Far da sé, anche a costo di fallire

In Veneto soffia un vento laburista. È una corrente che fa sbattere i portoni di ogni città, entra nelle fabbriche, nelle case e nelle scuole senza chiedere permesso. Anzi alza la voce e urla “Lavoro”, quello con la L maiuscola. Infatti, lo avrete capito, laburista non è da intendersi nella sua accezione politica. “Laburista è […]

In Veneto soffia un vento laburista. È una corrente che fa sbattere i portoni di ogni città, entra nelle fabbriche, nelle case e nelle scuole senza chiedere permesso. Anzi alza la voce e urla “Lavoro”, quello con la L maiuscola. Infatti, lo avrete capito, laburista non è da intendersi nella sua accezione politica.

“Laburista è l’atmosfera che ricopre l’intero territorio perché qui, più che altrove, l’aggettivo che qualifica i cittadini è lavoratori”. È Daniele Marini, professore di sociologia dei processi economici all’Università di Padova a delineare il quadro dell’identità di questa regione e a spiegarci come i veneti nel lavoro trovino l’ossigeno, il riscatto e la coesione sociale. Era importante per noi scavare dentro la mentalità di questo territorio, cercando di capire non solo le cause del successo dell’impresa, ma anche le ragioni di quegli imprenditori che davanti alla crisi non ce l’hanno fatta. E poi volevamo capire le motivazioni dei dipendenti. Italiani e stranieri. Giovani e veterani. E scavando, manco a dirlo, abbiamo trovato un punto di vista sociologico e antropologico che individua nel lavoro l’elemento di coesione fondamentale, i cui punti di riferimento erano e sono l’autonomia e il far da sé.

Cominciamo dalla base sociale del territorio. Perché nel lavoro si riconoscono allo stesso modo tanto gli imprenditori quanto i dipendenti?

Se dovessimo fare una fotografia degli imprenditori veneti scopriremmo che la maggior parte di loro, quasi il 60%, sono ex operai che si sono messi in proprio negli anni Settanta. C’è un processo di identificazione molto importante perché successivamente questi ex dipendenti hanno assunto ex colleghi, parenti e amici e sono diventati un elemento, anzi una parte integrante della comunità locale.

Qual è la genesi di questo processo che vede la fabbrica come un pezzo di comunità?

Negli anni Settanta-Ottanta questo territorio era povero e depresso. Il fatto di fare un lavoro o mettersi in proprio significava raggiungere il riscatto sociale e portare benessere in un progetto di comunità. Il radicamento territoriale delle imprese e degli imprenditori qui è più forte che altrove, perché il padrone è conosciuto e riconosciuto dalla comunità come portatore di benessere.

Questo spiega in buona misura il fenomeno dei suicidi degli imprenditori. Quando ti porti addosso un ruolo di questo genere è ancora più difficile accettare il fallimento.

Ogni suicidio ha una storia a sé, non possiamo generalizzare. Però leggendo le storie di questi imprenditori spesso si scopre che prima hanno cercato di pagare tutti i debiti, soprattutto quelli con i dipendenti; poi, quando hanno capito che non ce l’avrebbero più fatta, si sono tolti la vita. Il loro fallimento non è solo individuale: è il fallimento di un progetto di vita, di lavoro e del riconoscimento di chi ti sta attorno.

Il fallimento ha una dimensione soprattutto sociale.

Esattamente. E c’è un altro dato interessante: gli imprenditori suicidi sono quasi tutti maschi. Questo fa capire che per l’uomo il lavoro è fonte prioritaria di identità. La donna, anche se imprenditrice, è spesso moglie e mamma; ha altre identità forti che la salvaguardano. L’uomo no. Poi bisogna aggiungere che fino a qualche anno fa anche nel diritto il fallimento era considerato una sorta di stigma sociale. Nei paesi anglosassoni che un’impresa fallisca sta nella natura delle cose, non sempre è colpa del titolare. La gente fallisce, chiude e magari riapre. In Veneto se uno fallisce è solo un fallito.

Poi qui non c’è stato solo il 2008. Tra i 200.000 risparmiatori truffati e travolti dal collasso della banca Popolare di Vicenza e di Banca Veneto ci saranno stati molti imprenditori già in difficoltà che sono finiti sul lastrico.

La proporzione del problema è evidente e lo dimostra il fatto che la Regione Veneto ha attivato un servizio dedicato a imprenditori e cittadini in difficoltà che possono ottenere una consulenza e un supporto psicologico. Si chiama InOltre, ed è uno sportello pensato appositamente per prevenire i suicidi degli imprenditori/lavoratori.

Immagino che il punto di vista dei lavoratori non sia molto diverso da quello degli imprenditori.

Il 70% dei lavoratori in Veneto vive la fabbrica come casa propria e questo dato racconta un forte processo di identificazione con l’impresa. In aziende con pochi dipendenti lavori gomito a gomito con il tuo titolare, e sei consapevole che o ti impegni o l’azienda non va avanti. Ci metti del tuo nel lavoro, e inevitabilmente scattano meccanismi di reciprocità importanti. Non è raro che il dipendente che deve comprare casa domandi il prestito al proprio datore di lavoro; idem se ha il figlio che si sposa e ha bisogno di soldi per le nozze. Qui il vecchio armamentario marxista di distinzione tra capitale e lavoro non funziona, e l’obiettivo principale di tanti lavoratori è di mettersi in proprio. In questi territori ogni quattro o cinque famiglie c’è un’impresa, una partita Iva, un parrucchiere o un metalmeccanico. Al Sud questo non succede.

