I paradossi del 5 per mille: superato il tetto, incassa lo Stato

Quando funziona, fa il suo dovere. Però per la maggior parte di chi potrebbe goderne resta un miraggio. Il cosiddetto “5 per mille” dell’IRPEF, che ogni anno i contribuenti possono destinare volontariamente a organizzazioni che svolgono attività di interesse collettivo, è protagonista di un paradosso. Negli ultimi tempi, 16,5 milioni di italiani (poco più della […]

Quando funziona, fa il suo dovere. Però per la maggior parte di chi potrebbe goderne resta un miraggio. Il cosiddetto “5 per mille” dell’IRPEF, che ogni anno i contribuenti possono destinare volontariamente a organizzazioni che svolgono attività di interesse collettivo, è protagonista di un paradosso. Negli ultimi tempi, 16,5 milioni di italiani (poco più della metà di quelli che versano l’imposta) dimostrano di apprezzarlo, tuttavia i circa 500 milioni disponibili ogni 12 mesi riescono ad arrivare a pochi di coloro che ne avrebbero bisogno. Tanto più in questo periodo segnato dall’emergenza COVID-19, sul cui fronte gli enti non profit, che sono tra i destinatari, svolgono un ruolo fondamentale. Perché?

È vero che sono in campo in Italia 350.000 tra organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale e imprese sociali, con 5 milioni e mezzo di volontari e 850.000 dipendenti. Però, per ottenere una parte di quei fondi, occorre avere la capacità di svolgere un lavoro promozionale molto complesso, alla portata soltanto delle grosse strutture, che sono una minoranza; cosicché alcune ricevono pochissimo (nella misura di qualche decina o centinaio di euro), altre non provano neppure a essere inserite tra quelle beneficiarie. La circostanza è rilevante, dato che questo strumento è quasi l’unica fonte di finanziamento fornita dallo Stato; per il resto in tempi normali si ricorre alla raccolta autonoma di fondi e donazioni e a eventuali introiti legati alla fornitura di servizi (molto meno al tempo del coronavirus, a causa di evidenti questioni di inagibilità dei luoghi pubblici).

 

Che cos’è il 5 per mille e chi ne beneficia

Per comprendere meglio, vediamo che cos’è il 5 per mille e come viene ripartito.

Si tratta di una misura fiscale, introdotta nel 2006 e stabilizzata nel 2014, che permette a ogni contribuente di riservare una piccola quota dell’IRPEF (l’Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche, che riguarda oltre 40 milioni di persone) a enti che si occupano di attività di interesse collettivo. Non costa nulla al contribuente, perché i soldi fanno parte della somma che verserebbe in ogni caso al Fisco. Si può aderire in due modi: scegliendo solo il settore di interesse – ad esempio, il volontariato – oppure, come capita più spesso, inserendo il codice fiscale dell’ente.

Di fatto, una porzione del gettito tributario viene vincolata alle finalità scelte dal cittadino, che diventano una voce della spesa statale. Gli elenchi dei beneficiari del 5 per mille sono pubblicati sul portale dell’Agenzia delle Entrate. Ovviamente questa opportunità non va confusa con l’8 per mille dell’IRPEF, grazie al quale si può devolvere una parte delle tasse a una confessione religiosa, né con il 2 per mille, destinato ai partiti.

Il 5 per mille è diventato così un mezzo di sostentamento indispensabile anche per una parte degli enti non profit, che costituiscono il cosiddetto “terzo settore” (così come viene definito nella legge delega 106/2016, articolo 1, comma 1). Quindi oggi i cittadini permettono il parziale finanziamento delle oltre 50.000 associazioni solidaristiche ammesse al beneficio e a migliaia di comuni; tutti sono tenuti ogni anno a dimostrare come hanno impiegato le risorse ricevute.

 

I numeri del 5 per mille: quanto denaro viene raccolto?

I risultati? In 13 anni i contribuenti hanno “investito” 5,495 miliardi di euro. Il 3 aprile 2020 l’Agenzia delle Entrate ha pubblicato gli elenchi dei beneficiari del 5 per mille relativo ai redditi del 2017, quelli dichiarati nel 2018: lo ha fatto “per venire incontro – si legge sul sito – alle richieste degli 8.029 comuni e quasi 57.000 enti tra volontariato, ricerca sanitaria e scientifica, associazioni sportive dilettantistiche, beni culturali e paesaggistici ed enti gestori delle aree protette”.

I cittadini aderenti sono stati circa 16,6 milioni. Gli enti ammessi erano 56.908: in testa quelli del volontariato (46.312), poi le associazioni sportive dilettantistiche (9.892), gli enti impegnati nella ricerca scientifica (480), quelli nel settore della sanità (106), gli enti dei beni culturali e paesaggistici (94) e i gestori delle aree protette (24). Sono elencati anche 8.029 comuni.

