Evoluzione della pubblicità: quando il brand non è una pandemia

“Bene o male, purché se ne parli”, scriveva Oscar Wilde ne Il ritratto di Dorian Gray. Dalla letteratura ai giorni nostri, questa citazione è stata sempre più spesso accostata al concetto di pubblicità. Eppure i tempi sono cambiati, anche se la percezione è nettamente distante dalle logiche attuali. Per comprendere bene l’evoluzione del brand oggi, […]

Bene o male, purché se ne parli”, scriveva Oscar Wilde ne Il ritratto di Dorian Gray. Dalla letteratura ai giorni nostri, questa citazione è stata sempre più spesso accostata al concetto di pubblicità. Eppure i tempi sono cambiati, anche se la percezione è nettamente distante dalle logiche attuali. Per comprendere bene l’evoluzione del brand oggi, nelle sue logiche e contraddizioni, tra manipolazione ed eticità, è necessario fare un viaggio nel tempo, restituendo alla sua identità il lustro che merita.

Di che cosa stiamo parlando? Andiamo con ordine.

 

In principio fu Carosello

Dal 1957 al 1977, il concetto di pubblicità assunse un ruolo educativo nella vita del Paese: Carosello ha rappresentato per l’Italia una vera e propria istituzione promozionale. Questo è accaduto non solo perché presente sul canale 1 di mamma Rai, che in quegli anni del dopoguerra ha rappresentato per gli italiani il faro dell’educazione e del costume della Nazione, ma anche e soprattutto perché seguì il principio di successo del filone delle soap opera, nate negli Stati Uniti nel 1937 grazie a P&G con la fortunata serie Sentieri.

Dunque, in Italia, grazie a Shell, L’Oreal, Singer e Cynar, la pubblicità sancì la sua supremazia tra gli italiani, ricoprendo attraverso gli sketch un vero e proprio format nelle abitudini quotidiane: 1’45” di spettacolo teatrale, trasmessi in tv, seguiti da 30” di codino nel quale sponsorizzare il prodotto in questione (il vero spot pubblicitario, che ormai riconosciamo tutti).

Il pubblico sapeva che, dopo il TG1, all’intrattenimento pubblicitario era dedicata circa mezz’ora, nella quale lo sketch in questione diventava argomento di discussione tra famiglie. Al contempo perfino i bambini erano coscienti del fatto che, dopo la cena e la visione di Carosello, era giunto il momento di andare a letto, con la certezza che l’indomani, alla stessa ora e nello stesso luogo, il programma ci sarebbe stato. Li avrebbe attesi, per intrattenerli ancora ed educarli al consumo, attraverso i genitori e al giro dell’economia; attraverso l’intrattenimento, con fiducia e senza troppi fronzoli.

Quello è stato il periodo in cui il paradigma del sistema pubblicitario era focalizzato sul prodotto che non si vende, ma si compra.

 

L’evoluzione della pubblicità: dalla fine di Carosello alla crisi economica

Mentre nel corso degli anni diversi personaggi famosi (come Mike Bongiorno, Totò, Corrado, Dario Fo, Alberto Sordi, Giorgio Albertazzi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello, Gino Bramieri, Renzo Arbore, Gianni Boncompagni, solo per citarne alcuni) avanzavano nel mondo dello spettacolo e nella pubblicità, la Cassazione sancì che Carosello non era più considerato un programma educativo, e che pertanto andava soppresso: l’1 gennaio del 1977, infatti, chiuse i battenti. La presenza delle tv private e questo cambio epocale hanno ricoperto un ruolo cruciale per il concetto di pubblicità, che per le aziende si trasformò in una vera e propria opportunità per farsi conoscere dal pubblico di massa. Fu proprio in questo periodo che, tra i modi di dire, nacque “la pubblicità è l’anima del commercio”.

La fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta permisero all’Unique Selling Proposition di prendere forma, come fosse un vero e proprio paradigma pubblicitario nel quale ogni campagna poneva in evidenza il beneficio che la concorrenza non poteva offrire. Entrava in gioco lo schema della preferenza, e il prodotto veniva posto al centro delle strategie di comunicazione, a sostegno delle vendite.

Ma gli anni Ottanta hanno rappresentato anche la stagnazione dell’economia e l’elevato costo del denaro, che portarono il concetto di pubblicità ad acquistare una certa maturità sia per le aziende, sia nei confronti del pubblico. È stata l’epoca in cui ogni campagna rappresentava un mix perfetto tra spettacolo, libertà d’espressione e creatività allo stato puro; da una storia semplice esplodevano come fuochi d’artificio campagne che esprimevano sia scenari di attaccamento alla famiglia che provocazioni pure, in piena rivoluzione sessuale. Tra le pubblicità sexy, infatti, Golden Lady e Campari in particolare spiccavano in un vero e proprio gioco di sensualità.

In questi anni Ottanta, il brand è diventato punto di riferimento per i consumatori e cuore pulsante delle strategie di comunicazione per aziende. In questa epoca ha cominciato a farsi strada un nuovo cambio di paradigma: si è passati dalla centralità del prodotto all’identità di brand, con i suoi valori associabili.

