Il cinema oltre gli stereotipi di genere

Si chiama face-ism ed è un fenomeno, noto nella letteratura scientifica, che identifica la corrispondenza fra inquadratura e status. E che mostra come, nelle rappresentazioni visive, i target caratterizzati da maggiore status e potere siano comunemente rappresentati con un primo piano, ad alta prominenza facciale; mentre i target definiti da basso status sono rappresentati a […]

Si chiama face-ism ed è un fenomeno, noto nella letteratura scientifica, che identifica la corrispondenza fra inquadratura e status. E che mostra come, nelle rappresentazioni visive, i target caratterizzati da maggiore status e potere siano comunemente rappresentati con un primo piano, ad alta prominenza facciale; mentre i target definiti da basso status sono rappresentati a figura intera o con piano americano. E quindi, a bassa prominenza facciale.

È noto come Spatial Agency Bias e indica il legame fra il modo in cui una persona è rappresentata nello spazio e le impressioni automatiche che questa rappresentazione provoca nel fruitore, in termini di dinamismo, successo e potere. Immaginiamo, ad esempio, di voler essere percepiti in questi termini ogni volta che qualcuno guarda una nostra foto. La tecnica è semplice e consiste nel prestare attenzione alla direzione in cui è orientato il nostro volto: le persone che guardano verso destra sono percepite come più dinamiche e autorevoli, mentre quelle che guardano verso sinistra lo sono meno.

Ma la cassetta degli attrezzi del professionista che lavora nel mondo del cinema non si esaurisce qui. Verticalità, tecniche di scrittura e di costruzione del personaggio, ma anche lo stesso ruolo della macchina da presa: sono tutti strumenti, utilizzabili di volta in volta per la progettazione di un certo tipo di cinema, finalizzato a consolidare o a sovvertire gli stereotipi di genere.

 

Porgi l’altra guancia

«La letteratura è abbastanza chiara in proposito, nel senso che le donne e gli uomini non sono rappresentati allo stesso modo rispetto allo spazio a disposizione», commenta Caterina Suitner, docente di Psicologia sociale presso il Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università degli studi di Padova. «Sappiamo che, in generale, per le società occidentali la traiettoria che va da sinistra verso destra ha un vantaggio rispetto alla traiettoria che va da destra verso sinistra, e questo ovviamente è legato alla direzione della scrittura: tutto ciò che segue la traiettoria della scrittura viene percepito come più agentic, termine della letteratura psicologica che indica la capacità di prendere decisioni, di essere determinati, di essere attivi. E queste caratteristiche, dal punto di vista del contenuto stereotipico, sono attribuite più ai maschi che alle femmine. In linea con lo stereotipo, quindi, è più facile che la direzione da sinistra verso destra sia associata con il profilo di un uomo anziché con quello di una donna, e questo lo osserviamo innanzitutto nell’arte: da un’analisi dei ritratti emerge, per esempio, che le donne tendono a essere meno associate al profilo che va da sinistra verso destra. Insomma, non mostrano la loro guancia destra. Nei pannelli doppi l’uomo occupa il lato sinistro e la donna il destro; nella rappresentazione artistica di Adamo ed Eva, Adamo è a sinistra ed Eva a destra. E sappiamo che questa rappresentazione ha delle conseguenze: si tratta di una tecnica sottile, che perpetra gli stereotipi di genere, che quindi vengono confermati in modo così implicito da impedire alle persone di potersene difendere. Chi guarda qual è la guancia che abbiamo messo in evidenza?».

Pensiamo, ad esempio, alla Dama con l’ermellino (olio su tavola, 1488-1490) di Leonardo da Vinci: «Mostra il profilo destro», chiarisce Suitner. «Ed è interessante notare quanto le artiste, negli autoritratti, hanno ruotato il proprio loro volto, come nel caso delle ultime opere di Tamara De Lempicka, in cui l’artista mostra la guancia destra».