Quelli che non hanno ricevuto neppure una firma di un contribuente sono moltissimi, tra questi molte amministrazioni comunali. Agli enti del volontariato, gli italiani hanno destinato 331.809.965,51 euro (44.728 hanno avuto almeno una firma; l’ultimo è il Consorzio Sviluppo Ambiente di Roma, che ha “incassato” 1,47 euro). A quelli della ricerca scientifica sono stati destinati più di 64 milioni; alla ricerca sanitaria quasi 69; alle associazioni sportive e dilettantistiche circa 14 milioni. Agli enti dei beni culturali e paesaggistici vanno 1.653.000 euro; alle aree protette poco più di 243.000. Spicca il fatto che, in proporzione, a ciascuno degli enti del volontariato, più numerosi e più piccoli, vanno in media poco più di 7.000 euro, di fronte ai 133.000 medi ricevuti da quelli della ricerca scientifica e ai 647.000 per quelli attivi nella sanità.

In tutto, comunque, si tratta di 500 milioni (circa, poi vedremo perché). Le somme – prima degli anticipi nell’erogazione appena disposti dal Governo nel “Decreto Rilancio”, legato all’emergenza pandemia – erano versate entro quattro mesi dalla divulgazione dei dati. Intanto, però, conoscere la cifra esatta che spetta a ciascuno permette agli enti beneficiari di chiedere alle banche di ottenere in anticipo parte della quota. Un aiuto fondamentale in questo periodo, durante il quale centinaia di organizzazioni sono impegnate contro il COVID-19, con maggiori spese da sostenere e meno introiti legati alle proprie attività a causa dell’interruzione di alcuni servizi e delle attività pubbliche di autofinanziamento. Si tratta di una boccata di ossigeno.

 

Non più di 500: il taglio al 5 per mille e l’anticipo dell’erogazione causa pandemia

Comunque, per farsi davvero un’idea delle proporzioni, è ancora poca cosa rispetto ad altri giri milionari legati allo Stato. In fondo, quei 500 milioni sono poco più del doppio del jackpot da 209 milioni vinto a Lodi nell’agosto scorso da un singolo fan del SuperEnalotto: un gioco per il quale gli italiani spendono ogni anno 1,5 miliardi, mentre lo Stato si garantisce un gettito fiscale annuale di 10 miliardi sul totale dei giochi d’azzardo consentiti.

Non solo. Pochi sanno che, almeno finora, le somme destinate al 5 per mille dai contribuenti vengono tagliate se superano un tetto fissato: 500 milioni, appunto. Cosicché – secondo una valutazione del quotidiano di Confindustria, Il Sole 24 Ore sono stati tagliati 13 milioni dai fondi del 2018. La conferma è arrivata dall’amministrazione finanziaria. L’importo che derivava dalle scelte dei contribuenti ammontava infatti a più di 513 milioni. Ma dal 2015 c’è quel tetto, che sarà in vigore fino alla ripartizione 2019, quindi ancora per un anno. Già per la ripartizione 2017 c’era stato un taglio di 9 milioni. La legge di bilancio 2020 ha previsto di innalzare i fondi: a partire dalla ripartizione 2020 dovrebbero essere disponibili 510 milioni, che saliranno a 520 milioni nel 2021 e a 525 milioni nel 2022 (legge 160/2019, articolo 1, comma 720).

Nell’attesa, proprio la situazione determinata dalla pandemia sta creando grossi problemi economici a tutti gli enti non profit. Anche perché servirebbero altre forme di sostegno finanziario, da cui però il terzo settore, a parte i pochi che hanno forma di impresa, è stato escluso fino al varo, il 13 maggio, del già citato “Decreto Rilancio”, mentre nel “decreto liquidità” di aprile era stato totalmente dimenticato il non profit, nonostante  fosse già in prima linea.

Nel nuovo decreto viene, per esempio, esteso agli enti non commerciali, inclusi quelli del “terzo settore”,  il credito d’imposta per i canoni di locazione e per l’adeguamento e la sanificazione degli ambienti di lavoro; estesa anche la disciplina per la sicurezza e il potenziamento dei presidi sanitari; si ampliano al non profit le misure temporanee per il sostegno alla liquidità (prima riservate alle aziende); viene incrementato di 100 milioni il “Fondo Terzo Settore” (più altri 120 milioni per gli enti non profit del Sud Italia). Ultimo punto, non meno importante:  a proposito del 5 per mille, è stata recepita la richiesta della liquidazione anticipata entro il 31 ottobre di quest’anno (oltre a quella già prevista per il 2020) dei soldi che altrimenti sarebbero dovuti arrivare nel 2021 (lo si legge nella relazione illustrativa del provvedimento). Vedremo se nel decreto cambierà qualcosa, visto che, nonostante  sia dotato di efficacia immediata, debba passare nei prossimi giorni attraverso il Parlamento, per essere convertito in legge, altrimenti presto decadrebbe.

