Giornalisti che parlano troppo

In Italia ci sono 112.202 giornalisti, tra professionisti, pubblicisti e praticanti. Nell’elenco svetta la Lombardia, con ben 25.016 giornalisti, seguita dal Lazio (20.516 giornalisti) e Campania (11.580 giornalisti).  Questo è il quadro che emerge nel rapporto sul giornalismo in Italia LSDI (Libertà di Stampa Diritto all’Informazione), in riferimento all’anno 2015. Dati impressionanti, senza contare tutte […]

In Italia ci sono 112.202 giornalisti, tra professionisti, pubblicisti e praticanti. Nell’elenco svetta la Lombardia, con ben 25.016 giornalisti, seguita dal Lazio (20.516 giornalisti) e Campania (11.580 giornalisti).  Questo è il quadro che emerge nel rapporto sul giornalismo in Italia LSDI (Libertà di Stampa Diritto all’Informazione), in riferimento all’anno 2015. Dati impressionanti, senza contare tutte quelle persone che scrivono pur senza appartenere ad alcun ordine professionale.

Gli articoli di testate giornalistiche cartacee e digitali sono affidati a questo esercito di autori, che non sempre sono consapevoli dell’importanza del ruolo che rivestono nell’atto del comunicare contenuti e messaggi. Il risultato? Un eccesso nell’utilizzo delle parole e nella costruzione della struttura sintattica. Un vero e proprio ‘urlo’ linguistico. In alcuni casi l’esagerazione fa quasi sorridere. Basti vedere titoli come ‘Alunni al gelo, bufera sull’impianto geotermico’, pubblicato su un giornale locale della provincia di Milano; o ancora ‘I parchi del divertimento ora fanno paura’, pubblicato su una nota testata nazionale in merito al degrado di alcuni parchi in disuso. In altri casi l’abuso delle parole può però portare al rischio di veicolare messaggi distorti, fino ad arrivare al rischio di “manipolazione aperta”, come sottolinea Carlo Galimberti, professore ordinario di Psicologia sociale e della Comunicazione all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e noto per i suoi studi sulla comunicazione.

Gli stranieri sui giornali: tra ‘urla’ delle parole e falsi allarmismi

Un tema esemplificativo nell’utilizzo di parole ‘urlate’ o strutture sintattiche ingigantite riguarda l’immigrazione. Ecco alcuni esempi: ‘Terrorismo e immigrazione – Così l’Italia coltiva i nemici a casa’, ‘Invasione migranti in Italia: sospetto di un piano prestabilito’; ‘l’invasione dei migranti: tribunali paralizzati dai ricorsi’. E ancora ci sono espressioni che portano all’associazione tra la presenza di stranieri e fatti di cronaca: ‘Vicenza, aggredita e molestata da un tunisino sul treno’, ‘Branco di stranieri rapina e sequestra uno studente al Valentino’. Ecco allora che l’urlo delle parole quando si parla di stranieri può contribuire a creare un clima di odio razziale e di preoccupazione. Secondo i dati statistici riportati dal Ministero della Giustizia e aggiornati al 30 aprile 2017, i detenuti in Italia sono 56.436 di cui 19.268 stranieri. Questi dati sconfessano gli allarmismi che si possono creare leggendo titoli come quelli sopra evidenziati. Per quanto riguarda i migranti, secondo i dati riportati dal Ministero dell’Interno, al 12 maggio 2017 i migranti sbarcati sono 45.118. Sono tanti e in aumento ma che non giustificano termini quali ‘invasione’.

