I Big Data invisibili degli incubatori veneti

Da Marco Polo in poi i Veneti hanno mantenuto una salda vocazione imprenditoriale. Di acqua sotto i ponti ne è passata e nel 2018 quella inclinazione si è allargata anche alle startup. Il Veneto è la quarta regione in classifica per numero di startup innovative iscritte al registro delle imprese con ben 869 iniziative avviate, […]

Da Marco Polo in poi i Veneti hanno mantenuto una salda vocazione imprenditoriale. Di acqua sotto i ponti ne è passata e nel 2018 quella inclinazione si è allargata anche alle startup.

Il Veneto è la quarta regione in classifica per numero di startup innovative iscritte al registro delle imprese con ben 869 iniziative avviate, staccando di poco l’Emilia Romagna, terza dopo Lombardia e Lazio. Di incubatori certificati ce ne sono solo tre, probabilmente dovuto anche alle recenti norme che pongono dei requisiti minimi per la certificazione come i metri quadrati della struttura che lo ospita, che siano stati fatti almeno 5 brevetti e abbiano una certa dotazione tecnologica. I tre sono comunque tra quelli in Italia che per il registro fatturano di più. Parliamo di H-Farm, società quotata in borsa, T2i, controllato dal sistema camerale veneto e Vega, incubatore del parco scientifico tecnologico di Venezia. Curiosando nel vasto ambiente degli innovatori non è stato facile trovare informazioni che non fossero quelle ufficiali forniti delle aziende. Abbiamo chiesto a startupper, docenti universitari, innovatori, ricercatori, investitori e imprenditori per conoscere il reale stato di salute degli incubatori, sentendo la voce a margine di chi opera nel settore.

Pochi sanno poco e chi ne sa qualcosa in più non vuole essere citato per timore di ripercussioni sul proprio lavoro o sui propri rapporti.

È come se gli incubatori fossero una nicchia accessibile a pochi e delle «exit», le startup che escono dagli incubatori per spiccare il volo nel mondo delle imprese, c’è la rara traccia di quell’esperienza di successo magari avvenuta in passato. Eppure è questo il vero parametro per misurare il successo di un incubatore, il cui obiettivo è quello di supportare startup per diventare aziende di successo e non quello di tenersele per anni parcheggiate al loro interno.

È la comunicazione degli incubatori a non funzionare o non funzionano e basta?

Il caso più emblematico è Vega, l’incubatore del parco scientifico tecnologico del Comune di Venezia. Su almeno 30 persone segnalate come «informate sui fatti» solo in tre ne sanno qualcosa. E non sono buone notizie. C’è chi dice che stia chiudendo e chi che sia ridotto a mero affitta uffici. Nessuno con dati alla mano, ma si vocifera che a causa della mancata concessione dell’allargamento della struttura stia crollando. Se il business di Vega fosse basato realmente sull’affitto di spazi, l’ipotesi potrebbe essere plausibile. C’è traccia però di qualche evento di open innovation, nulla più.

Dall’ufficio stampa spiegano che l’incubatore si propone di incentivare startup soprattutto nell’ambito information e innovation technology, spinoff universitari grazie al rapporto con le università Veneziane come la Ca’ Foscari. Sono 15 le start up e le PMI innovative insediate nell’Incubatore di Vega.

Attraverso una scheda informativa fanno sapere che l’ultima startup arrivata, a maggio, è Tooteko, spin off dell’Università di Architettura IUAV di Venezia, che rende accessibili le opere d’arte ai non vedenti. Tra i casi di successo segnalano Fablab Venezia, una delle prime start up ad essersi insediata nell’incubatore, un «open lab» per la fabbricazione digitale a basso costo. La startup ha ancora sede nell’incubatore. Alla domanda: «È possibile avere i numeri delle exit anche solo dell’ultimo anno?», nessuna risposta. Certo è che nemmeno nella scheda informativa c’è traccia di exit.

H-Farm: aumentano i ricavi, diminuiscono gli utili. E le “exit”.

Molto più famoso e chiacchierato è H- Farm, la grande «fattoria» a Roncade, alle porte di Venezia, fondata nel 2005 da Riccardo Donadon, chiamato dall’ex Ministro Passera nella Task Force di esperti per disegnare provvedimenti per lo sviluppo delle startup. Chi è stato da H-Farm racconta di un luogo esteticamente molto bello. E la comunicazione è davvero graficamente impeccabile. Chi, come Andrea Elastici, imprenditore e blogger, ci è stato, sostiene di non aver incontrato startupper, «facce sconvolte e insonni come ci si aspetta abbia uno che fa lo startupper in Italia, lottando contro burocrazia e mancanza di soldi cronica», come scrive sul suo blog. Da H- Farm non hanno difficoltà a spiegare che il modello di business negli anni si è evoluto e attualmente è composto da 2 macro aree, Innovation ed Education, che racchiudono l’offerta di servizi verso le aziende e gli studenti, a cui si affianca l’attività di scouting e investimento in startup.