Stiamo parlando di tecniche antiche, utilizzate dall’arte in modo intuitivo. E, forse, anche inconsapevole. «Ma questi elementi sono anche molto sottili. Ad esempio, nel corso dei nostri studi sullo Spatial Agency Bias abbiamo constatato che i partecipanti non si rendono conto di qual è l’elemento manipolato: la direzione dei volti o qualcos’altro?», commenta Suitner. «Le immagini di una persona sono ricche di dettagli, molto più interessanti per chi li guarda rispetto alla direzione del volto e, in modo congruente, quando valutiamo l’effect size per capire quanto la direzione influisca sulle valutazioni che vengono fatte sul soggetto raffigurato, l’effetto è piccolo, perché le persone si basano anche su elementi come i vestiti e il taglio di capelli, che sono di per sé molto informativi. Nel parlare di Spatial Agency Bias faccio spesso l’esempio della goccia: una goccia piccola, da sola, non è in grado di annegare una persona, ma tante gocce, tutte nella stessa direzione, scavano in modo insidioso. E, in questo caso, creano una forma della visione nella società della donna, che a sua volta tende a essere corroborata».

 

Il volto è lo specchio dell’anima

Secondo Oscar Wilde, il volto di un uomo è la sua autobiografia, mentre quello di una donna non è che la sua opera di fantasia. E le parole di Wilde ricalcano, in un certo senso, il secondo, importante fenomeno oggetto di studio da parte della psicologia sociale: l’indice di prominenza facciale (Face-ism), ideato da Archer nel 1983 e che mostra non solo che la rappresentazione della donna è caratterizzata da un indice di prominenza facciale minore (definito come la proporzione della faccia che viene mostrata rispetto al resto del corpo) in confronto agli uomini, ma anche che a questa rappresentazione è associato un minor grado di intelligenza.

«Lo stesso accade con il Face-ism, che riguarda la proporzione di faccia rispetto al corpo che viene presentata nelle immagini, e quindi anche nelle inquadrature», prosegue Suitner. «Le donne vengono spesso rappresentate con il corpo in evidenza e questo è un modo di oggettivare la persona, perché riconosciamo le persone più dai volti che dai corpi. Inoltre, il Face-ism riguarda anche la relazione fra spazio e potere, perché quanto più rappresentiamo il volto di una persona, tanto più questa viene percepita come potente, capace di prendere decisioni nella società. E quindi di nuovo, con tanta faccia suggeriamo, in un certo senso, che gli uomini sono più potenti delle donne». E che, anche in questo caso, sono più agentic.

«Esistono, inoltre, forme di Face-ism di tipo estremo, in cui le donne vengono rappresentate senza volto, perché quello che conta della donna è solo il corpo. In questi casi l’oggettivazione è massima». E, se siamo candidamente portati chiederci se si tratti di un fenomeno in declino, messo in discussione dalle sempre più frequenti riflessioni – scientifiche e non – sul ruolo e sulla rappresentazione femminile nei media, la risposta è, ahimè, negativa. Studi del 2009 hanno misurato la percezione di target femminili in termini umani, mostrando come un focus sull’aspetto fisico piuttosto che sulla persona in toto diminuisse l’attribuzione di caratteristiche umane che partecipanti di entrambi i generi associavano a questa tipologia di target. Che oggi, anziché circoscriversi, diventa sempre più estesa. «Paradossalmente, se le cose stanno cambiando, stanno cambiando in una direzione un po’ inquietante, nel senso che oggi non si tende a oggettivare solo la donna ma anche l’uomo. Insomma, siamo di fronte a una parità in negativo!», chiarisce Suitner.

Le ragioni? «Sono da rintracciare nel capitalismo, che vede l’uomo come il pezzo di un ingranaggio e che ha favorito un picco di quest’oggettivazione a vari livelli, perché oggi tutto tende a essere molto standardizzato».