“Un titolo del tipo ‘Aggredita in treno da quattro tunisini’ presuppone che chi scrive ritenga la nazionalità degli aggressori come un elemento significativo e probabilmente il presupposto alla violenza – spiega Sergio Gessi, docente di Etica della Comunicazione e dell’Informazione all’Università degli Studi di Ferrara e giornalista professionista – Analogamente all’epoca del boom economico italiano, si additavano ‘i napoletani’, ‘i siciliani’ e genericamente ‘i terroni’ come artefici di ogni nefandezza, al punto da negare loro, nelle ‘civili’ città del nord, l’accesso ai locali pubblici o il diritto di residenza sancito dagli avvisi ‘qui non si affitta ai meridionali’. Salvo poi ritrovarsi in Svizzera tutti quanti – calabresi e piemontesi – a sbattere contro insegne che vietavano l’ingresso ‘ai cani e agli italiani’. Perché c’è sempre qualcuno che sta più a nord, agli occhi del quale siamo tutti terroni. Purtroppo l’ignoranza è una piaga difficile da guarire e sempre più comprendo e apprezzo il monito di Socrate che la designa come unico grande male, poiché da essa in fondo discendono tutte le altre turpitudini. Il problema evidentemente non è distinguere sulla base di razza, religione, colore della pelle o ideologia, ma fare cernita fra persone oneste e farabutti che spesso, a scardinar i luoghi comuni, si celano sotto abiti eleganti e maniere forbite”.

 Il ‘raptus’? “Non esiste”

Altro tema spesso ‘cavalcato’ da titoli di giornale smodati nell’uso di parole e strutture riguarda gli omicidi. ‘Un rimprovero per le valige fa scattare il raptus omicida’ si legge in una nota testata on line attiva sulla zona di Varese in merito all’omicidio di una donna, Loretta Gisotti, a opera del marito. E ancora: ‘L’omicidio. Raptus di follia in città’, apparso su un quotidiano on line dell’area napoletana; ‘Due casi di omicidio – suicidio, raptus in due coppie di anziani’, pubblicato sul sito di una nota agenzia di stampa in merito all’omicidio suicidio in coppie di anziani in provincia di Caserta e in provincia di Parma. Questi sono solo alcuni esempi ma espressioni di questa tipologia sono all’ordine del giorno.

L’urlo delle parole, però, in questo caso può incidere pesantemente sulla psiche di una persona. Ne parliamo con la psicologa, psicoterapeuta e conduttrice radiofonica Barbara Repossini: “Spesso si usano espressioni che hanno un impatto emotivo sulla gente in modo da catturare la loro attenzione. Tuttavia, utilizzando questi termini le persone sono portate a pensare di essere passibili di raptus o che tutti possono essere colti da raptus.  Invece, coloro che compiono questi gesti sono persone che hanno già un disturbo patologico latente: c’è sempre una malattia importante sotto, che magari non è riconosciuta sebbene ci siano segnali importanti sottovalutati. Il raptus non esiste. Ci possono essere fattori esterni che possono contribuire a scatenare l’atto ma alla base c’è già una malattia. Sta poi nella coscienza di ognuno se fare buona informazione, portando i lettori a comprendere che ci sono patologie dietro oppure attirare l’attenzione usando il termine ‘raptus’. Ritengo che sia sempre meglio, prima di scrivere, che i giornalisti consultino un esperto”.

 Il rischio dell’urlo delle parole: la manipolazione

L’urlo linguistico nel giornalismo spesso non tiene in considerazione le conclusioni che il lettore potrebbe trarre da quello che legge. Il fenomeno è ben analizzato da Carlo Galimberti: “Quando parliamo, diciamo di più di quello che pensiamo di dire, veicoliamo contenuti di cui non ci rendiamo conto. Però non sappiamo a priori che cosa il nostro interlocutore possa capire. Nel linguaggio a uso quotidiano – e quindi in quello giornalistico – il rischio delle inferenze non desiderate è elevatissimo. I giornalisti spesso non si rendono conto del fatto che non c’è una corrispondenza biunivoca tra quello che noi diciamo e quello che gli altri capiscono. Bisognerebbe scrivere ricordando il consiglio di Montanelli ai giornalisti: pensare che gli interlocutori non necessariamente conoscono il significato delle parole che si usano, scrivere in modo semplice e chiaro. Bisogna tenere presenti le principali fonti di inferenze non desiderate: devo conoscere il mio pubblico e la sua capacità di fruizione del mio discorso; devo sapere le regole di cortesia e come si regolano le distanze fra le persone; bisogna avere chiaro il contesto relazionale: che tipo di relazioni ci sono tra me e le persone che ho di fronte; è necessario anche il riferimento al contesto semiotico: a volte creiamo confusione perché pensiamo che i fruitori sappiano già certi elementi che noi diamo per scontati. Non bisogna dimenticare il grosso problema delle strutture. Se il giornalista scrive in un certo modo un determinato fatto, in qualche modo ha già messo in mano al lettore, spesso inconsapevole, la chiave di lettura. Il rischio è di passare dalla scarsa sensibilità etica alla manipolazione aperta; ma il giornalista dev’essere l’ultimo a manipolare e il primo a denunciare la manipolazione”.

