Giù la maschera dal prezzo del cibo

Che cosa accade quando un miliardo e mezzo di cinesi cambia la propria dieta e aumenta il consumo di proteine animali, in particolar modo della carne di maiale? A rispondere a questa domanda è il documentario di Stefano Liberti ed Enrico Parenti Soyalism: un viaggio tra Cina, Nord e Sud America e Africa, che denuncia […]

Che cosa accade quando un miliardo e mezzo di cinesi cambia la propria dieta e aumenta il consumo di proteine animali, in particolar modo della carne di maiale? A rispondere a questa domanda è il documentario di Stefano Liberti ed Enrico Parenti Soyalism: un viaggio tra Cina, Nord e Sud America e Africa, che denuncia le storture di un sistema di produzione del cibo globalizzato e concentrato nelle mani di poche multinazionali che controllano produzione, commercializzazione e distribuzione del cibo che mangiamo in un’ottica di massimizzazione del profitto.

«In Soyalism abbiamo scelto di concentrarci sulla soia e sulla carne di maiale perché rappresentano le contraddizioni del sistema alimentare globale moderno», racconta il giornalista e filmmaker Stefano Liberti, che ha presentato il docufilm a Terra di Tutti Film Festival (rassegna di documentari e cinema sociale dai luoghi dimenticati dai media che, svoltasi a ottobre a Bologna e Firenze, è giunta alla 13esima edizione). «Soia e carne di maiale sono catene di produzione che hanno forti esternalità negative, un elevato impatto sull’ambiente e sui diritti dei lavoratori».

Un’immagine tratta dal documentario di Stefano Liberti Soyalism

 

La Cina per soddisfare le nuove abitudini della sua popolazione ha mutuato il meccanismo di allevamento intensivo dei maiali dagli Stati Uniti, arrivando ad acquisire i colossi americani del settore che per primi, in North Carolina, hanno attuato un’integrazione verticale, dall’allevamento allo smaltimento dei reflui alle monocolture per i mangimi. Gli allevamenti intensivi oggi “divorano” le terre arabili. La Cina ha bisogno di importare soia dal Brasile, primo produttore al mondo, dove Mato Grosso e Foresta Amazzonica vengono disboscati per far posto alle coltivazioni che sostituiscono le produzioni locali. I piccoli agricoltori sono infatti esclusi da questo mercato, controllato da cinque grandi compagnie, e quindi costretti a vendere le proprie terre. I territori si trasformano, gli equilibri si spezzano, come spiega Stefano Liberti, autore di molte inchieste sulle filiere alimentari, da I signori del cibo. Viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta a Il grande carrello. Chi decide cosa mangiamo.

Stefano Liberti, autore di Soyalism insieme a Enrico Parenti

Questo sistema di produzione e consumo del cibo omologato e interconnesso a livello mondiale ha un costo molto alto in termini ambientali (inquinamento, deforestazione), ma anche sotto il profilo della qualità del lavoro e della biodiversità del cibo.

Sì, sono costi non in capo alle aziende produttrici ma scaricati sulle comunità, sull’ecosistema, e quindi su tutti noi. Le grandi aziende che a livello mondiale controllano la filiera alimentare portano avanti enormi economie di scala: cercano di produrre il più possibile al minor costo possibile per ricavare il maggior profitto. Nel prezzo non è computato il costo reale, ambientale e sociale delle produzioni. Oggi si parla di più di ambiente con le manifestazioni giovanili sul clima in tutto il mondo, però bisogna insistere ancora sull’impatto ambientale ed etico delle filiere alimentari e su quanti danni determinino un sistema di produzione e di consumo globalizzato all’inverosimile.

La carne dovrebbe tornare a essere un bene di lusso?

Di sicuro dovrebbe riguadagnare il suo vero valore. Oggi la carne è il prodotto di un’economia lineare industriale, in cui gli animali sono considerati come macchine produttive che hanno bisogno del carburante e dei quali bisogna smaltire gli scarti. I maiali ammassati nei capannoni richiedono ingenti quantità di mais e soia, importati dal Sud America per produrre i mangimi necessari a nutrirli, e generano una quantità di liquami che non può essere utilizzata come concime ma deve essere smaltita in lagune che contaminano le falde acquifere. Questo sistema permette di concentrare molta carne in poco spazio, ma con costi ambientali spaventosi che non vengono pagati da chi compra la carne. Se tornassimo a un modello che prevede il consumo di carne una o due volte la settimana, anziché una o due volte al giorno, si potrebbe stabilire un meccanismo virtuoso: ridurre il numero di animali allevati in maniera intensiva per prediligere una modalità più sostenibile e meno impattante. Le nuove generazioni sono senza dubbio maggiormente sensibili al tema rispetto alle precedenti. Credo che bisognerà arrivare al superamento degli allevamenti intensivi in maniera più graduale, dal basso, sulla spinta dei giovani consumatori, o attraverso provvedimenti normativi. Certo è che questo modello produttivo è insostenibile, soprattutto se popolazioni molto numerose, come quella cinese, si adattassero completamente allo stile alimentare occidentale. Le conseguenze sono raccontate in Soyalism. Occorre ripensare a questo modello di consumo perché non ci sono fisicamente le risorse sulla Terra per mantenerlo e diffonderlo a livello globale.

Il costo del deterioramento dell’ambiente e delle comunità di piccoli allevatori e agricoltori non è computato nel prezzo finale di vendita della carne. Il prezzo identifica la primaria strategia di marketing della grande distribuzione organizzata, terminale privilegiato di spesa per la carne e non solo, di cui si è occupato ne Il grande carrello.

