Sii chiaro, dillo meglio

Parole e lavoro Usare bene le parole è essenziale sempre; in ambito lavorativo, questa competenza diventa di importanza primaria. Generalmente, passiamo una parte rilevante del nostro tempo a lavorare. Possiamo essere fortunati, e fare esattamente il lavoro per il quale riteniamo di essere nati, oppure ritrovarci in contesti meno soddisfacenti, meno “comodi”; quale che sia […]

Parole e lavoro

Usare bene le parole è essenziale sempre; in ambito lavorativo, questa competenza diventa di importanza primaria. Generalmente, passiamo una parte rilevante del nostro tempo a lavorare. Possiamo essere fortunati, e fare esattamente il lavoro per il quale riteniamo di essere nati, oppure ritrovarci in contesti meno soddisfacenti, meno “comodi”; quale che sia il caso, cercare di mantenere un posto di lavoro piacevole è sempre una buona pratica. E certo, tale piacevolezza passa da molti aspetti (la postazione di lavoro, i colleghi, la luminosità degli spazi, le mansioni stesse…); tuttavia ce n’è uno sul quale possiamo influire tutti, indipendentemente dalla posizione che ricopriamo in azienda: il clima che deriva dalle parole che impieghiamo nel contesto lavorativo.

Mi limito ad alcune osservazioni sparse, derivanti in larga parte dalla mia esperienza personale.

La comunicazione “verticale”

È la comunicazione che procede dai vertici verso dipendenti e collaboratori e viceversa. In questo contesto, si nota un po’ in tutti i settori un eccesso di burocratizzazione. Per quanto in molti àmbiti ci si sia resi conto della necessità di semplificare, disintermediare, sintetizzare, prevale spesso una logica antilinguistica, come diceva già Italo Calvino, tesa ad allontanare significanti da significati soprattutto nel caso di concetti poco digeribili: si parla di esuberi e non di licenziamenti, ma anche di patologia invece che di malattia o di fatalità invece che di incidente. Il tutto da una parte per evitare l’impiego di parole dal significato troppo esplicito, per una sorta di pudore linguistico; dall’altra, e più perversamente, per dire-e-non-dire, quando invece una comunicazione così delicata dovrebbe tendere alla massima comprensione e chiarezza.

Il processo di semplificazione è spesso osteggiato sia da chi sta più in alto sia da chi sta più in basso. Spesso si fa riferimento alla tradizione, al “ma si è sempre fatto così”, al “ci sono delle procedure”, “è la regola”, “si usa in questo modo”, “è il nostro linguaggio specialistico”, anche quando si tratta, invece, di vuoto attaccamento a procedure che non hanno più alcun significato. La lingua, in questo caso, è usata per allontanare e per dividere, per ribadire ruoli e dissimmetrie. Quanti, per fare un solo esempio, sanno che scrivere in una data, come in “Firenze, lì 18 settembre 2018” è sbagliato? Quel non sta per ‘in quel luogo’, ma è l’articolo maschile li, forma arcaica di gli. Eppure lo troviamo perpetuato di documento in documento (anche dall’interno verso l’esterno, cfr. oltre) perché “è l’uso”.

La comunicazione “orizzontale”

Si tratta della comunicazione reciproca tra dipendenti o collaboratori (anche non per forza di pari grado) di un’azienda o un ente. Quando si parla di questo contesto, ci si concentra sovente sulla questione delle categorie da tutelare”, siano esse donne (magari incinte), categorie protette o altro. Ogni posto di lavoro può avere, tra il personale, elementi più o meno a rischio discriminazione, ma è altrettanto ovvio che imporre certe formule linguistiche magari a tavolino possa finire per essere più controproducente che altro: il rischio del politicamente corretto a ogni costo è quello di svuotare le espressioni di significato. Insomma, le parole sono di sicuro importanti, ma solo se le res le seguono.

Un altro aspetto interessante da analizzare è quello non dell’ostilità aperta, ma delle piccole angherie tra le righe. Il chiamare “signora” una persona che avrebbe diritto a un titolo professionale adeguato; il bullismo o lo squadrismo o il nonnismo nei confronti di un nuovo arrivato o di un “anello debole”. Quanti sono i comportamenti inter pares nei quali possiamo cadere un po’ tutti? I contesti dei quali siamo responsabili noi stessi in quanto colleghi di qualcun altro? La lingua divide e unisce, da sempre; è facilissimo fare gruppo contro una persona che, per vari motivi, si ritrova sola, o al limite in minoranza. E anche di fronte a comportamenti ineccepibili sulla carta, non è difficile creare situazioni di discriminazione linguistica, insidiose soprattutto perché “grigie”, ossia non definibili con certezza.