 

In guerra vince chi è più in alto

«Un’altra tecnica è la verticalità», precisa Suitner. «Gli studi mostrano chiaramente che gli uomini sono associati alla verticalità. Per esempio, anche nelle pagina di giornale le foto degli uomini sono solitamente collocate più in alto rispetto alle foto delle donne. E la verticalità, ovviamente, è associata al potere: quando pensiamo all’organigramma di una società, ad esempio, il leader è sopra. Quando pensiamo agli uffici, gli spazi della leadership sono agli ultimi piani, mentre in basso si colloca “la plebaglia”. Ma penso anche allo stesso modo in cui sono organizzate le città: le posizioni dominanti e le posizioni di potere si trovano in alto, perché costituiscono un vantaggio in termini di monitoraggio dell’ambiente sottostante, su grande scala. Su piccola scala, stare più in alto significa poter sovrastare l’altra persona. E questo tutti noi l’abbiamo imparato molto bene, perché tutti noi siamo stati bambini e abbiamo per anni guardato in alto gli adulti, che ci dicevano come ci dovevamo comportare e che esercitavano del potere su di noi».

Ma quando e come nasce l’osservazione di questi fenomeni?

«Gli studi sullo Spatial Agency Bias nascono sulla scia di ricerche relative alle afasie, attraverso le quali si è rilevato che le persone afasiche associavano un ruolo di agente alla persona mostrata a sinistra. In seguito si è visto che quest’associazione veniva fatta anche da persone non afasiche e che quest’attribuzione ha a che fare con la lateralizzazione emisferica: attribuiamo quindi la direzione sulla base dei compiti funzionali a livello cerebrale. Successivamente ci siamo interrogati sul fatto che questo fenomeno possa essere legato anche a ragioni di tipo culturale, come la direzione della scrittura, e abbiamo fatto un confronto con alcuni partecipanti arabi. E poi, siccome siamo psicologi sociali e consideriamo l’agency un attributo fondamentale degli stereotipi, ci siamo interrogati sulla possibilità che i gruppi agentic fossero associati alla sinistra e questo ci ha permesso di verificare, dal punto di vista sperimentale, che se viceversa si insegna alle persone ad associare le donne con il profilo e con la guancia destra, diminuisce anche il livello di sessismo nei loro confronti. Questa tecnica, quindi, può essere utilizzata anche come elemento di manipolazione sottile per attenuare una visione sessista del mondo», chiarisce Suitner.

«In questo studio, per esempio, abbiamo creato un compito sperimentale di categorizzazione, in cui il partecipante doveva premere la barra spaziatrice della tastiera quando un’etichetta prevedeva in modo congruente l’immagine successiva. L’etichetta poteva essere “uomo” o “donna” e l’immagine successiva poteva essere quella di un uomo o di una donna. Abbiamo variato il modo in cui erano rappresentati i due generi – quindi con il profilo destro o sinistro – e i partecipanti che vedevano la maggior parte delle donne con il profilo destro e la maggior parte degli uomini con il profilo sinistro, quindi in senso contro-stereotipico rispetto alla rappresentazione visiva standard, mostravano in seguito livelli di sessismo più bassi. Di sessismo benevolo, come il ritenere corretto affermare che un uomo non valga niente se non ha una donna accanto, come il dovere dell’uomo di difendere la donna e come l’idea che debba essere sempre l’uomo a pagare il conto al ristorante. E di sessismo ostile, come l’idea che le donne vogliano scalzare gli uomini dal potere e soverchiare l’ordine del mondo», conclude Suitner. Per restare nell’attualità, la visione del mondo portata avanti da organizzatori e partecipanti ai Family Day.

 

Dobbiamo (per forza) averlo?

She’s Gotta Have It (S. Lee, 1986) è l’opera prima del regista statunitense Spike Lee, ma oggi è anche una serie televisiva di successo, scritta, diretta e prodotta dallo stesso cineasta. La trama è presto detta: Nola Darling (protagonista sia del film che della serie TV) è un’artista newyorkese, che si divide fra una Brooklyn sempre più gentrificata, un mondo dell’arte sempre più mercificato e tre partner sessuali più che mai standardizzati: Jamie Overstreet, consulente finanziario maturo e ammogliato; Greer Childs, fotografo bello e narcisista; e Mars Blackmon, hipster dissacrante ed eterno Peter Pan. Insomma, She’s Gotta Have It è la storia di una donna giovane, emancipata, che vive di arte e che fa dell’arte il suo successo: in definitiva, un ribaltamento degli stereotipi di genere. O forse no.