La GDO, determinando l’accesso al mercato alimentare, ha assunto un potere sempre più forte negli ultimi anni. I player della grande distribuzione hanno un potere contrattuale notevolmente superiore ai loro fornitori: per questo possono richiedere loro determinate condizioni e in ultima istanza orientare i meccanismi di produzione in senso virtuoso o negativo, in questo caso con uno strozzamento dei prezzi che ricade sulla qualità del cibo e del lavoro. Negli ultimi anni in Italia le grandi catene di distribuzione hanno basato il loro marketing sull’abbassamento dei prezzi, sulle offerte e sul sottocosto, operando tutta una serie di pressioni sui fornitori per garantirsi forniture e poi rivendere a prezzi sempre più bassi. Ciò ha innescato le strozzature nella filiera: dalla distribuzione alle industrie, passando per i produttori agricoli fino ai braccianti, queste si scaricano sull’anello inferiore della catena. Le disfunzioni di questo sistema sono sotto gli occhi di tutti, nel caporalato e nello sfruttamento dei braccianti agricoli. Il problema va inquadrato in un’ottica di filiera che deve individuare le responsabilità dei singoli attori; la grande distribuzione ha una forte responsabilità perché vendere sottocosto un prodotto significa che qualcun altro ne sta pagando il prezzo.

Quale può e deve essere il ruolo del consumatore?

Oggi l’unica informazione chiara e visibile del prodotto è rappresentata dal prezzo. Se altre informazioni fossero obbligatoriamente esplicitate – informazioni legate alla sostenibilità della produzione, al consumo di CO2 e di risorse idriche, e al lavoro umano necessario per realizzarlo – i cittadini potrebbero fare scelte più consapevoli; non necessariamente più virtuose, ma comunque più consapevoli. La tracciabilità e la trasparenza saranno rese più semplici nei prossimi anni dall’avanzamento della tecnologia e da strumenti digitali sempre più accessibili. La carenza di queste informazioni rende oggi preponderante nella scelta del consumatore la leva del prezzo (più o meno alto, a seconda delle categorie di consumatori). L’impegno di fornitori e industrie alimentari in questa direzione non potrebbe però fare a meno della spinta propulsiva della grande distribuzione: pensare di riformare il sistema di commercializzazione del cibo al di fuori di questi player condurrebbe a un risultato limitato. Avrebbe impatto su un consumatore già di per sé sensibile, che però rappresenta una minoranza nel panorama nazionale.

Un modello alternativo alla GDO non è oggi fattibile.

Esistono esperienze di empori di comunità e gruppi di acquisto solidale che si stanno diffondendo in Europa, in Nord America e anche in Italia. Sono esperienze importanti di consumo critico che si propongono alla società come modello culturale, ma sono numericamente trascurabili. Più del 70% degli acquisti alimentari avviene negli esercizi della GDO. Non è detto che sarà sempre così, che tra 10-15 anni – con l’on-line che avanza – i supermercati avranno lo stesso ruolo centrale, però oggi la situazione è questa. Per riequilibrare la filiera e agire sulle strozzature attuali bisogna parlare con la grande distribuzione, individuare forme normative per sanzionare eventualmente le sue pratiche commerciali sleali e invertire la guerra degli sconti che ha lanciato. Una guerra che fa male a tutti: produttori, fornitori, ma anche agli stessi cittadini consumatori, che per risparmiare abdicano a una parte della qualità e della salubrità di ciò che mettono nel carrello.

Accrescere la trasparenza della filiera, per colmare la distanza creatasi nel tempo tra ciò che sappiamo e ciò che mangiamo, è un passaggio fondamentale. Da qui si parte per regolare la catena alimentare o servono comunque regole imposte dall’alto?

Entrambi i processi sono importanti e possono procedere in parallelo. Le richieste dei cittadini e la sensibilità dell’opinione pubblica contribuiscono a fare pressione sulla politica e a spingere i provvedimenti. L’informazione fornita al consumatore – ad esempio la provenienza della carne da un allevamento intensivo – resta determinante per cambiare le abitudini alimentari. Ridurre gli effetti del cambiamento climatico – le immissioni di CO2 provocate dal sistema di allevamento intensivo corrispondono al 14,5% delle emissioni di gas serra, secondo stime Fao – è un obiettivo che richiede un’azione quanto mai urgente.

La produzione della carne di maiale non è l’unico esempio. La crescente domanda a livello mondiale di prodotti come avocado e quinoa sta rompendo gli equilibri nei rispettivi territori di produzione (Cile, Bolivia). Allora forse non esiste una dieta sulla carta inattaccabile sotto il profilo della sostenibilità?

Lo spostamento del cibo è un fenomeno delicato e complesso. È necessario contemperare le esigenze e trovare un equilibrio, senza ricorrere a scelte radicali, perché comunque viviamo in un sistema globale e non è possibile tornare al Medioevo. Imporre il consumo esclusivo di produzioni locali sarebbe drastico. Quello che può fare un cittadino è ridurre l’acquisto di prodotti che aggravano l’impatto ambientale anche solo per il loro trasporto: ad esempio, in Italia, si può evitare di scegliere arance provenienti da Cile e Argentina. Il cibo ha sempre viaggiato, nella storia: serve una regolamentazione del suo commercio internazionale per intervenire su storture e irrazionalità.

 

 

Foto di copertina by Soyalism, di Stefano Liberti

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