I cartellonisti hanno un colpo solo, parola di Daniele Moretti

L’addetto ai lavori o il semplice curioso che percorre il Lungomare Marconi – l’arteria del distretto festivaliero durante i giorni della Mostra del Cinema di Venezia – non può fare a meno di imbattersi nei manifesti dei film in competizione o fuori concorso: campeggiano di fronte al Palazzo del Cinema, dove i fan si assembrano […]

L’addetto ai lavori o il semplice curioso che percorre il Lungomare Marconi – l’arteria del distretto festivaliero durante i giorni della Mostra del Cinema di Venezia – non può fare a meno di imbattersi nei manifesti dei film in competizione o fuori concorso: campeggiano di fronte al Palazzo del Cinema, dove i fan si assembrano anche nella notte pur di non perdere l’occasione di toccare i loro idoli; costellano il percorso da e verso il mitologico Hotel Excelsior, location di eventi, feste, incontri, convegni, dove si incrociano divi e influencer prima dei red carpet. Non è un caso che nel luogo di massima concentrazione cinefila italiana vi sia spazio per l’arte delle locandine, resa celebre dai cartellonisti che, dal secondo dopoguerra in poi, hanno contribuito alla popolarità di molte pellicole presso il pubblico, allora più numeroso di quello attuale. Ma cosa c’è dietro la dimensione grafica della promozione di un film, oggi?

 

Lo abbiamo chiesto a Daniele Moretti, art director romano specializzato nella comunicazione visiva per l’industria dello spettacolo. Suoi sono gli artwork per Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, La pazza gioia di Paolo Virzì e le serie Sky Gomorra e 1993. Da sempre affascinato dalle opere dei cartellonisti italiani – Renato Casaro su tutti – e appassionato di fumetti, Daniele Moretti è un grafico autodidatta che ha fatto esperienza sul campo. Da settori anche molto lontani è approdato al cinema. Dopo una lunga gavetta in una casa di distribuzione, curando i materiali promozionali dei film in arrivo dall’estero, la decisione di lavorare in maniera indipendente: nel 2011 nasce Big Jellyfish (www.bigjellyfish.it), studio che da un paio di anni è cresciuto, coinvolgendo altri due collaboratori.

 

Da dove partire per creare una locandina e in generale il materiale illustrativo che sostiene la promozione di un film?

Si parte dal girato o, se il film non è in produzione quando ci affidano il progetto, dal materiale disponibile come la sceneggiatura. Prendono corpo le idee insieme alla distribuzione, che è il nostro primo referente, e si approvano una o più strade da percorrere nello stabilire l’aspetto visual. Il passo successivo è un apposito shooting fotografico.

Come funziona?

Lo shooting riguarda gli attori principali; spesso per risparmiare tempo si va direttamente sul set per fotografarli. Per loro non è sempre facile interagire con la macchina fotografica, stando magari posizionati davanti a un fondale grigio. Occorre parlarci, dare loro indicazioni affinché riescano a ricalarsi nell’immaginario del film e del loro personaggio anche in un contesto differente, dove vengono chieste loro pose magari particolari, che poi saranno utili in seguito anche se loro non se ne rendono conto. Dal 2011 lavoro su molti progetti con Philippe Antonello e Stefano Montesi, due grandi fotografi particolarmente dotati ed esperti in ambito cinematografico: ormai ci conosciamo, sappiamo cosa vogliamo e il rapporto di collaborazione è sempre più fruttuoso. Con lo shooting si conclude la prima fase. Poi subentra quella di post-produzione, nella quale realizzo le mie proposte che vengono discusse, scartate, modificate – se il film ha intrapreso un’altra strada rispetto alle intenzioni iniziali – e rifinite. Una volta approvato il concept, mi occorrono circa due settimane per definire e completare l’artwork.

In che misura hai carta bianca?

È un lavoro collaborativo, condiviso con la distribuzione – il team marketing può comprendere molte persone – e la produzione; nei progetti più grandi il brainstorming coinvolge anche il regista. La sfida più complessa nel definire la comunicazione visiva è fare una sintesi, metabolizzare le diverse idee, sensibilità e i differenti approcci al film, non avendo paura di sbagliare fino al raggiungimento di un accordo. La distribuzione ha necessità di parlare al pubblico, avendo un background consolidato in materia di marketing e gusti del pubblico stesso. La produzione cerca di preservare l’anima del progetto, il regista ancora di più. Il regista può offrire spunti essenziali, così come suggerire concetti fin troppo “tra le righe”, difficilmente comprensibili per chi guarda una locandina per la prima volta. È importante che abbia la mente sufficientemente lucida per staccarsi dal suo film e vederlo dal punto di vista del pubblico. Per quanto mi riguarda, nella fase propositiva non mi risparmio: cerco di non rendere troppo personale il progetto, di essere distaccato nel momento in cui devo essere sicuro di prendere la giusta direzione, ma inevitabilmente diventa un po’ anche mio.

Qual è il tuo obiettivo? Cosa deve fare una locandina efficace?

La locandina non deve avere la responsabilità di raccontare la storia del film, un compito davvero arduo considerando che è uno strumento muto, con poco testo a disposizione. La locandina ha un solo colpo per attrarre l’interlocutore, grazie alle scelte fotografiche e cromatiche deve trasportare nel mondo del film e, al contempo, lasciare spazio alla fantasia di chi guarda. È un amo per sollecitare la curiosità, che rappresenta da sempre l’arma pubblicitaria migliore. I manifesti prendono forma dentro schemi compositivi ricorrenti; per chi fa il nostro lavoro non c’è poi così tanto margine per spaziare, in quanto le locandine devono essere decodificate facilmente dal pubblico.

Da dove trai ispirazione?

