Guglielmo Bedeschi: “Un tornio e un toni. Il mio primo lavoro non è mai finito”.

Il nonno si chiamava Guglielmo, come lui, e lo chiamava sempre Guglielmo Secondo ma aveva già intuito che sarebbe stato il primo. Guglielmo Bedeschi, Presidente da metà anni ottanta dell’azienda di famiglia che lavora nella produzione di macchinari e impianti per cementifici oltre che nella lavorazione e movimentazione di minerali, aveva un nonno molto povero che […]

Il nonno si chiamava Guglielmo, come lui, e lo chiamava sempre Guglielmo Secondo ma aveva già intuito che sarebbe stato il primo.

Guglielmo Bedeschi, Presidente da metà anni ottanta dell’azienda di famiglia che lavora nella produzione di macchinari e impianti per cementifici oltre che nella lavorazione e movimentazione di minerali, aveva un nonno molto povero che veniva dalla zona del Polesine e che da adolescente si imbarcava nei pescherecci di Chioggia. Stava nelle fornaci a produrre mattoni a mano lungo il Po dove c’era l’argilla migliore, quella nutrita dalle inondazioni. Rientrato da quei viaggi, disse una volta per tutte: “qui bisogna trovare una forma più intelligente” e così è stato. Il primo estrusore italiano per produrre i mattoni a macchina fu il suo, presentato prima alla Fiera di Padova e poi alla Fiera internazionale di Torino nel 1909.

“In Germania c’era già. Il nostro è uno di quei settori che ciclicamente vanno in crisi, allora abbiamo capito che dovevamo diversificare senza snaturarci. Le macchine per produrre i mattoni erano il nostro punto di partenza, ci lavoriamo tuttora, ma non potevano bastare. Macinare materiali era il nostro forte quindi ci siamo espansi anche in settori diversi ma sinergici tra loro: nei cementifici, nelle centrali elettriche per il carbone, nei fertilizzanti. Le ultime sono gli impianti per la logistica portuale, di trasbordo del materiale da una nave all’altra.

Parliamo di mercati in tutto il mondo, certo il Brasile è uno dei punti di snodo più attivi considerando tutto il minerale di ferro che mandano in Cina da cui quest’ultima, non avendo minerali, costruisce acciaio. La Cina non solo non ha porti sufficienti ma non ha porti con fondali adatti al pescaggio e alla portata delle grandissime navi, in pratica noi attrezziamo una sorta di porto mobile. Solo quando lavori a stretto contatto con le cosiddette potenze economiche le vedi anche nelle loro debolezze, infatti sotto questo punto di vista la Cina è di sicuro un Paese in via di sviluppo. Sembra forte dirlo, ma è così. Ora siamo entrati nel primo progetto industriale mondiale di una miniera su un fondale marino a 1600 metri, dietro c’è un consorzio che raccoglie Singapore, Stati Uniti e Nuova Guinea: noi facciamo una briciola del progetto ma senza le briciole del nostro rendere possibile la risalita dei materiali e dei minerali macinati non riuscirebbero a fare nulla. Nel lavoro ogni briciola, se ben specializzata, vale il tutto. Di mestiere trattiamo bene i materiali umidi e siamo specialisti. Quando fai l’imprenditore devi capire al volo su cosa sei forte e metterci subito sopra la tecnologia.

Il settore delle macchine dei mattoni è quello che poi ha costretto quei quattro o cinque nostri concorrenti, molto più grandi di noi, a chiudere e ad autoescludersi. Noi ci siamo salvati perché cinquanta anni fa abbiamo capito che era tempo di diversificare, di acquisire le conoscenze che non avevamo, per noi voleva dire rafforzare l’ufficio tecnico e quello di ricerca e sviluppo. Per fare impresa come si deve è necessario stare ai tempi con se stessi confrontandosi sempre col mercato. Siamo passati dalla lavorazione dei mattoni, fatti di argilla come materia prima, a materiali come carbone e calcare. La terracotta è un materiale che io accarezzo sempre quando lo vedo. Pensiamo a qualche monumento di duemila anni fa dove i mattoni sembrano ancora vivi.

Che valore attribuisce alla parola estero, quando si parla di mercato?

