I mestieri di cui avrebbero bisogno le fake news

C’erano una volta i volantini elettorali. Una marea di brochure colorate che invadevano le nostre cassette delle lettere, per spiegarci – con tono ammiccante e persuasivo – cosa avrebbe fatto per noi il candidato di turno se lo avessimo eletto. Se poi non avesse rispettato le promesse, non ci sarebbe rimasto che aspettare le elezioni […]

C’erano una volta i volantini elettorali. Una marea di brochure colorate che invadevano le nostre cassette delle lettere, per spiegarci – con tono ammiccante e persuasivo – cosa avrebbe fatto per noi il candidato di turno se lo avessimo eletto. Se poi non avesse rispettato le promesse, non ci sarebbe rimasto che aspettare le elezioni successive per contestarlo, cambiando la nostra preferenza alle urne. O, nel frattempo, potevamo manifestare lungo le vie delle nostre città.

Oggi, invece, se qualcosa non ci soddisfa, possiamo esprimere in qualsiasi momento il nostro dissenso nella piazza virtuale che la rete ci offre. Un’apoteosi della libertà di espressione, questa, che ha contribuito senza dubbio al grande successo di Internet – incoronato da Rita Levi Montalcini «la più grande invenzione del XX secolo» – ma anche alla nascita di nuove sfide da affrontare, alle quali la politica non è rimasta immune.

 

La politica al tempo delle fake news

Tra le minacce maggiormente temute dalle istituzioni spicca infatti l’eco mediatica che i social permettono di raggiungere a chiunque – referenziato o meno – e a qualsiasi contenuto, indifferentemente dalle fonti. Il ritmo della rete richiede velocità, stupore e sensazionalità. Così se un’idea, una foto o un fatto colpiscono l’opinione pubblica, il meccanismo della condivisione ci mette un attimo a diffonderli esponenzialmente, facendogli guadagnare non di rado lo status di notizia all’interno di giornali, programmi e siti d’informazione ufficiali ancor prima di verificarne la veridicità. Ecco spiegata la genesi delle fake news.

Dal Papa agli scienziati, tutti i “grandi” del mondo stanno lanciando il loro monito affinché l’opinione pubblica si tenga alla larga dalla disinformazione. E non è nemmeno un caso che tale rischio sia divenuto un tema portante del discorso politico internazionale a seguito dell’elezione di Trump e la vittoria dello “Yes” al referendum sulla Brexit. Per la prima volta le campagne elettorali si sono svolte soprattutto online e a partire dal basso, e sempre per la prima volta – dopo decenni o forse secoli –, il risultato ha completamente sovvertito le attese, ma anche le speranze, dell’alto. Che ci sia qualche falla nel meccanismo?

Ok, ammettiamolo, discernere tra vero e falso in questo flusso di informazioni preconfezionate da cui siamo costantemente bombardati non è per nulla facile; soprattutto se non si è nativi digitali o non si ha un elevato grado d’istruzione. Ma è davvero tutta colpa dell’utente medio? In fondo, basta osservare il differente modo di comunicare che hanno oggi i politici rispetto a neanche un decennio fa per capire che qualcosa è cambiato. Dalle ormai lontane slide di Renzi ai recenti meme della Meloni in stile Games of Thrones, il passo con cui la propaganda politica è stata assorbita dal nuovo modello di marketing 2.0 è stato davvero rapido.

Ci troviamo di fronte a una comunicazione un po’ più smart e un po’ più social, in cui il format conta molto di più dell’attuazione effettiva del contenuto. E così la battaglia politica si è spostata dall’asse dei fatti a quello delle fake news. Se, per delegittimare un avversario, infatti, si ricorre sempre più spesso alla montatura illegittima ma efficace di informazioni sul suo conto, per difendersi dalle accuse, d’altro canto, si tende semplicemente a tacciarle di falsità, senza addentrarsi in un discorso più profondo. In breve, in anni di vuoto imperante, il dibattito si concentra sull’involucro anziché sul contenuto.