E poi c’è un altro luogo comune che dobbiamo far cadere: quello del Veneto razzista e separatista che non accetta gli immigrati.

Quando tiri fuori l’argomento migranti c’è sempre qualcuno che sbuffa, ma in generale un migrante che lavora è rispettato. S’è un bravo lavorator, questo è quello che si dice. Il lavoro qui ha portato integrazione, e non solo in fabbrica. Il processo di integrazione ti passa in casa: basta pensare alle badanti. Ovviamente non è tutto rose e viole. I problemi di convivenza ci sono, ma dobbiamo considerare che in questa regione i migranti sono arrivati trent’anni fa, e ormai l’integrazione è la normalità. Il lavoro è stato un elemento di cittadinanza, indipendentemente dal colore della pelle e della religione.

Anche gli immigrati si sono adattati alla mentalità dell’autonomia e del far da sé?

Qui funziona il meccanismo della sussidiarietà: “Lo Stato non faccia quello che può fare il cittadino”. E questo meccanismo viene fuori in tutte le situazioni, anche in quelle di estrema difficoltà. Per esempio, nel 2013 Vicenza fu colpita da un’inondazione e in poche ore il Bacchiglione ha straripato e sommerso tutte le vie del centro. Il giorno stesso la gente, immigrati compresi, ha preso pala e sacchi e ha pulito tutte le strade. Dopo due giorni, quando sono arrivati gli aiuti del Governo, non c’era più nulla da fare, era già tutto pulito. E lo stesso atteggiamento si è visto nei giorni scorsi nel bellunese, la popolazione si è mobilitata immediatamente in modo autonomo.

Il far da sé non aspetta nessuno, neanche le Istituzioni. 

Il far da sé e la sussidiarietà sono le basi del carattere dei veneti, e questo atteggiamento porta inevitabilmente al federalismo. Peccato che questa cultura sia stata male interpretata, e in questo la Lega ha una grande responsabilità, perché ha contribuito a dare un’immagine del Veneto secessionista, autonomista, separatista e razzista. Per carità, gli estremisti ci sono, ma sono una quota marginale. L’autonomia è un valore diffuso, questo è vero, ma proviene dalla spinta al far da sé, non dalla volontà di isolarsi.

E i giovani sono allineati con questa cultura?

Questo è un grande elemento di frattura, perché le differenze culturali tra le varie generazioni sono evidenti. Il lavoro rimane per tutti un elemento identitario, questo non cambia, anzi per i più giovani lo è ancora di più. Ciò che cambia è quello che le nuove generazioni cercano nel lavoro. Mentre i padri e i nonni inseguivano il riscatto sociale e la sussistenza, i loro figli e nipoti cercano la gratificazione personale, vogliono capire le prospettive di carriera e valutano la reputazione dell’azienda sul territorio. La dimensione pragmatica dello stipendio è un elemento necessario e importante, ma oggi non è più sufficiente.

Finalmente possiamo mettere nel cassetto la definizione di “bamboccioni” che non hanno spirito di sacrificio? Mi sembra di capire che qui parliamo di ragazzi che vivono il lavoro come un percorso di ricerca elaborato e consapevole.

Spesso capita di leggere sui giornali che un’azienda cerca giovani collaboratori e non li trova. Il giudizio popolare è sempre “sti bamboccioni non han voglia”. Ma mettiamoci nei panni di un giovane che ha studiato tanto, che ha una laurea, un master, magari anche un’esperienza all’estero e si trova a un colloquio dove l’imprenditore gli dice semplicemente: “lavori otto ore al giorno e questo è lo stipendio”. Ai ragazzi non basta, spesso vogliono capire le prospettive di crescita e programmare una serie di obiettivi. Invece gli imprenditori, soprattutto quelli di una certa generazione, non sono entrati in queste dinamiche. Sono rimasti al tempo in cui potevano offrire un lavoro, non importava quale fosse, e avevano la fila al portone perché per le persone era importante solo portare a casa i soldi. Oggi non è più così e alcuni non lo capiscono.

Quindi secondo lei il problema è nell’offerta di lavoro più che nella domanda?

Per carità il problema c’è anche nella domanda, ma spesso, più spesso di quanto si possa pensare, è nell’offerta. L’offerta di lavoro deve avere un certo appeal, lo stipendio e le garanzie sono fondamentali, ma lo sono anche le prospettive, la formazione e gli obiettivi.

E se si offre tutto questo i giovani sono disposti a mettersi in gioco, a spostarsi e magari anche a cambiare città?

Anche a cambiare Paese. È facile che un giovane che ha questi obiettivi vada all’estero, dove c’è una cultura della gestione delle risorse umane diversa. Qui la platea di piccole e medie imprese non ha ancora questa attenzione. Da questo punto di vista c’è ancora un bel salto culturale da fare. Del resto questo è un luogo di latenze culturali, un luogo dove i valori di un tempo tendono a permanere per un lungo periodo. Nel bene e nel male.

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