Con l’arrivo degli anni Novanta, la pubblicità è entrata in una vera e propria crisi. Mentre la popolazione viveva un periodo di incertezza nel futuro, i prodotti no brand si sono fatti spazio con l’arrivo degli hard discount: qui venivano esposti prodotti di media fascia, che pur non godendo di promozioni pubblicitarie potevano proporre prezzi più contenuti, ottenendo in ogni caso la fiducia d’acquisto da parte degli italiani e installando di fatto una nuova abitudine nei consumi. Di contro, i grandi brand risposero con forza, proponendo slot d’intrattenimento per famiglie e coppie con l’arrivo dei centri commerciali e degli ipermercati.

Dietro ogni crisi si cela una grande opportunità. La pubblicità, anche in questo stato di cose, subì un cambio di paradigma: questa volta il pubblico diventò il vero protagonista delle strategie di comunicazione, in quanto si passò da una comunicazione di massa a una capillare, di nicchia. Si prestava attenzione al cliente nella fornitura di informazioni utili all’utilizzo del prodotto stesso: tempi di cottura, packaging da monoporzioni, formati ridotti, e non più grandi quantità formato famiglia.

 

Infodemia: la pubblicità della paura

Le evoluzioni e involuzioni della comunicazione pubblicitaria in Italia hanno portato il popolo di consumatori a conoscere sempre più il tessuto socioeconomico che frequentava. Lo sviluppo di piattaforme digitali come l’antesignana Myspace, seguita da Facebook, Twitter, LinkedIn e tante altre, ha solo accelerato il processo informativo da parte del pubblico nel comprendere quanto la pubblicità fosse sincera con lui.

D’altro canto, con la crescita della presenza dei social nelle abitudini quotidiane, la comunicazione pubblicitaria ha subito l’ennesima trasformazione: il messaggio si è fatto meno emozionale, più persuasivo, a tratti manipolatorio. In un primo momento ha provato a ricalcare il vintage del fenomeno Carosello, ma una volta compreso il fallimento, il messaggio è stato forzatamente portato all’eccesso, a tratti anche con riferimenti esplicitamente sessuali. Questa volta però il pubblico, rispetto al passato, si è dimostrato reattivo, segnalando e classificando questo genere di comunicazione come sessista. Per la prima volta non sono solo le istituzioni a regolamentare il mercato, ma è il “popolo” a determinare l’etica e la violenza della comunicazione.

La mancanza di una vera e propria educazione digitale ha portato il pubblico, in quest’epoca, ad avere un potere preponderante sulle abitudini del Paese rispetto alla comunicazione stessa. Se da un lato questo ha il vantaggio di evidenziare quando un brand vanifica la sua buona reputazione con una comunicazione incoerente tra l’online e l’offline, dall’altro lato tutti ignorano una serie di trasgressioni legali, tra il civile e il penale, nella divulgazione di comportamenti di cyberbullismo anche nei confronti della marca in questione.

Di contro, la comunicazione ha assunto a tratti un ruolo manipolatorio e improntato alla paura costante, veicolando il consumo ridotto di un prodotto o di un altro, a seconda delle pandemie in circolazione: dall’aviaria alla SARS al coronavirus dei giorni nostri, l’informazione, spesso e volentieri, si è trasformata in infodemia, generando di fatto eccessivi allarmismi o al contrario, superficiali ottimismi.

Sempre più spesso si vedono aziende e brand che continuano ad approfittare del panico del pubblico per sviluppare strategie di comunicazione e di vendita forzate, in nome della crisi economica che verte su un Paese produttivamente fermo a causa della pandemia in corso in questo momento storico. Tutto questo comporta nel breve termine un incasso parziale del prodotto/servizio offerto, ma che nel medio-lungo periodo gli si ritorcerà contro come un boomerang; perché un pubblico impaurito dall’emergenza non è disattento, ma concentrato sulle esigenze famigliari e delle proprie attività. Ogni azione che si compie lascia una traccia che, nel successivo momento di calma, sarà messa alla gogna, perdendo di fatto tutto il potere economico accumulato fino a quel momento – e di conseguenza anche la reputazione.

 

La lezione dei brand proattivi in vista della ripartenza

Allo stesso modo il pubblico è attento alle iniziative di brand proattivi. Come Giovanni Rana, che di fronte a una nuova emergenza non specula sui propri dipendenti, ma al contrario si prende cura di loro, aumentando del 25% gli stipendi e dimostrando ancora una volta che la cura della propria famiglia produttiva, e l’aggiornamento costante delle strategie organizzative o di vendita, favorisce la qualità del lavoro e il fatturato presente e futuro, in un processo etico e ottimale per la reputazione.

Sono tante le partite IVA ferme in questo momento. Non è la prima volta che questo accade, e certamente per l’economia e lo sviluppo del Paese è un duro colpo. È comprensibile la rabbia dei datori di lavoro, come dei dipendenti, in questo clima più che mai precario. Occorre acquisire tecniche e strumenti per organizzare al meglio la ripartenza della propria attività, comprendendo a quali fonti attingere. Per chi ne ha la possibilità, questo è il momento di progettare la gestione aziendale prima della ripartenza, con un buon piano regolatore, o rivolgersi a professionisti che aiutino a organizzarlo al meglio, evitando l’accumulo di ulteriori debiti e concentrando l’attenzione su come ripartire sul mercato.

Lavorare in modo etico, investire tempo e risorse personali, anche senza un guadagno economico immediato, è un’opportunità che vale la pena prendere in considerazione, consapevoli del fatto che alla riapertura non avremo neanche il tempo di dormire. Bisogna solo capire da che parte si vuole stare.

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