Marino Golinelli: “Il futuro inizia ogni giorno”

Arrivo all’Opificio Golinelli senza la tensione naturale di quando ogni anno ci va in scena Nobìlita. Al contrario mi anima il sapore delle buone attese che non andrebbero mai chiamate aspettative. All’auditorium, colmo al suo solito come quasi ogni giorno dell’anno, ci arrivo di lato. Capisco subito che oggi non si parla di lavoro ma di […]

Arrivo all’Opificio Golinelli senza la tensione naturale di quando ogni anno ci va in scena Nobìlita. Al contrario mi anima il sapore delle buone attese che non andrebbero mai chiamate aspettative.

All’auditorium, colmo al suo solito come quasi ogni giorno dell’anno, ci arrivo di lato. Capisco subito che oggi non si parla di lavoro ma di spazio e di sogni lunghissimi che ti portano in orbita; a parlare davanti a centinaia di ragazzi c’è Umberto Guidoni, professione astronauta.

Marino Golinelli è tra le prime file, osservo la sua attenzione composta: il rispetto con cui ha creato la Fondazione che porta il suo nome, e messo in piedi l’Opificio, è palese ad ogni gesto che fa, a ogni parola che dice, a ogni silenzio che si porta con sé anche mentre ascolta chi ospita lì dentro.

Quando lo avvisano che sono arrivata non esita ad alzarsi, mi viene incontro, mi sento già a casa.

Ci sono spazi culturali fatti di materiali, architetture e presunzioni: non questo. L’Opificio Golinelli è un’altra cosa, qui l’aria che circola è già intrisa di buono, nessuna forzatura, e intuirne la forza propulsiva è istinto immediato.

“La mia formazione è stata anomala perché fino a quindici anni non ero niente. Poi ho iniziato da solo a leggere testi sulla chimica: ero affascinato da Niels Bohr. La mente me l’ha aperta al terzo anno di università un professore che mi parlava di universo. Un po’ come i ricchi che nascono pensando di avere solo diritti e invece avrebbero più di molti altri il dovere di restituire, aprire, aiutare, ridare indietro. La cultura è un’azione verso gli altri, non verso se stessi”.

Partiamo subito dal limite più grande dell’Italia, allora. Il nostro rapporto con la cultura.

Siamo un Paese di scarsa cultura, siamo un popolo arretrato.

Il lavoro ha oggi più che mai il compito di dare una visione olistica dei bisogni dell’uomo.

Mi dice questo perché le sembra sia urgente portare oggi l’attenzione sull’essere umano quando si parla di lavoro?

Glielo dico perché una volta non c’era proprio questa attitudine, questa attenzione, e invece se non passiamo di lì non andiamo da nessuna parte.

La visione delle espressioni della vita dell’uomo è stata solo dualistica fino ad ora, pensi che va avanti così da millenni: da un lato le discipline che facciamo rientrare nelle cosiddette humanities e dall’altro quelle che abbiamo sempre considerato a loro supporto, cioè le scienze e le tecnologie per semplificare. Invece è tutto unitario ma siamo già in ritardo, in Italia, nel considerarle così.

Qual è il peso che diamo alle parole?

Le parole che usiamo hanno un peso soprattutto quando le usiamo verso i più giovani e più li abituiamo a prendere confidenza con linguaggi diversi e globali, più ne guadagna la comunità intera.

Nel 1980 trascorrevo molto del mio tempo a Venezia e invitavo i premi Nobel. L’impatto era sempre lo stesso, la domanda era sempre la stessa: chi fa ricerca che cosa ne ricava? Del resto non è forse questo il compito degli scienziati? Aiutare l’uomo a capire. Mettevo insieme un Presidente dell’Accademia pontificia, un docente universitario, un fisico, personaggi noti del mondo accademico interessati giustamente a comprendere le necessità istituzionali e organizzative. Di fondo mi sembra essere anche il senso di Nobìlita quando mettete insieme pensieri così diversi e capaci di ispirare chi poi deve organizzare e costruire il lavoro, non solo pensarlo. Se non ispira una trasformazione, nemmeno un festival trova il suo senso.