«Credo che gli stereotipi mutino, non si abbattano, e che noi siamo sempre soggetti a essi. Così, se in passato vigeva il modello della donna realizzata perché moglie e madre (perfetta), oggi abbiamo un modello – più pesante – della donna moglie e madre: attiva, forte ed emancipata a tutti i costi e in tutte le situazioni», commenta Lorenza Di Francesco, docente di Storia del cinema presso il Dipartimento di Comunicazione ed Economia dell’Università di Modena e Reggio Emilia. «E si tratta di uno stereotipo che la narrazione cinematografica odierna adotta anche per raccontare eventi o personaggi del passato».

D’altro canto, la stessa piattaforma Netflix propone una categoria che lascia poco spazio agli equivoci: le “Serie TV con una protagonista femminile forte da vedere tutte d’un fiato”.

 

Piccole variazioni sul tema degli stereotipi di genere

Insomma, sul fronte della rappresentazione stereotipata del femminile è cambiato tutto. Ma, in realtà, non c’è niente di nuovo. «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi», commenta icastico Tancredi Falconeri – fra i personaggi più importanti e ambigui del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa – nel definire l’atteggiamento di chi si propone come fautore di un cambiamento per conservare i privilegi del proprio gruppo di appartenenza. E nel mondo del cinema e della serialità le cose non sono così diverse.

«Avendo sempre in mente che da una parte abbiamo la realtà e dall’altra la rappresentazione, quindi che esiste sempre uno scollamento tra racconto e verità, personalmente vedo stereotipi ovunque», prosegue Di Francesco. «Oggi come in passato, quindi, esiste un modello che schiaccia la donna; è solo lo stereotipo a essere mutato. Da studiosa, come da spettatrice, ad esempio, quando vedo la storia di una donna che lavora dieci ore al giorno, preferirei vederla disfatta quando rientra a casa, perché nella realtà avviene questo. Ma nel racconto cinematografico difficilmente è presente la rappresentazione di una donna che torna a casa irritata, affaticata e “brutta”. E, si badi bene, non si tratta di una questione di economia del racconto: semplicemente è qualcosa che non si fa vedere, perché il modello impone una donna che lavora bene e molto senza perdere la sua femminilità, e che sia sempre in grado di amare qualcuno e lottare al massimo delle sue forze per le idee in cui crede».

Pensiamo a una serie tv che ormai rappresenta un po’ la preistoria di questo format, Sex and the City, ideata da Darren Star e trasmessa dal canale HBO dal 1998 al 2004. Anche in questo caso, la trama è presto detta: Carrie Bradshaw (giornalista), Samantha Jones (PR), Charlotte York (direttrice di una galleria d’arte) e Miranda Hobbes (avvocata) sono quattro donne belle, single, in carriera, che vivono relazioni disinvolte e spensierate sullo sfondo di una New York scintillante e tutta da bere. L’obiettivo iniziale della produzione? Mostrare le donne per quelle che sono: libere, emancipate e capaci di parlare apertamente di sesso. Esattamente come un uomo. Ma, anche in questo caso, l’obiettivo è stato solo parzialmente raggiunto.

«Sex and the city ha destato interesse negli anni Novanta perché mostrava donne felicemente single, che avevano avventure sessuali e ne parlavano apertamente e allegramente con le amiche al bar. Tuttavia, a mano a mano che negli anni la serie ha avuto successo ed è andata avanti, il racconto ci ha mostrato che le quattro protagoniste erano in realtà alla ricerca del grande amore, del matrimonio, dei figli, aderendo sempre più al modello “antico” secondo cui una donna, per essere felice, deve avere un uomo accanto o comunque una rete di affetti forti», chiarisce Di Francesco.