Per me estero è mondo. Estero è una parola per noi quotidiana; tra le oltre trecento persone che lavorano qui, l’unico che non parla bene l’inglese forse sono io.

Lavorare fuori dall’Italia richiede intanto di intuire quando uscire da un mercato e quando entrarci, da quale uscire e in quale entrare. È fondamentale. Guai a non esserlo, a volte anche noi abbiamo manifestato un ritardo e giustamente l’abbiamo pagato.

Chi è il più veloce in azienda, forse lei?

Tutti qui dentro lo dobbiamo essere, chi non ha velocità non entra. Abbiamo sempre lavorato all’estero e quindi sviluppato un’attitudine a correre sempre avanti e indietro, i cambi di valigia costanti sono la moneta di scambio per conoscere tutto ciò che sta là fuori.

Mi aiuti a capire se e quanto vi aiuti il non essere un colosso.

Siamo piccoli ma questa dimensione la sfruttiamo bene. Ad ogni modo siamo sempre sul fianco dei grandi concorrenti non solo italiani ma anche internazionali, non è che coi grandi capitali e le grandi dimensioni si ha sempre il risultato migliore. Se c’è un aspetto che penalizza le grandi aziende è la lentezza dei processi e delle decisioni. Facendo al contrario un’analisi onesta della nostra dimensione, riconosciamo che siamo un po’ deboli come struttura e organizzazione ma proprio su questo stiamo investendo negli ultimi anni. Bisogna dirsele le cose per crescere bene.

Da piccolo come guardava ai grandi intorno a lei?

Questo è sempre stato il mio lavoro, il mio primo lavoro che non ha mai avuto fine. Abitavamo sopra all’officina e mi comprarono un piccolo tornio. Ovviamente avevo anche la mia piccola tuta che qui chiamiamo il toni. Il mio primo lavoro non è mai finito. In tutte le successioni familiari bisognerebbe sempre capire chi è adatto a fare cosa, io alla fine credo di essere stato quello giusto e ho dedicato a questo impegno tutta la mia vita. Per quello che mi riguarda non ero mai stato un alunno modello, le elementari le avevo in parte saltate per via dei bombardamenti e delle vite un po’ da sfollati. Le medie non furono semplici e quindi mio padre mi mise nello storico Collegio Filippin, potrei scriverci un manuale su questo collegio, anzi “villaggio degli studi”, fondato e diretto da Monsignor Erminio Filippin, un sacerdote che non amava i preti. Lui è tra le figure più illuminate e intellettualmente oneste che abbia mai incontrato. Insomma fino al secondo anno superiore lì dentro mi promuovevano a fine anno con delle grandi spinte. Cominciavo a vergognarmi coi professori perché sapevo di non meritarmelo. Quella fu la prima volta in cui sentii di voler cambiare e di volermi meritare ciò che mi veniva dato. Ci diplomammo all’esame di maturità in tre su ventisei, certo io ben distanziato dai primi due ma con soddisfazione posso dire che quei due diventarono poi Pietro professore in cattedra a fisica della Normale di Pisa e Francesco il preside di Farmacia qui all’Università di Padova. L’Università di Ingegneria meccanica a Padova l’ho fatta sparata, ho studiato tanto e pure con fatica perché non mi reputo uno particolarmente intelligente ma tenacia e metodo non mi sono mai mancati. A ventitre anni ero ingegnere meccanico.

Il suo sguardo sugli universitari che assumete.

Niente può essere generalizzato, oggi però vedo forse meno sacrificio ma più strumenti a disposizione e quindi, a parità di potenziale, risultati soddisfacenti. Io sento di essere stato fortunato a poter fare l’imprenditore, lasciamo stare che sia facile o meno perché comunque farlo è una fortuna; per questo cerco sempre di mettermi a disposizione dei giovani che lavorano in azienda. Siamo triplicati negli ultimi quindici anni e confesso di non conoscerli più tutti per nome però voglio sempre fare in modo di poter restituire la fortuna che ho avuto. Anche per questo ospitiamo qui, periodicamente, alcune classi di scuola tecnica superiore. I giovani devono fin da subito conoscere il mondo del lavoro, orientarsi autonomamente secondo le loro aspirazioni.

Cosa vuol dire educare al lavoro?

