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Mia figlia ha 15 anni: è il mio mettermi alla prova quotidiano, dove misuro la capacità di comprendere e abitare il mondo che verrà. Sempre più spesso le chiedo informazioni su una nuova funzionalità di Instagram; la vedo insegnare alla nonna come usare WhatsApp o le diverse app sulla cucina. Un po’ come quando noi […]

Mia figlia ha 15 anni: è il mio mettermi alla prova quotidiano, dove misuro la capacità di comprendere e abitare il mondo che verrà. Sempre più spesso le chiedo informazioni su una nuova funzionalità di Instagram; la vedo insegnare alla nonna come usare WhatsApp o le diverse app sulla cucina. Un po’ come quando noi insegnavamo ai nostri nonni a utilizzare il lettore CD.
“Mamma manda un vocale su WhatsApp” oppure “mandami un msg su Instagram”. O in alternativa, senza pietà: “Non chiamarmi, è da vecchi”, “scusa ma cosa stai facendo?! Lasci un messaggio in segreteria? Ma non si fa più!”.
Quelli sono i momenti nei quali mi sento “antica”, ospite di un mondo che a tratti non riconosco. Un mondo sempre più digitale e veloce, incalzante per noi che siamo nati in un mondo analogico, fatto di attese, di persone, di conversazioni a bassa voce, di telefoni fissi, di fax rumorosi, di lettere fruscianti e di giornali coperti di inchiostro. Oggi si usano le videochiamate, gli ansiogeni instant messenger, le silenziose email, video e selfie. Tutto si produce, e si consuma, alla velocità del bit&byte.
L’equilibrio fra le generazioni si è spostato, si sono invertite le posizioni. Le persone più mature faticano a insegnare qualcosa ai più giovani, mentre ci troviamo attorniati da ragazzi che cercano di insegnarci qualche innovazione tecnologica con un’aria un po’ sorniona. Nel lavoro si replica: noi migranti digitali, veniamo a contatto sempre più spesso con giovani trentenni, uomini e donne nativi digitali, cresciuti fin dall’infanzia con il verbo delle nuove tecnologie. È il mondo nel quale sono nati, l’unico che conoscono.
Ammettiamolo: per noi “maturi” è più faticoso abituarci alle nuove tecnologie, ma soprattutto alle nuove modalità che queste richiedono, alla velocità con cui evolvono. Non si fa in tempo a imparare qualcosa che è già vecchio, superato, obsoleto. Mi vengono in mente le parole di Douglas Adams nel libro Il salmone del dubbio (conosciuto grazie a un Millenial):
Tutto ciò che è al mondo da quando sei nato è normale e ordinario. Lo consideri parte naturale del modo in cui il mondo funziona. Tutto ciò che viene inventato quando hai tra i quindici e i trentacinque anni è nuovo, eccitante e rivoluzionario. E lo consideri innovativo. Probabilmente su questo ci puoi costruire una carriera. Qualsiasi cosa inventata dopo i trentacinque anni è contro l’ordine naturale delle cose. E viene vista male e in modo pessimistico.
Sarà questo il motivo per cui abbiamo difficoltà nel migrare al digitale? Per questo facciamo un’enorme fatica a tenere il passo con le innovazioni tecnologiche? Perché la nuova tecnologia ci sembra contro l’ordine naturale delle cose?
I nostri figli, le generazioni più giovani, invece, hanno una facilità incredibile a usare le nuove app, sono curiosi e si divertono. La cosa più interessante è che quasi tutti loro sono inclini a usare strumenti come Instagram o YouTube, che hanno una componente visiva prevalente rispetto a quella testuale. Questi social sono costruiti con contenuti come foto, stories, video della durata di pochi secondi, e che quindi si generano e si fruiscono in modo molto (troppo?) rapido. Il loro modo di comunicare nasce da una creatività che produce video, immagini – spesso modificate –, messaggi vocali. Non si telefona più. Si scrive poco e in maniera sincopata. È nata (anzi nasce ogni giorno) una nuova lingua: il loro linguaggio evolve e si popola di nuovi idiomi con cadenza quasi quotidiana.
Un filo rosso collega tutto questo: la velocità. Tutto si crea, vive e scompare con una rapidità che mai avevamo sperimentato nei millenni della storia umana.
È tutto oro quello che luccica? Oppure c’è un lato negativo in tutto questo per le giovani generazioni? Non è difficile notare che faticano a concentrarsi, perdono il focus quando leggono e studiano, fanno più fatica a comprendere dei testi e a memorizzarli, e di conseguenza sviluppano meno il senso critico di quello che leggono. Hanno perso la capacità di concentrazione, non riescono a leggere libri interi e devono prendere spesso dei “minibreak”, perché la comunicazione a cui sono abituati è veloce e immediata.
Se travasiamo tutto questo nelle aziende troviamo palesi differenze tra i lavoratori più giovani e quelli più maturi; un divario culturale sempre più ampio – per non parlare di quello tecnologico.
Ma allora cosa possono insegnarci? Cosa vedono che noi non vediamo? Come vivono il mondo del lavoro? Ho la fortuna di frequentare e confrontarmi con molti giovani, nel lavoro e in aula al CUOA, e ho riflettuto spesso su queste domande, trovando qualche risposta.
Ogni giorno imparo qualche cosa da loro, mi faccio aiutare dai ragazzi giovani, chiedo aiuto a mia figlia di 15 anni per Instagram, chiedo ai ragazzi che lavorano con me che cosa pensano delle nuove features di Facebook Ad, insieme sperimentiamo su Amazon le nuove piattaforme media o le nuove pagine di presentazione. È come lavorare in uno stato mentale di startup perenne.
Una delle cose che mi piace di più in loro, dei famosi Millennials, è che sono molto generosi nella condivisione delle informazioni e sono inclini alla prova, senza paura del fallimento: sono votati al risultato.
Alla luce di tutto questo penso che siano più i senior, che prendono decisioni strategiche di business, ad aver bisogno di formazione digitale e di fidarsi dei suggerimenti dei ragazzi. Ma anche noi “oldies” possiamo trasferire qualche cosa a loro:
Sicuramente lavorare con persone di generazioni diverse porta a un arricchimento dell’azienda. Il giusto mix di persone con esperienza e con la loro visione d’insieme, e la visione innovativa, condita di futuro, delle nuove generazioni, farà del gran bene alle aziende italiane, che trovo spesso ancorate a sistemi gerarchici vetusti e rigidi. Promuovendo una cultura aziendale in cui tutti possano imparare e migliorare continuamente, si creerà un circolo virtuoso dove tutti i lavoratori, di tutte le età, riusciranno più facilmente a integrarsi, a concentrarsi sulla missione aziendale, a raggiungere gli obiettivi dell’azienda, ma anche quelli della propria vita.
Foto di copertina di Jason Rosewell su Unsplash

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