Dopo la maturità, poi, con l’apertura del negozio è cominciata un’epoca felice e molto remunerativa. Fino al 1994 guadagnavo molto bene, circa 5 o 6 milioni al mese, di lire naturalmente. Purtroppo le cose sono cambiate e, nel ’96, c’è stato un episodio che ci ha definitivamente costretti a chiudere”.

Sono stati anni difficili?

“Molto. Ma fortunatamente è durato poco. Dal 2000 ad oggi è stato un nuovo periodo in crescendo, durante il quale mi sono preso molte rivincite e soddisfazioni. Sono stato sempre un imprenditore, mai avuto un capo. Che dire? Sono stato bravo, attento e fortunato”.

Riguardando metaforicamente la strada che ha percorso, se al contrario avesse proseguito gli studi universitari, ritiene che avrebbe fatto lo stesso percorso, con gli stessi risultati, oppure è soddisfatto di quanto ha ottenuto dalla vita?

“Guardi, ci penso spesso, ma la risposta non la saprò mai. Comunque sì, sono molto soddisfatto”.

L’università è un rimpianto che le fa sentire che qualcosa manca al suo successo oppure è semplicemente un sentiero che non ha intrapreso?

“È semplicemente il sentiero che non ho intrapreso, anche se invece mi piacerebbe molto che mia figlia studiasse”.

CONDIVIDI

Leggi anche

La formazione in Italia tra Pubblico, Privato e Turismo: ecco come siamo messi

Il termine “formazione” non è un insieme di nozioni contenute in un cassetto ma, al contrario, è il risultato di un piano formativo organico che tende a strutturare, solidificare e rinforzare in maniera completa. Questo vale sia sotto il profilo della struttura delle cose che sotto il profilo delle persone. Esso contiene il significato: dare […]

L’Italia della medicina: profit o non profit?

Ci chiediamo quali siano gli elementi alla base della professione medica nell’Italia post-crisi di oggi. Vocazione o passione acquisita, non è semplice risolvere il dilemma tra alleviare le sofferenze e scendere in campo o fare il budget e ricondurre il ruolo del medico a quello dell’officier de santé, consorte dell’eroina flaubertiana, più che a quello dell’Ignace Semmelweis […]