Dove si colloca il lavoro all’interno di una comunità?

Chi sta ai vertici dovrebbe sempre avere cultura e senso di responsabilità. Dovrebbe. Gestire una polis implica molte strade, ognuna delicata, perché una polis esprime la somma di tutti i bisogni dell’uomo.

Lei ha vissuto esperienze di contatto con culture del lavoro diverse da quella italiana?

La storia industriale del lavoro prende le mosse soprattutto dai Paesi del nord Europa dove la visione era senza dubbio molto più utilitaristica. Oggi si ricerca altro e non si può far finta di niente, non possiamo continuare ad impostare il lavoro, la sua organizzazione e le sue relazioni riferendoci ancora a quel modello che non ha mai corrisposto alla natura dei Paesi europei più a sud, più legati alle discipline umanistiche. Le faccio un esempio che poi è il settore in cui mi sono costruito come imprenditore: l’industria farmaceutica di origine nord europea nasce dalla chimica, quella italiana o francese nasce dalla biologia. Gli imprenditori farmaceutici italiani, francesi o spagnoli sono quasi sempre farmacisti e il loro approccio alla visione dell’uomo non può prescindere dalla biologia, a differenza degli altri che hanno un approccio ai farmaci e alla loro valutazione basata esclusivamente sull’idea delle molecole e della chimica in generale.

A cosa serve oggi il lavoro? Di questi tempi non è più banale chiederselo

Oggi il lavoratore deve essere messo in condizione di capire il perché di ciò che fa. Lo ripeto: deve capire il perché. Senza la motivazione che parta da lui non cresce nessun progetto, nessuna impresa e nessuno Stato. Chi gestisce il lavoro ha questo compito, pensi agli imprenditori o ai sindacati che avrebbero su di sé non soltanto l’istanza di valorizzazione delle persone ma anche la ricerca di una loro forma di espressione, della loro voglia di partecipare ed essere coinvolte.

Crede che i manager italiani, provando a generalizzare, siano una categoria capace di capirlo?

Produrre è un verbo nobile qualsiasi sia il settore o il tipo di lavoro. Deve essere lui a coinvolgere chi lavora per lui, è un dovere di impresa. Serve tanta sensibilità nel fare l’imprenditore eppure spesso lo si sottovaluta. A mio avviso, solo il 5% dei nostri imprenditori ha questa dote.

Anche l’Industria 4.0 ha bisogno di motivazione.

Per la prima volta qualcuno che parla di Industria 4.0 senza banalizzare. Cosa intende?

Innovazione vuol dire conoscere e usare le tecnologie per rispondere e semplificare i bisogni dell’uomo che a sua volta va motivato in ciò che fa e produce. Sbaglia chi si esprime sempre in termini di conflitto tra uomo e macchina. Le persone devono essere stimolate anche sul piano tecnico e tecnologico e questo è un passaggio basilare. Ogni epoca evolve anche attraverso i conflitti che si superano preparando prima gli esseri umani, formandoli, motivandoli alla trasformazione.

Pensa che abbiamo perso occasioni nel prepararci ai cambiamenti?

L’Italia è uno dei Paesi più arretrati che conosca e lo è perché ha una grande carenza di cultura. Guardi soltanto alla scuola: dove va un Paese che imposta ancora l’istruzione e la formazione solo su un piano ideologico? La nostra scuola è ancora divisa tra una visione crociana e una visione scientifica eppure dovremmo al contrario immaginare sempre la persona come uomo creatore, fin da piccolo. Ogni tipo di lavoro dovrebbe dare la possibilità all’uomo di sentirsi un po’ creatore e di rispondere alle sue necessità, ognuno alle sue.

Lei sta andando incontro al secolo di vita e non perde mai l’occasione per parlare di futuro. 