Educare per me vuol dire mostrare, più che spiegare. Chi spiega ha sempre la presunzione di raccontare il giusto e invece i giovani, oggi più che mai, hanno bisogno di vedere per capire un’azienda, hanno bisogno di farsi la loro idea.

Educare gli imprenditori è possibile?

L’imprenditore, e lo si vede molto anche qui in Veneto, ha sempre difficoltà ad avvicinarsi al mondo universitario. Ha la sensazione che gli manchi qualcosa sul piano culturale e delle relazioni e, diciamolo, mediamente è poco preparato. In questa regione c’è ora una classe aziendale molto giovane che fa ben sperare, almeno me lo auguro. Manca il concetto dello studiare per imparare e non per avere un titolo. La formazione dei giovani è il sistema più rapido per migliorare un sistema, in due generazioni sarebbe il modo più veloce, economico ed efficace. Qualche anno fa avevo proposto il Passaporto degli studenti, un documento per rendere più dirette e autonome le visite dei singoli studenti alle aziende. I miei colleghi imprenditori in Confindustria sembravano tutti molto interessati all’iniziativa e quindi, alla fine di una riunione, dissi: “benissimo, allora prima di uscire firmate i moduli che vi ho lasciato là in fondo per mettere a disposizione la vostra azienda tra quelle che accoglieranno gli studenti con un tutor interno”. Di ottanta che eravamo, aderirono in meno di trenta. Soprattutto coi giovani non puoi solo promettere, devi far vedere che sei coerente. Nel mondo siamo destinati a doverci capire tra generazioni diverse e secondo me siamo già in ritardo per farlo. Questo è un tempo pieno di paradossi.

Di paradossi sono piene le aziende italiane.

Attraverso il lavoro si potrebbe fare molto per lo sviluppo e la distensione nel mondo ma purtroppo c’è una serie di interessi delle grandi lobby internazionali che lo condizionano. Parlo di livelli nazionali, basti guardare agli interessi del petrolio per tenere in piedi una serie di Paesi che forse sono le cause stesse dei problemi internazionali. Siamo stati tra i primi a lavorare in Iran e in Iraq negli anni ’60 e ’70. Mi fa rabbia pensare a come siano stai distrutti quei mercati. Mi fa male ricordare la bellezza e l’apertura di una città come Baghdad dove di sera si mangiava nel giardino, lì tra il Tigri e l’Eufrate dove pescavano liberamente e tu potevi mangiare con la stessa libertà. Quando arrivavi là al centro prenotazioni, ti facevano poi dormire in sedia o in poltrona perché gli alberghi erano pochissimi e strapieni ma andava bene così pur di stare su quel mercato emergente. L’Iran, molto più evoluto dell’Iraq e con una buona cultura media, era il nuovo mercato dell’Europa. Teheran era come Milano. Poi la caduta dello Scià e la presa del potere religioso; nel giro di nemmeno un anno non riconoscevo più nessuno dei miei clienti più stretti perché tutti erano stati costretti a mettersi sotto i turbanti. In un anno Teheran aprì settecento nuove moschee. Un caro amico di Teheran mi ripeteva sempre questo detto: “Prima si ballava in piazza e si pregava in casa, oggi si prega in piazza e si balla in casa. Mia figlia di sedici anni va a giocare a tennis coperta dalla testa ai piedi e quando entra a casa si mette in minigonna”.

Quale primo lavoro augura al suo primo nipote? Forse si aspetta un Guglielmo Terzo.

Devo a mio figlio Rino il merito di aver modernizzato questa azienda, di averla fatta crescere. Ogni figlio deve essere prima di tutto un uomo libero. Libero di intraprendere la sua strada che per forza sarà influenzata da chi lo ha preceduto ma dovrà anche distinguersi dal proprio padre. Ho due nipoti, il primo – Federico – ha ventitre anni e si è laureato a Londra in economia e finanza e ha un master a Madrid. Ora sta facendo la sua prima esperienza di lavoro a Milano. Il secondo – Leonardo – ha vent’anni e studia bene ingegneria meccanica a Padova. Quando, dico io, i nipoti ben preparati vorranno continuare il lavoro del padre, allora entreranno in azienda”.

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