Giovanni Clementoni: “L’innovazione è un gioco di società”

Intervistiamo il titolare dell’ultima vera fabbrica di giocattoli in Italia, da sessant’anni sul territorio di Recanati per proporre un’idea di gioco utile e attento ai cambiamenti della società: al centro dell’azienda e dei suoi prodotti ci sono la ricerca e la capacità di generare relazioni

23.02.2024
Giovanni Clementoni

Jeans, maglione blu scuro a collo alto, capelli corti e brizzolati, occhiali con montatura squadrata. A prima vista Giovanni Clementoni ricorda un po’ Tim Cook, l’erede ad Apple di Steve Jobs. L’analogia però svanisce in fretta davanti a un’affermazione piuttosto sorprendente, pronunciata con leggero accento marchigiano: “Non ho uno smartphone. O meglio, ce l’ho ma lo uso come uno di quei vecchi cellulari: chiamo e mando qualche messaggio. Le cose bisogna dirsele di persona, altrimenti si pensa di essersi detti tutto, e invece non ci si è detti quasi nulla”.

 

 

La vostra azienda è l’ultima vera fabbrica di giocattoli in Italia, e ha sessant’anni. Come si rimane sul mercato così a lungo?

Bisogna cercare di unire la capacità di innovare a quella di creare solidi legami con le persone e col territorio. Mio padre, per esempio, fondò l’azienda dopo aver visitato la fiera del giocattolo a New York, avendo notando che in Italia oltre al Gioco dell’oca e al Monopoli non c’era quasi niente. Però non la fondò in città, ma nella sua terra, che al tempo era a vocazione agricola e artigianale. La sua grande innovazione fu spostare l’attenzione dal giocattolo al gioco. Vede, i giocattoli trovano la loro caratteristica centrale proprio nella forma, nella materia; i giochi invece sono tutti dentro a una scatola, e la loro forza sta nel contenuto. Questo vuol dire che puoi risparmiare nella produzione, ma anche che devi creare di continuo giochi nuovi. L’innovazione, quindi, è al cuore del nostro prodotto.

Può farci un esempio?

Il primo gioco di mio padre fu la tombola della canzone. Si trattava di un gioco in cui, usando delle schede traforate e una sorta di rudimentale organetto, si potevano suonare delle melodie popolari dell’epoca, che i giocatori dovevano indovinare e segnare sulla loro tombola. L’idea partì dalla tradizione del territorio, dal momento che qui si producevano fisarmoniche. Ma allo stesso tempo fu molto innovativa, perché nessuno aveva pensato a qualcosa del genere. Ricordo mio padre che guardava con grande attenzione Sanremo, e subito cercava di ripetere al pianoforte le melodie delle canzoni più popolari per metterle nel gioco. Funzionò anche perché sotto le tre battute non si dovevano pagare i diritti.

Il grande successo però fu il Sapientino.

Quella fu forse la seconda grande innovazione: concentrarsi sul gioco educativo. Come diceva sempre mio padre: “Il gioco è una cosa seria”. Puntare sui giochi “formativi” ci ha permesso da una parte di sviluppare un brand forte, dall’altra di essere “immanenti” in ogni momento dell’età del bambino. A differenza di altre merci, infatti, il gioco ha una finestra molto precisa di utilizzo, e quindi di attrazione: per esempio, il gioco che va bene in età prescolare viene abbandonato e ritenuto poco interessante nel raggio di pochi anni, se non mesi. Il brand, allora, non si fa con gli eccessi di comunicazione, ma si coltiva a partire dall’utilizzo. Ecco quindi che diventa fondamentale coltivare una presenza costante sul mercato. E il gioco educativo è molto utile a questo scopo.

Serve però anche un’innovazione costante.

Esatto. E non si tratta tanto di un’innovazione di processo o di tecnologie. Intendiamoci: i processi informatici vanno sviluppati. Noi per esempio abbiamo investito presto e tanto nella digitalizzazione, e produciamo molto codice internamente per migliorare gli aspetti produttivi. Ma il “know-how tecnico” nel nostro settore è relativamente basso, e la protezione della proprietà intellettuale sui giochi è inesistente. Ci sono diverse aziende che, appena esce un nostro nuovo gioco, lo copiano con minime variazioni. Difendersi in ambito legale sarebbe inutile. Perciò l’unico modo di crescere è continuamente osservare, studiare, confrontare per creare prodotti nuovi. Per questo abbiamo più di 60 persone nel reparto ricerca e sviluppo, tendenzialmente giovani

Perché non avete delocalizzato la produzione all’estero?