Il tutto è reso più complesso dai molti canali attraverso i quali comunichiamo con i nostri colleghi: a voce, via e-mail, ma anche tramite chat e perfino messaggi vocali. Quante volte può succedere di dire o scrivere una cosa che altri, per sbaglio, leggono o sentono? Vale sempre il consiglio da navigato giornalista che tante volte ho sentito dire a Bruno Mastroianni quale versione più “tecnica” del mio “scrivi come se tua madre ti stesse leggendo”, che io a mia volta ho tratto dal linguista americano David Crystal: “dì e scrivi solo cose che non avresti problemi a vedere stampate sulla prima pagina di un quotidiano”. A cui vorrei aggiungere un secondo consiglio: non considerare mai nessun ambiente comunicativo come se fosse a tenuta stagna; un discorso fatto a voce è riportabile, uno scambio via WhatsApp riproducibile con facilità. Ed è molto più semplice pensare un secondo di più a quanto si sta per dire o per scrivere rispetto alla gestione a posteriori di una crisi di comunicazione, grande o piccola che sia.

 

La comunicazione tra interno ed esterno dell’azienda

In questo contesto, spesso si tende a dimenticare che ciò che può andare bene all’interno del tessuto della realtà lavorativa, dove ci si conosce un po’ tutti, può non essere accettabile verso l’esterno, che sia il caso dei tecnicismi sovrabbondanti che sia quello, più grave, della mancanza di trasparenza. Soprattutto le realtà lavorative molto coese tendono a sottovalutare l’impatto della disintermediazione provocata dai nuovi circuiti comunicativi: per esempio, laddove prima un problema su un prodotto (materiale o dell’ingegno) poteva avere una risonanza limitata all’ufficio delle relazioni con i clienti o a qualche lettera arrabbiata, adesso spettatori, clienti, utenti e semplici curiosi si possono organizzare e coordinare, facendo sentire in maniera più potente le loro voci; quello che prima poteva rimanere un errore con poca risonanza mediatica diventa oggi questione di tutt’altra ampiezza. Un esempio potrebbe essere la scelta di usare svio al posto di deragliamento durante un grave incidente ferroviario di qualche mese fa: tecnicismo o scelta di un termine volutamente poco chiaro? A molti viaggiatori disorientati, il dubbio è rimasto.

Al di là di quanto si possa studiare nei manuali, oggi, nel mutato scenario comunicativo, nella società ipercomplessa (leitmotiv, non a caso, delle ricerche di Piero Dominici), non si può prescindere da ciò che gli altri percepiscono di ciò che noi comunichiamo, o che le nostre aziende comunicano. Sarebbe bello, secondo alcuni, poterne fare a meno, e tenere conto solo delle opinioni degli esperti, ma così non è. Filosoficamente parlando, si può arrivare a mettere in dubbio l’esistenza stessa di una realtà al di là di quanto noi persone ne percepiamo: come si fa, dunque, a giustificare la percezione di un atto comunicativo come errata (in altre parole: sbagliano loro perché non capiscono che le cose vanno comunicate così) appellandosi alla sua presunta correttezza formale?

 

Le parole, in conclusione

Concludo queste spigolature con alcuni spunti che mi sento di dare:

  1. Il miglioramento della comunicazione aziendale, di ogni comunicazione aziendale, passa sicuramente da strategie complesse (per esempio, la ridefinizione del tono di voce) che coinvolgono tutte le parti dell’azienda. Ciononostante, nel nostro piccolo, ognuno di noi può fare la sua parte: si può iniziare prestando semplicemente maggiore attenzione alle parole che usiamo.
  2. Occorre ricordare che la lingua ha profondissime radici biologiche: nasce dalla necessità sentita dall’essere umano di comunicare le informazioni con la maggior chiarezza possibile. Nel momento in cui la comunicazione diventa qualcos’altro, ossia manipolazione, gioco di potere, strumento di discriminazione, stiamo tradendo ciò per cui la lingua è nata e si è perfezionata.
  3. Usare bene le parole, ancor prima o ancor più che un dovere civile e morale, è un piacere. È anche il modo più immediato, alla portata di ogni essere umano, di diventare pienamente parte della società odierna, che assegna un ruolo di grande importanza proprio alla… comunicazione.

 

 

Foto dal sito aiepeditore

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