E, da Sex and the City a oggi, il cinema e la serialità che si definiscono “di rottura” nel concreto non hanno fatto che limitarsi a mostrare piccole variazioni sul tema. «Le donne sole al cinema sono quelle che hanno problemi, o hanno subìto traumi, sciagure. Non è rappresentata l’idea secondo cui una donna possa scegliere consapevolmente e in tutta libertà di non avere un partner, perché per quanto uno spettatore desideri guardare un film o una serie innovativa, egli cerca, in realtà, uno stereotipo, un modello. Vuole trovare una morale, un senso da portare a casa, qualcosa di consolante», commenta Di Francesco. Insomma, viviamo nell’epoca delle frasi di Twitter ed è forte l’esigenza di trovare uno schema. E la libertà artistica viene quindi limitata dalle regole del marketing.

 

Il confronto continuo con un modello unico

È risaputo. Confrontarsi con un modello unico opera una pressione sociale fortissima sui desideri soggettivi della persona. Gli stereotipi cambiano con la società e con la storia, ma la tendenza resta la stessa e si propende sempre a riportare tutto a un modello precostituito. Tutto ha inizio negli anni Sessanta quando, in Italia e in Europa, comincia a cambiare la percezione sociale e lavorativa della donna. Ma cosa accade invece sul grande schermo, investito dalle nouvelles vagues, quei movimenti che si propongono di scardinare a livello globale gli schemi del cinema precedente?

«La stessa Nouvelle vague francese opera uno stravolgimento della tecnica cinematografica, ma non scalfisce tutta una serie di stereotipi», puntualizza Di Francesco. «La Nouvelle vague opera sì un’inclusione di soggetti sociali nel cinema, nel senso che porta sul grande schermo gli emarginati (prostitute, ladri, spacciatori), ma nel trattamento di questi personaggi c’è solo un tentativo di mostrarli nella loro complessità. Naturalmente ci sono delle eccezioni, anche perché il fenomeno delle Nouvelles vagues è ampio e coinvolge un po’ tutta l’Europa. Pensiamo, ad esempio, a Gli amori di una bionda di Miloš Forman, un film del 1965, che racconta le avventure amorose e sessuali di un’operaia in modo molto naturale, nel senso che non giudica la protagonista, preferendo raccontare come sta cambiando l’atteggiamento femminile». A differenza del giudizio — anche piuttosto netto — che Spike Lee dà a quella Nola Darling così (apparentemente) emancipata e protagonista della sua opera prima.

In Italia abbiamo avuto la grande stagione del Neorealismo che ha voluto non solo includere gli emarginati nel racconto cinematografico ma anche e soprattutto costruire un cinema attento e vicino all’individuo. Storia di Caterina (F. Maselli e C. Zavattini, 1963), ad esempio, racconta la vicenda di Caterina Rigoglioso, una giovane donna protagonista di un fatto di cronaca dalla forte risonanza mediatica: giunta nella capitale, Caterina viene sedotta e abbandonata. Spinta dall’indigenza e giudicata una reietta, dopo aver dato alla luce il piccolo Carletto, lo abbandona in un parco di Roma, nel ricco quartiere dei Parioli, sperando che una famiglia benestante lo trovi e lo prenda con sé. Ma Storia di Caterina non è solo la storia di una donna (finalmente) a tutto tondo: è anche la scomparsa dell’attore. Perché a interpretare Caterina Rigoglioso sarà Caterina stessa, in un tentativo, portato avanti da Cesare Zavattini, di dare vita a un cinema il più possibile aderente al reale.

«Zavattini è stato non solo un grande uomo di cinema, ma un intellettuale originale e controcorrente che ha lavorato su più media (letteratura, cinema, radio, giornali), e che per questo spesso aveva le idee più chiare di altri sui cambiamenti sociali in atto», prosegue Di Francesco. «Nella sua volontà di raccontare i cambiamenti che stavano avvenendo in Italia negli anni Cinquanta si è avvalso ad esempio del suo lavoro nelle redazioni dei giornali, anche con rotocalchi di riviste femminili: attraverso il confronto con le lettere e con le rubriche, Zavattini è riuscito intercettare il pensiero femminile».

 

Persone da vivere o personaggi da interpretare?

Ma quali sono gli scenari offerti dal cinema di oggi, concretamente aperti a una rappresentazione della donna a tutto tondo e finalmente liberi dagli stereotipi di genere?