L’11 ottobre compirò 99 anni ma già il giorno dopo sarebbero 100, c’è sempre un inizio dietro una fine. La vita è un meccanismo circolare anche se ce lo raccontano come una linea retta.

Alle persone chiedo spesso “Tu perché vivi?” e la maggior parte di loro scantona spostandosi sulla religione. Dovremmo capire che la vita e ogni dimensione che appartiene all’uomo ha una visione circolare, non lineare; relativa, non assoluta. 

I giovani di oggi, anche quelli che ospitiamo dentro il nostro Opificio, sono gli uomini creatori di domani e qui facciamo in modo che lo capiscano presto e che si preparino a diventarlo fin da ora. Il futuro inizia ogni giorno. 

Viviamo il tempo unico della storia in cui al lavoro coesistono quattro generazioni a confronto.

La povertà non è soltanto quella materiale, nel nostro Paese. La nostra è una povertà di progetti e di lunghezza delle idee. Se avessero usato il reddito di cittadinanza per investire su scuole migliori ne avrebbe beneficiato a lungo tutta la comunità italiana. Torniamo alla questione iniziale: perché non lo fanno? La politica non lo fa perché non ha cultura e non capisce il proprio senso di responsabilità.

Come vede la Bologna in cui lei ha generato tutto questo?

Non mi sento di dire che Bologna abbia una esclusiva nel fare cultura e nel fare impresa, semmai potrei dire che a volte le università sono state carenti ma questo capita in tutta Italia, purtroppo. Cosa fanno, ancora? Una formazione astratta, una formazione su carta. Dovrebbero dare un metodo, essere uno strumento di ascolto e di legame col territorio e con le scuole. Noi come Fondazione collaboriamo molto con l’ateneo di Bologna perché ne vediamo tutti i meriti ma forse anche lo scambio che hanno loro con noi e con altre istituzioni culturali e centri di ricerca più elastici sta contribuendo ad una loro trasformazione interna e sui territori, apre un circolo virtuoso a beneficio di tutti.

Ricerca e innovazione ce le raccontano sempre staccate dal resto. Perché?

Io ho sempre combattuto la distinzione netta, molto italiana, tra ricerca pura e ricerca applicata. Mescolare e motivare è la chiave di tutto. Il futuro – lo dico ai giovani che incontro ogni giorno – è per chi sceglie di muoversi e uscire da qualsiasi forma di unicità. Magari inizialmente sbaglieranno ma non importa. Tutti abbiamo il diritto di fare errori e di farli bene, diffidate sempre di imprenditori che parlano di business e di assoluto. Io di me ho capito molte cose solo nel tempo ma del resto è difficile vivere e capire subito ciò che siamo e desideriamo. Anch’io ho sbagliato tanto come tutti, per fortuna.

 

Gli chiedo una foto che fissi per me una delle interviste più solide mai fatte nel mio lavoro. Ci mettiamo in posa davanti ad uno dei quadri che gli riempiono l’ufficio piccolo ma carico di colori e totalmente a vetro in mezzo agli spazi dell’Opificio dove tutti vedono tutto. Accanto a noi c’è una sua foto su fondo rosso dove la figura del Cavaliere – se ti avvicini lo vedi bene – è composta da tutti i volti dei suoi collaboratori. Gliel’hanno regalata da poco. 

Cristina Lertora mi ha accompagnata fin lì ed è piacevolmente rimasta con noi per tutta l’ora di intervista, lei Responsabile dello staff di Presidenza e Direzione e della Comunicazione: ci scatta la foto, lo ringrazio, ci salutiamo tra un sorriso.

Quando salgo in macchina la prima cosa che faccio è guardare come siamo venuti. Marino Golinelli ha una mano in tasca, disinvolto con la vita, e sorride che buca l’obiettivo.

Bologna è una città fortunata.

Photo credits: Andrea Verzola. L’Opificio Golinelli per Nobìlita Festival

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