Il quotidiano è una scuola continua. La comunicazione visiva cambia in continuazione, occorre sempre tenere le antenne dritte e guardarsi intorno. L’arte, la fotografia, la grafica, i video offrono una commistione di stimoli e di emozioni dai quali mi lascio volentieri contaminare.

Dai cartellonisti della scuola italiana, che ti hanno in parte formato, agli artwork attuali. Che cosa è cambiato?

L’implementazione della fotografia e della grafica nei manifesti ha certamente modificato l’aspetto visivo delle locandine rispetto agli oli e acrilici di un tempo. Utilizzo molte tecniche, parto spesso da uno schizzo a mano nella fase preparatoria; una volta realizzate le foto posso manipolare le immagini come voglio utilizzando la potenza dei nuovi software, sfruttando la maggior parte delle attuali tecniche artistiche digital. La grande differenza rispetto al passato la fa il computer, sul quale migra il materiale. La fase di ritocco, di cesello, avviene digitalmente, ma non ritengo ci sia una differenza abissale rispetto al disegno a mano.

Cosa serve per fare l’art director per il settore audiovisivo?

La conoscenza tecnica degli strumenti di grafica la si può apprendere studiando e/o lavorando. Qualsiasi percorso di studi in ambito artistico è valido, lo scarto lo fa la passione autentica per le arti visive e il cinema. Come tutti gli ambiti creativi è un lavoro estremamente riflessivo, in cui devi rimanere concentrato sull’obiettivo finale.

La comunicazione visiva di Gomorra

Lo studio ha curato la comunicazione visiva di serie targate Sky entrate nell’immaginario collettivo, come Gomorra e 1993. C’è stato un diverso modus operandi?

L’approccio è differente: le idee a livello grafico sono in larga parte già approvate. Il nostro compito è quello di svilupparle, risolvendo i problemi tecnici ed eventualmente consigliando il cliente sugli investimenti economici da realizzare per portare avanti quelle idee. La parte artistica, per quanto ci riguarda, interviene alla fine del processo con il punto finale sul look complessivo, le scelte dei colori, l’intensità di toni e luci.

Cosa implica occuparsi della campagna visiva di un film?

Significa curare la gestione di tutti i formati delle immagini destinate alla promozione, dalla stampa al web: un lavoro operativo molto lungo, ma è necessario poterlo gestire per preservare la qualità degli artwork che realizzo. Dalla parte visiva, soprattutto nelle commesse più ambiziose, prende corpo tutto il resto della promozione, anche quella social della quale Big Jellyfish comunque non si occupa. Non si può fare tutto e bene. Sono aspetti diversi che potrebbero sulla carta essere gestiti da un’unica agenzia, ma il mercato italiano non può per il momento supportare una struttura tale da riuscire a controllare nel modo migliore un workflow così impegnativo.

Hai toccato con mano ciò che si realizza in America e non solo. Qual è la situazione in Italia per chi fa il tuo lavoro?

Nel mercato estero c’è un’altra economia in grado di muovere il settore cinematografico. Gli studi si concentrano su un numero inferiore di commesse, elevando così la qualità finale dei prodotti. Le tempistiche in Italia sono molto ristrette, e il nostro lavoro alla fine consiste nel fare la migliore proposta possibile restando al passo. I titoli italiani hanno un ciclo di vita piuttosto breve, nel quale si deve inserire l’aspetto promozionale. Spesso ci si pensa solo alla fine, il tempo scarseggia e la qualità è la prima a rimetterci. Io mi prendo molto tempo per creare un artwork, anche tre settimane, mentre a volte mi è richiesta una proposta in tre giorni! Dovrebbe entrare in gioco un meccanismo organizzativo capace di coinvolgere i responsabili della comunicazione visiva fin dalle fasi iniziali. Far comprendere la discriminante del fattore tempo a distribuzione e produzione è stato molto difficile all’inizio, ora le cose fortunatamente stanno cambiando. I registi, che hanno avuto modo di conoscerci, ci contattano sempre più spesso fin dal primo momento e ci danno fiducia, affidandoci quello che è in definitiva un loro “figlio”.

Un grande problema del cinema italiano è proprio la scarsa visibilità e gli scarsi incassi dei titoli medio-piccoli. Quanto può aiutare una buona componente visiva nella fase promozionale?

Certo, la locandina è un aspetto fondamentale di un film: è il primo approccio con il pubblico, il primo impatto visivo. È importante garantire a un titolo “il vestito buono della domenica”. Un prodotto curato a livello visivo può inoltre suggerire allo spettatore una maggiore garanzia sulla sua riuscita cinematografica, anche se non è sempre così scontato. Allo stesso tempo, però, la locandina non è più l’unico strumento promozionale, come invece accadeva negli anni Sessanta; lo si affianca ai trailer e ai social. Non è corretto, a mio modo di vedere, attribuire alla locandina la responsabilità di convogliare il pubblico in sala. Questo orientamento rispecchia l’ansia e la preoccupazione di comunicare il film al pubblico. 

Ti sei fatto notare con il lavoro grafico sul film Dylan Dog (2010 di Kevin Munroe), quando ancora non ti eri messo in proprio. Sotto il profilo mediatico e professionale, Lo chiamavano Jeeg Robot e Gomorra ti hanno ulteriormente lanciato. Che cosa ti aspetti dal futuro?

Jeeg e Gomorra hanno fatto da apripista, sono stati l’inizio di un fermento generazionale che sta facendo incontrare sulla stessa strada noi professionisti nei rispettivi ambiti. C’è tanta voglia di creare un nuovo cinema che esplori altri generi oltre la commedia, puntando su metodo, cura dei dettagli ed esperienza.

 

In copertina l‘immagine prodotta per la locandina di Mine 

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