“Lavoro è parola che deriva dal latino labor, laboris: fatica, sofferenza, pena. Nel dialetto siciliano, come si vedrà, lavorare è travagliare; nel dialetto napoletano, faticare… Insomma, il lavoro… è pesante! Il lavoro è un incidente… pericoloso!”. Inizia così una recente canzone degli Skiantos e prosegue con “Chiunque può trovare un lavoro, ma devi essere in […]
Caporalato migrante, illegalità costante
Il caporalato: un fenomeno diffuso in tutta Italia, che riguarda anche gli italiani. Il caporalato migrante, tuttavia, è una piaga ben diversa: scopriamola.
Secondo il rapporto Agromafie e Caporalato prodotto dalla Flai-Cgil nel 2018 sono circa 430.000 i lavoratori italiani e stranieri vittime del fenomeno del caporalato nel nostro paese. Una cifra sottostimata se prendiamo in considerazione le altre forme di caporalato legalizzato che definiamo caporalato 2.0, e che operano legalmente all’ombra delle agenzie interinali, che ricevono le richieste di lavoro da parte dei privati e dello Stato.
Il caso più emblematico è quello di Paola Clemente, bracciante italiana deceduta quattro anni fa, che lavorava ad Andria tramite un’agenzia interinale. Paola veniva trasportata da dove viveva, a San Giorgio Ionico nel tarantino, fino ad Andria (150 km) dai suoi caporali dipendenti dell’agenzia interinale. Una situazione che dimostra come ormai lavorano le imprese in Italia, per le quali il caporalato è diventato un fenomeno strutturale; e lo ritroviamo anche in altri settori della nostra economia, tipo i servizi, l’edilizia, il badantato.
Tutte le latitudini del caporalato migrante
Il caporalato non è un fenomeno strettamente legato agli immigrati, come vuole far credere una certa classe politica, ma è un fenomeno trasversale della nostra società che colpisce sia i migranti che i lavoratori italiani. Le origini del caporalato risalgono alla fine dell’Ottocento, ma assumono una trasformazione sostanziale con l’avvento della globalizzazione. Infatti il caporalato non caratterizzava la società contadina pre-industriale, mentre oggi possiamo dire che rappresenta il prototipo del modello neo liberista che, a partire dalla fine degli anni Novanta, si è imposto a livello globale. La de-regolarizzazione del mercato del lavoro operata in quegli anni, con lo smantellamento del collocamento pubblico, come avveniva con i centri per l’impiego, hanno rafforzato questo fenomeno. Oggi le imprese italiane non si rivolgono più ai centri del collocamento ma si avvalgono dei caporali, oppure delle agenzie interinali, che a loro volta sono una sorta di caporalato legalizzato.
Il caporalato migrante ha preso forma tra la metà degli Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, quando la forte industrializzazione di quei tempi ha fatto sì che molti braccianti italiani abbandonassero il loro lavoro per cercare impiego nelle città. Il caporalato migrante, a differenza di quello che riguarda i lavoratori italiani, assume una forma ancora più arcaica e feroce, perché per ricattarlo fa leva sulla vulnerabilità della condizione giuridica del migrante. L’agricoltura è un’attività puramente stagionale, e questo implica che i braccianti hanno bisogno anche dell’accoglienza per poter risiedere nelle zone dove sono chiamati a lavorare.
Di questa necessità i caporali se ne approfittano anche perché le aziende non mettono a disposizione l’alloggio, come è previsto nel contratto collettivo nazionale del lavoro. Quindi, per esempio, i braccianti migranti d’estate sono in Puglia per la raccolta dei pomodori, poi d’inverno sono a Rosarno in Calabria per la raccolta degli agrumi e così via in altre regioni e stagioni.
L’assenza di un piano regionale sull’accoglienza dei lavoratori migranti ha favorito la diffusione in tutto il territorio nazionale di ghetti, vere e proprie baraccopoli che non rispettano le norme in vigore in materia di igiene e di sanità pubblica, dove risiedono i lavoratori stagionali. Il bracciante migrante che dimora in questi ghetti inoltre vive una condizione di isolamento che lo rende totalmente dipendente dal caporale, perché questi ghetti, nella maggior parte dei casi, si trovano distanti dai centri abitati. Quindi per qualunque necessità ordinaria del bracciante, tipo andare al supermercato, recarsi nei campi di lavoro o anche, in caso di malattia, andare in ospedale, il bracciante deve corrispondere al caporale una tassa di 5 € per il trasporto. Durante le pause di lavoro per il pranzo il caporale costringe il bracciante a pagare, per un panino e per l’acqua, rispettivamente 3,50 € e 1,50 €, che sommati al costo del trasporto fanno un totale di 10 €. Ecco che il bracciante si trova costretto a decurtare un terzo della sua paga giornaliera, che spesso non supera i 30€ al giorno.
Combattere contro i caporali, ecco come
Nell’agosto 2011, insieme a molti compagni di lavoro e sostenuti dalle associazioni di volontariato BSA e Finister, abbiamo organizzato il primo sciopero dei braccianti stranieri contro i caporali e gli imprenditori agricoli nelle campagne di Nardò, in Puglia. Sembra impossibile da credere, ma il caporalato, ovvero l’intermediazione illecita di manodopera, è punibile penalmente soltanto dal 2011 proprio in seguito alla nostra battaglia nelle campagne pugliesi. Questa legge penale contro il caporalato, che ha rappresentato un eccezionale risultato, è stata recentemente modificata dal governo, che ha recepito alcune nostre proposte circa l’estensione del reato anche agli imprenditori agricoli, veri responsabili del fenomeno. Così è nata la legge 199/2016, ma rimane purtroppo inefficace, perché è strettamente repressiva e ha bisogno di elementi preventivi.
Il caporalato è solo l’ultimo anello di una lunga catena di sfruttamento nella filiera agricola, mentre i principali responsabili sono le imprese, le industrie di trasformazione e la grande distribuzione organizzata, che impongono il ribasso dei prezzi dei prodotti, con drammatiche ricadute negative sui contadini, i quali non riescono più a sostenere il costo del lavoro. A pagare il prezzo di questa situazione sono i braccianti, abbandonati totalmente dallo Stato che non effettua controlli nei luoghi di lavoro né lungo la filiera.
Per citare Marx, la figura del caporale è l’espressione diretta di quella cultura che vuole le imprese come cuore pulsante della società, il mercato come unico regolatore sociale e il lavoro come merce, il tutto condito con una buona dose di corruzione e di illegalità.
Per contrastare il caporalato e l’illegalità generalizzata serve una presa di coscienza culturale. Dobbiamo superare la logica del mercato e del profitto a tutti i costi e rimettere l’uomo e i suoi diritti al centro di ogni cosa; su questo, oltre allo Stato, anche il consumatore dovrebbe assumersi le sue responsabilità. Per facilitare questa assunzione di responsabilità da parte dei consumatori stiamo mettendo in cantiere, tramite l’Associazione anti-caporalato No Cap, un sistema di tracciabilità delle filiere, che consiste nel promuovere e valorizzare le aziende virtuose mediante il bollino etico denominato “No, Cap!” che viene rilasciato alle imprese dopo accurati controlli e verifiche.
Photo credits: www.lettera43.it
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