Dopo i primi 10 anni, in cui H-FARM ha operato solo come Venture Incubator, oggi l’attività di investimento avviene perlopiù in modo diretto, attraverso InReach Ventures, la piattaforma di intelligenza artificiale che svolge attività di selezione e scouting delle startup più interessanti su scala europea. «Fino a  qualche anno fa – spiegano da H-Farm – seguivamo un modello simile a quello che ritroviamo in Silicon Valley e che trova riscontro nell’esperienza delle startup del Regno Unito. Un modello che puntava a raccogliere fondi dai venture capital e, nella migliore delle ipotesi, raggiungere il traguardo di una exit o diventare un cosiddetto unicorno. Ci siamo resi conto però che il mercato italiano è diverso e più complesso: ci sono pochi venture capital e pochi capitali di rischio. Abbiamo quindi ripensato il nostro modello e cercato la strada migliore per far crescere l’ecosistema startup, individuando anche nuovi interlocutori, prime fra tutte le imprese. Siamo stati i primi in Italia a parlare di Open Innovation lanciando nel 2013 il format H-ACK, un evento di 2 giorni in cui giovani startup e imprese si incontravano e confrontavano per individuare soluzioni innovative ai bisogni delle imprese. Oggi l’open innovation fa parte delle soluzioni strategiche che siamo in grado di offrire, pertanto continuiamo a collaborare con le migliori startup e le aiutiamo a crescere».

Dal 2005 H-Farm ha investito oltre 27milioni di euro per supportare lo sviluppo di oltre 120 imprese innovative. Un insider, che non vuole essere citato, spiega che, quando una startup è contattata da H-Farm, gli viene offerto un finanziamento iniziale in cambio della cessione di alcune quote dell’azienda. Di quei soldi però, spiega, la maggior parte vanno via in corsi di formazione che stesso H-Farm offre e altri servizi a pagamento con la promessa che prima o poi la startup prenderà il volo. I costi dei servizi e dei corsi sono tutti on-line e non sono certo più economici di quelli di Oxford.

Da H-Farm sono venute fuori nel passato realtà di successo per esempio Depop, l’app di second hand nata nel 2011, con oltre 10 milioni di utenti che ha chiuso pochi mesi fa un round di 20 milioni di euro. Travel Appeal, nata in H-Farm nel 2014, con la sua soluzione di intelligenza artificiale a sostegno dell’industria del turismo è utilizzata da 4 mila clienti in Italia e Europa. Ha due sedi in Italia e due in Europa, e ha appena chiuso un giro di affari da 3 milioni di euro. Zooppa, tra le prime startup incubate in H-Farm, nel 2007, importante piattaforma creativa per la produzione di video, grafiche e idee pubblicitarie per grandi brand di tutto il mondo sta crescendo in maniera sostenuta negli Stati Uniti. Casi di successo ma a lungo termine e non recenti.

Nei bilanci dell’azienda si legge nel 2017 un consistente aumento dei ricavi a 47,9 milioni di euro (+47%) con margini che restano sotto lo zero (1,6 milioni l’Ebitda contro i -3 dell’esercizio precedente) ed un utile sulla stessa zona di rosso (-6,2 milioni) dell’anno prima. Ma da H-Farm rassicurano: «La perdita è dovuta agli importanti investimenti che abbiamo fatto in questi anni, per far crescere le divisioni Innovation e Education. Stiamo pian piano raccogliendo i frutti. In questo primo semestre abbiamo più che dimezzato la perdita a livello di Ebitda, entrambe le divisioni crescono a doppia cifra. E il mercato ci ha dato ragione: nei primi 6 mesi del 2018 vediamo un +20% di richieste di progetti Open Innovation, arrivati oggi a più di 90». Dunque non sono le startup incubate a creare valore. Nel bilancio si legge che nel 2017 ci sono state 5 exit «tra cui Oberlo, società finlandese selezionata tramite InReach, che ha permesso di realizzare un ritorno dell’investimento di 2,5 volte e Indigo AI (startup del Cisco Industry Fashion & Retail Accelerator Spring 2016) con la quale si è triplicato l’investimento iniziale dopo 9 mesi». Peccato che più avanti c’è scritto che la vendita ha generato proventi per appena 40mila euro. «Operazioni di dismissione» riguardano altre tre startup: Faberest, partecipata al 10,00%, Timbuktu, partecipata allo 0,6% e Misiedo, partecipata al 25,30% e ceduta a Restopolitan, operatore francese del settore. La cessione di Faberest ha portato un decremento del fondo di svalutazione per 37.881 euro, mentre Timbuktu al 31 dicembre 2016 aveva un costo storico di 23.717 euro. Cifre diverse per Misiedo: H-Farm ha utilizzato il fondo di svalutazione per  421.177 euro per «la mancata sottoscrizione, da parte della Società, alla ricapitalizzazione della stessa a seguito della necessità di far entrare in quota totalitaria Restopolitan. Ma, come da accordi, i vecchi soci possono vedersi riconosciuto un «premio qualora la società raggiunga determinati risultati economici nei prossimi anni».