L’urlo? “È la forza dei deboli”

Insomma, dal locale al nazionale e in tutti i campi, l’urlo di parole e frasi può essere pericoloso, come conferma Sergio Gessi: “Le iperboli, come ogni esasperazione, sono pericolose. L’emotività di un individuo è una componente importante della sua personalità, ma andrebbe sempre filtrata dal raziocinio. Agire d’impulso è molto rischioso. Lo è altrettanto (e talvolta di più) scrivere senza riflettere adeguatamente. Siamo in questo condizionati da una frenesia di matrice consumistica e compulsiva che induce tutti a produrre rapidamente e reagire istintivamente. Ed è pleonastico ricordare che le dinamiche della rete, i social media in modo particolare, hanno rafforzato questa tendenza. Ci buttiamo a capofitto senza soppesare adeguatamente gli elementi a nostra conoscenza e senza valutare le conseguenze del nostro fare e del nostro dire. Gli operatori dell’informazione, al contrario, dovrebbero essere particolarmente attenti a questo aspetto perché ciò che comunicano avrà conseguenze per i fruitori nonché per i protagonisti delle vicende trattate. Servono quindi lucidità e responsabilità. E senso della misura. Le parole non sono neutre, sono culturalmente cariche di significati e connotazioni che danno loro valore. Soppesare i termini che si utilizzano non è un vezzo, ma un dovere. Le espressioni condizionano la comprensione e indirizzano il giudizio”. Come sosteneva J.L. Austin (ma non solo), l’atto linguistico ha sempre un effetto sull’interlocutore. E l’urlo delle parole non ha senso della misura. “Chi grida è sempre quantomeno fastidioso. Se poi grida cose dissennate, può essere pericoloso quando trova qualcuno che gli presta fede. Intendiamoci: dissennate significa prive di logica e di riscontri concreti. Non è un problema di opinioni, tutte sono legittime se argomentate. Ma l’urlo prescinde dal ragionamento, è uno schiaffo dato per testimoniare la propria esistenza agli altri e soprattutto a se stessi. È la forza dei deboli”.

L’etica dell’informazione come soluzione

In questo panorama si può ancora parlare di etica dell’informazione? “Si deve parlare di etica dell’informazione – sottolinea Sergio Gessi – A me spaventa molto chi pensa di avere la verità in tasca. Vero è solo ciò che risulta empiricamente comprovabile e tale carattere di provvisoria verità sussiste sino a prova contraria. Tutto il resto è propaganda e disinformazione, talvolta ingenua, più spesso strumentale e funzionale a interessi precostituiti. La vita è una continua dimostrazione che ciò che appariva indiscutibile appena un attimo dopo rivela la propria fragilità. La terra è stata per tutti piatta sino a quando un certo signore ha puntato il suo telescopio e ha scoperto un’altra verità: e affermarla non gli è costato poco, perché i paladini della verità si abbarbicano alle loro certezze. Etico, allora, è esibire al lettore con onestà il proprio punto di vista e non celare i limiti che sono connaturati a ogni essere vivente, per dirgli implicitamente: ecco questo è ciò che in buona fede ho compreso della vicenda che ti sto raccontando, ti chiedo scusa se non è tutto chiaro e non è tutto preciso. Altro che epigoni della verità”.

 

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