“Intanto, per fortuna, è stato attuato quello che era stato chiesto da Vita sull’anticipo dei versamenti. D’altra parte  il premier Giuseppe Conte nei giorni scorsi aveva definito coloro che sono impegnati nel ‘terzo settore’ ‘cuore pulsante della società’, tanto più durante questa emergenza. Abbiamo dunque la revisione della disciplina del 5 per mille, che ora garantisce 1 miliardo (i 500 milioni relativi alle dichiarazioni dei redditi del 2018 e i 500  di quelle del 2019, versati entrambi nel 2020 N.d.R.) ai 57.000 enti beneficiari. Sono soldi dovuti, risorse che erano già a bilancio”, spiega a Senza Filtro Stefano Arduini, direttore responsabile di Vita, mensile dedicato al mondo non profit, nel cui comitato editoriale ci sono molte organizzazioni del terzo settore. Un grandissimo aiuto, anche perché con le nuove norme dal 2021 il tempo di attesa verrà ridotto dagli attuali due anni a un solo anno, cosicché, per esempio, nel 2021 sarà versato il 5 per 1000 che i contribuenti stanno per scegliere nel 2020. “Escludere dalle decisioni e non supportare le reti sociali di questo Paese sarebbe stata una responsabilità molto pesante, che avremmo pagato tutti a caro prezzo”, aggiunge Arduini.

Resta comunque il problema relativo alle decine migliaia di enti e associazioni, medie e piccole, che non riescono in ogni caso ad accedere ai fondi del 5 per mille: vanno a poco più del 15% degli enti attivi nel settore, quelli accreditati (per giunta, come abbiamo visto, con importi molto diversi, talvolta insignificanti). Non solo. Precisa Arduini: “Il 90% dei 57.000 enti ammessi al finanziamento prende meno di 10 firme sulle dichiarazioni IRPEF. Ci sono piccole organizzazioni legate a territori limitati, ma anche enti più grandi. Non tutti infatti promuovono tra la gente il 5 per mille, perché la procedura è complessa e occorre un grande sforzo di comunicazione”.

 

La lotta delle campagne pubblicitarie: chi meglio comunica, più riceve

Insomma – come possiamo verificare osservando il tipo di spot e di pagine pubblicitarie proposte in vista della prossima dichiarazione dei redditi – solo pochissimi grandi enti sono in grado di avviare campagne promozionali per informare i contribuenti (in genere poco consapevoli).

Il modo in cui vengono svolte le campagne è diventato persino oggetto di studio. Lo testimonia una ricerca pubblicata dal professor Paolo Peverini, docente di Semiotica e di Semiotica dei media nel Dipartimento di Scienze Politiche dell’Ateneo LUISS “Guido Carli”. Quelle campagne rappresentano, secondo il professore, “la competizione dei numerosi soggetti che ricorrono allo strumento del 5 per mille, che si traduce ogni anno in una sfida serrata sul piano delle strategie di comunicazione; un confronto di voci in cui il rapporto tra la passione sollecitata nella campagna, la credibilità del soggetto promotore e le strategie comunicative è essenziale per fare presa sul destinatario, per sollecitarne la compartecipazione”.

Intanto quest’anno, nel corso della pandemia, la Rai non ha mai fatto una vera campagna per informare i contribuenti sul 5 per mille, semmai indirizza le donazioni unicamente alla Protezione civile: tanto che Luigi Bobba (presidente di Terzjus – Osservatorio sul Terzo settore, la filantropia e l’impresa sociale) su Vita il 4 maggio ha rivolto un appello alla tv di Stato, perché “in un momento come questo, in cui molti enti hanno grossi problemi finanziari, sarebbe fondamentale convincere chi ancora non aderisce a questa misura di sussidiarietà fiscale”.

La morale? I soldi ricavati da queste campagne sono meritatissimi, sia chiaro. Però è evidente – tanto più in mesi segnati dalla pandemia – che realtà più piccole, ma fondamentali sul territorio, hanno bisogno di forme di sostegno mirate. Perché il riconoscimento pubblico del loro ruolo è una soddisfazione, ma senza risorse rischiano il tracollo. “Chi si occuperà di sostenere chi perderà il lavoro? Chi si farà carico del suo reinserimento sociale? Chi farà fronte all’inevitabile aumento della povertà materiale e di quella educativa? Chi organizzerà la rete di presidi socio-sanitari di base nei territori per prevenire nuovi contagi e nuovi focolai? L’elenco potrebbe continuare a lungo”, afferma Arduini.

Insomma, coloro che tengono viva la rete della solidarietà non campano solo di 5 per mille; anzi, nella maggior parte dei casi quel denaro resta un miraggio. Chi sta nelle stanze dei bottoni deve rendersene conto, prima che sia tardi.

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