 

Le contromisure dell’UE alle fake news europee

Nell’epoca in cui la comunicazione è tutto, i partiti e le istituzioni non solo hanno sentito la necessità di plasmare un nuovo modo di fare propaganda, più adatto ai canali di comunicazione moderni, ma stanno cercando al contempo una strategia che gli permetta di rimanere a galla in questo clima di campagna elettorale permanente. Per tenere il passo della rete, però, bisogna avere un’organizzazione snella e flessibile, oltre che figure professionali apposite. Forse è per questo che la grande e complessa macchina burocratica dell’Unione europea – che lo stesso Stefano Castellacci, Digital Leader della Commissione in Italia, definisce come «macchinosa e perciò poco efficace contro un fenomeno del web in continua e veloce evoluzione» – si sta trovando un po’ in affanno in questa corsa al like. Basti pensare che per ogni contenuto che si vuole pubblicare nei canali istituzionali dei 28-quasi-27 Stati membri serve l’approvazione da Bruxelles, e gli addetti nazionali comunicazione sono davvero pochi (sei, in Italia). Vien da sé che rispondere alle accuse altrui nei tempi necessari sia una lotta contro il tempo, e rispondere a ogni singolo post o commento pressoché impossibile (persino se, come negli uffici di comunicazione della Commissione, si hanno le schede informative già pronte). Perché allora non pubblicare direttamente tutte le “risposte preventivein un apposito sito?

Pare essere proprio questa l’idea alla base di “Cosa fa l’Europa per me”, il portale lanciato dal Parlamento Europeo il 15 novembre 2018 in vista delle ormai imminenti elezioni europee. Suddiviso in tre sezioni tradotte nelle 24 lingue ufficiali – “Nella mia regione”, “Nella mia vita” e “In primo piano” –, il sito è caratterizzato da un linguaggio estremamente semplice, volto chiaramente a conquistare la fiducia di tutti gli utenti a prescindere dal grado d’istruzione, ma che rischia di essere talmente plain da diventare flat. Una sorta di raccolta di volantini elettorali 2.0, impacchettati con uno storytelling proattivo, volto a illustrare i propri pregi come risposta alle accuse altrui. Una replica indiretta alle critiche, che informi e persuada contemporaneamente, creata con l’auspicio che venga ricondivisa il più possibile sugli amati-odiati social.

Per ora, tuttavia, non ha avuto molta risonanza né da parte della stampa né in termini di condivisioni da parte del popolo del web. Il rischio è che, da un lato, – non avendo per altro una relativa pagina Facebook – il sito venga trovato solamente da categorie molto ristrette, quali gli utenti che già ne conoscono l’esistenza o lo cercano appositamente (per esempio gli addetti ai lavori o i simpatizzanti); dall’altro lato, si rischia che il suo tono didattico-didascalico e lettore-medio-friendly risulti noioso a chi il tema già lo conosce, e poco efficace per chi di natura è contrario o poco interessato.

Questo nuovo canale di propaganda web non è altro in realtà che la punta dell’iceberg del lavoro profondo e capillare che la Commissione europea sta portando avanti da anni contro il fantasma della disinformazione. Ne è un esempio la task force anti fake news convocata a Bruxelles da gennaio ad aprile 2018. Anche se ufficialmente il suo operato ha prodotto “solamente” due documenti, il Rapporto ufficiale del 12 marzo 2018 e il l’Action Plan Against Disinformation del 5 dicembre 2018, in realtà ne stiamo già vedendo gli effetti pratici. Pensiamo ad esempio alla recente chiusura da parte di Facebook di 23 pagine italiane accusate di diffondere fake news e parole d’odio. Non per niente, il re dei social media è stato uno dei protagonisti delle discussioni della task force, insieme alle altre piattaforme con cui la Commissione si è auspicata di rafforzare la partnership contro la disinformazione.

 

Curare l’istruzione per difendersi dai falsi

Questa misura ci mette però di fronte alla tangibile complessità del tema in questione. Come controllare l’informazione senza minare libertà fondamentali quali quelle di stampa, espressione e informazione? E chi controlla il controllore? Insomma, ci troviamo in un contesto completamente nuovo in cui le tecnologie più futuristiche hanno fatto riemergere questioni millenarie, come i concetti stessi di “vero” e “falso”.

Immersi in questa transizione epocale, siamo sicuramente lontani da una soluzione definitiva. Quel che è certo, però, è che non possiamo continuare a permetterci di guardare a una situazione nuova con lo sguardo rivolto a modelli del passato, cercando di incasellare i fenomeni attuali in schemi ormai superati. Perché invece non fare di necessità virtù e sfruttare questa crisi dell’informazione per creare nuove professioni, ergo nuovi posti di lavoro? Perché ad esempio, invece di eliminare le notizie tout court, non formiamo dei debunker professionisti che sappiano argomentare corrette controrisposte, o più semplicemente non implementiamo dei corsi di alfabetizzazione digitale per orientare meglio gli utenti pur lasciandoli liberi di scegliere? In fondo, l’istruzione resta ancora l’unica vera forma democratica di empowerment.

 

 

Credits del murale: Tvboy

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