«Credo che Daniele Vicari sia fra i pochi registi in Italia a offrire oggi una rappresentazione della donna vicina alla realtà, e per questo a tutto tondo. Credo anche per questo che Vicari sia fra i pochi ad aver raccolto l’eredità dello sguardo neorealista, mantenendo un proficuo equilibrio tra la volontà di raccontare le “cose per come stanno” e la vicinanza affettiva ed empatica ai personaggi», commenta Di Francesco. «Spesso, i protagonisti dei suoi film sono donne, donne che affrontano la vita con coraggio ma anche con grandi momenti di sconforto, e soprattutto non sono donne che vincono sempre. Azzardando un’ipotesi sul lavoro del regista e dello sceneggiatore, direi che qui non si ha in mente un modello bensì la persona. Quello di Vicari non è prettamente un cinema femminile e nemmeno uno stile riconducibile a inquadrature o movimenti di macchina ricorrenti. Vicari, per me, vuole raccontare delle persone, nel loro tempo».

D’altro canto, lo stesso Vicari ha dichiarato in un’intervista: «Ho pensato alle persone che amo: a mia madre, mia sorella, mia figlia, mia moglie. L’80% della fatica della nostra società è sulle spalle delle donne. Ho chiesto agli attori di non interpretare i personaggi ma di viverli».

Raccontare una storia piuttosto che raccontare un personaggio diventa, quindi, l’obiettivo iniziale del regista. Il principio guida, che determina tutte le scelte successive, in termini di scrittura e di regia.

 

Vecchi stereotipi, nuovi scenari

In definitiva, vecchi stereotipi e nuovi scenari. Ma non sempre, o comunque,non del tutto. Perché oggi è evidente una zona grigia, all’interno della quale il cinema cerca di rinnovare il linguaggio attraverso cui trattare vecchi temi, pur continuando a fare i conti con vecchi e nuovi stereotipi, che di tanto in tanto fanno capolino.

Chernobyl è coproduzione televisiva statunitense e britannica che ricostruisce l’esplosione radioattiva dell’aprile 1986, prodotta da Sky Atlantic e Hbo, e che ha fatto il suo debutto sul piccolo schermo lo scorso 10 giugno.

«Nella miniserie Chernobyl i protagonisti sono tre: Valerij Alekseevič Legasov, uno scienziato “buono” che cerca di arrivare alla verità della tragedia; Boris Shcherbina, un politico, che da “cattivo” diventa “buono”; e Ulana Khomyuk, una scienziata intrepretata da Emily Watson, figura chiave per aiutare Legasov a scongiurare la catastrofe. La serie si ispira al saggio Preghiera per Černobyl (scritto dal Premio Nobel per la letteratura Svetlana Alexievich nel 1997, N.d.R.), in cui il personaggio di Ulana Khomyuk non compare: nel romanzo compaiono, invece, una serie di altri personaggi, che sono stati poi convogliati nella “scienziata buona“. Allora, mi sono chiesta che tipo di operazione ci fosse nel far confluire una moltitudine di collaboratori in un personaggio unico. Posso capire il personaggio unico, per ragioni di economia dei personaggi, ma come mai proprio una donna? Senza vendere teorie e giudizi e senza voler fare riflessioni generalizzate, sarebbe interessante, per esempio, ragionare su queste micro-variazioni di scrittura», conclude Di Francesco.

Un ulteriore spunto di riflessione è offerto dalle produzioni seriali nordeuropee, come Forbrydelsen (Danimarca, 2007 – 2012) e Bron / Broen (Svezia-Danimarca, 2011-2018), le cui protagoniste femminili (rispettivamente Sara Lund e Saga Norén) poco ricalcano il corpo normato e lo standard estetico a cui il cinema ci ha assuefatti.

E dunque, si tratta di una scelta legata alla parità di genere, che in questi Paesi, è noto, è perseguita con fermezza? O forse, anche in questo caso, la detective dimessa e disfatta, problematica e per nulla sensuale rappresenta un nuovo trend?

 

 

 

 

(Foto di copertina: Laura Dern e Scarlett Johansson in “A marriage story”, 76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica a Venezia).

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