“Innovazione” è un concetto ampio. Ognuno ha il suo modo di farla. Con l’apertura della Cina e dell’Estremo Oriente al mercato globale quasi tutti i nostri concorrenti decisero di spostare lì la produzione. Noi invece decidemmo di restare qui. Volevamo poter creare la possibilità di innovare insieme alle persone della nostra zona. Ancora oggi abbiamo un solo stabilimento produttivo a Recanati, dove è nata l’azienda sessant’anni fa. Solo che all’inizio i giochi li produceva mio padre con le sue mani insieme a poche persone, tra cui mia madre; oggi lo stabilimento è di 50.000 quadri metri ed è popolato da più di 600 persone.

La coabitazione e la provenienza dallo stesso territorio rende possibile anche quella comunicazione diretta e personale a cui tiene molto?

Direi di sì. Quando si fa un prodotto come il nostro è fondamentale che la comunicazione sia precisa, concreta, fattuale. In questo la tecnologia aiuta solo in apparenza. Perché è vero, tiene traccia delle comunicazioni, ma le sfumature non si riescono a dare a distanza. In questo modo la comunicazione diventa ridondante e ci si difende dietro il “te l’avevo detto”. Così finisce che in azienda hai gente che riceve duecento email al giorno e si fa dettare da loro l’agenda della giornata. Oppure si pensa di lavorare sulla stessa idea, ma si arriva a conclusioni molto diverse o persino opposte partendo dagli stessi dati. Così però la vera comunicazione muore, e con essa l’innovazione.

Sembra quasi che descriva l’innovazione come un processo lento.

In un certo senso è così: non credo che l’innovazione sia “disruptive” – come si dice oggi. Piuttosto è un processo costante, che parte dall’osservazione e si sviluppa nella comunicazione. Per noi, per esempio, è fondamentale frequentare tutte le fiere di mercato, restare in contatto con aziende estere simili alle nostra, lavorare con le scuole e con le famiglie per restare al passo con i cambiamenti e capire come sviluppare al meglio i nostri prodotti. È così da sempre: ricordo mio padre che portava a casa i suoi nuovi giochi e osservava me e i miei fratelli che ci giocavamo. Oppure quando insisteva che ogni viaggio all’estero, al tempo costoso, andava ripagato con almeno un’idea di pari valore.

Un’altra cosa che non è cambiata è l’attenzione al sociale.

Sì. I nostri giochi vengono anche utilizzati nelle scuole e negli ospedali. In alcuni casi ne abbiamo persino studiati appositamente alcuni per aiutare le persone ad affrontare specifici problemi, come l’autismo, il bullismo, l’Alzheimer. Cerchiamo però non di fare, per esempio, giochi per bambini autistici, ma giochi a cui anche i bambini autistici possano giocare. L’anno scorso, per il sessantesimo anniversario dell’azienda, abbiamo deciso di fare un libricino che raccontava queste esperienze. Pensi che persino molti nostri dipendenti non le conoscevano. Ma abbiamo visto che hanno apprezzato molto l’iniziativa, e anche loro coinvolgimento e attaccamento all’azienda è aumentato.

Il rapporto con il gioco dei bambini invece come sta evolvendo?

I bambini hanno sempre meno tempo per giocare e sempre meno amici con cui farlo. La loro giornata è piena di attività che lasciano poco spazio al gioco, e sempre più spesso sono figli soli o frequentano pochi amici. Per questo per noi è fondamentale promuovere il gioco di relazione, non individuale. Il gioco aiuta a socializzare. E per fortuna i dati dicono che i ragazzi, dai teenager in su, stanno riscoprendo questa sua funzione. Per questo rimango ottimista verso il futuro: l’importante è continuare a interpretare i cambiamenti.

 

 

 

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Photo credits: e-duesse.it

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