Poi c’è T2i – Trasferimento Tecnologico e Innovazione di Rovigo, società consortile per l’innovazione delle Camere di Commercio di Treviso-Belluno, Verona e Venezia Rovigo Delta-Lagunare. T2i, trasferimento tecnologico e innovazione, nato nel 2014 dall’unione di Treviso Tecnologia e Polesine Innovazione. Con l’integrazione, nel 2016, di Verona Innovazione, T2i raggruppa il numero maggiore di enti camerali (5 su 7). Nel 2017 diventa il primo Digital Innovation Hub del Triveneto ad essere riconosciuto dall’Unione Europea. Successo anche per il fatturato tra i 3 e i 5 milioni di euro senza registrare perdite. Forte del consorzio istituzionale che lo gestisce, attualmente incuba 20 startup innovative. «Al contrario di altri non obblighiamo le startup in ingresso a cederci quote della società – spiega Alberto Previato, responsabile dell’incubatore – Facciamo dei colloqui per scegliere le startup più promettenti che stipuleranno con noi un contratto». Con 150 euro + iva al mese la startup ha diritto ad usare gli uffici e la segreteria. Se si desidera avere un ufficio privato i costi aumentano. Poi ci sono corsi di formazione obbligatori e altri a pagamento salvo che non ci siano in vista finanziamenti pubblici. Tra i vari servizi anche quelli di accesso al credito con prestiti in convenzione fino a 25.000 euro. «La missione è quella di offrire servizi alle imprese – continua Previato – l’obiettivo è quello di non andare in perdita, non di creare utile. Se ce ne sono li rinvestiamo».

L’incubatore ha definito il suo asset da poco e ancora non registra casi significativi di exit.

Casi di successo ce ne sono, come Kaymacor che ha iniziato la produzione da circa un anno e ha già venduto 12 macchine. La startup ha ancora il domicilio e il laboratorio di prova dentroT2i e dall’incubatore spiegano che molti startupper preferiscono rimanere perché è comodo e hanno svariati servizi a portata di mano.

M31: fuori dal sistema italiano, guarda all’estero.

Nell’ecosistema dell’innovazione veneto ci sono anche altri incubatori come M31 di Padova, uscito dall’elenco di quelli certificati perché non soddisfaceva alcuni dei requisiti di legge come lo spazio per uffici. «Pazienza, non intendiamo adattare il modello di business per soddisfare i criteri della legge – ha detto il founder Ruggero Frezza–  siamo M31 e non siamo un incubatore. Le nuove imprese le facciamo e le sosteniamo lo stesso». La visione di M31 è creare una galassia (da qui il nome) di imprese innovative, idealmente spinoff della ricerca, intorno alle Università venete. La missione è valorizzare proprietà intellettuale, know how, tecnologie tramite la creazione di nuove imprese e il trasferimento tecnologico soprattutto nel settore delle tecnologie dell’informazione. Così dal 2007 ha avviato oltre 12 imprese, tutte spinoff della ricerca e validato più di 20 domande di brevetto internazionale. Annovera storie di successo come Centervue, ceduta nel 2017. «È il nostro primo investimento – racconta Frezza –  che, grazie al know how di un mio socio in M31, è stata impostata bene fin dall’inizio ed ha iniziato sviluppando macchine per lo screening di patologie della retina che producessero immagini di buona qualità e fossero molto semplici da utilizzare. Oggi è diventata una multinazionale tascabile che fa macchine di punta per l’imaging della retina con una sede in Silicon Valley ed una in Cina. Sta crescendo a doppia cifra e produce una marginalità superiore a quella media del settore. Chi l’ha comprata da noi ha fatto un ottimo investimento. Poi Adant che sviluppa sistemi di antenna intelligenti per le comunicazioni wireless, possiede molti brevetti ed è riconosciuta come l’impresa leader nel campo delle antenne adattative. Il suo mercato è tutto all’estero diviso tra l’Asia, gli Stati Uniti e la Russia». Di Aprile 2018 è la notizia di un’altra exit, Adaptica, ceduta a un grande gruppo cinese.

Dopo telefonate, contatti e chiacchierate sono venute fuori una miriade di altre situazioni più piccole ma che secondo gli insider intervistati operano «sanza ‘nfamia e sanza lodo», a dirla alla Dante Alighieri. Dai racconti sembrano «Qualcosatori», rubando la definizione ad Andrea Elastici, che per sua ammissione l’ha rubata a sua volta a Francesco Mantegazzini. Fanno cose, varie cose, più o meno utili, più o meno a pagamento. Tenerne il conto sembra impossibile, fatta pace per gli incubatori universitari che sembrano funzionare davvero bene. Ma la loro missione è chiaramente differente rispetto a quelli citati. L’impressione è che in Veneto, come in altre regioni italiane, gli incubatori non godano di una gran bella salute e che siano più «succhia soldi» che creatori di unicorni. Di exit se ne sentono poche, e quelle poche che ci sono fanno clamore come perle rare.

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