Il fotografo live si muove sul pit

Il celebre Woodstock di Michael Wadleigh (al quale lavorò come aiuto regista anche Martin Scorsese) contribuì in maniera significativa a far entrare nella storia – anche del costume – il festival musicale del 1969. Documentare la musica e i suoi interpreti è ancora oggi una sfida affascinante e suggestiva, condotta non senza difficoltà dai fotografi […]

Il celebre Woodstock di Michael Wadleigh (al quale lavorò come aiuto regista anche Martin Scorsese) contribuì in maniera significativa a far entrare nella storia – anche del costume – il festival musicale del 1969. Documentare la musica e i suoi interpreti è ancora oggi una sfida affascinante e suggestiva, condotta non senza difficoltà dai fotografi di live, che portano avanti una specializzazione peculiare in un’epoca in cui le modalità di fruizione e condivisione dell’evento live sono profondamente cambiate. A raccontarci il suo lavoro è Mathias Marchioni, classe 1979, giornalista e fotografo di musica live dal 2015.

Mathias Marchioni

 

Come hai iniziato?

Dopo la laurea in scienze politiche ho aperto la partita Iva lavorando in ambito informatico, ma il mio sogno è sempre stato quello di diventare giornalista. Amo la musica, ero un musicista, quindi mi sono proposto a webzine del settore iniziando a collaborare con loro – OnStage la più importante – anche come fotografo. Ottenuto il tesserino, mi sono reso conto del fatto che le mie foto piacevano e in molti mi incoraggiavano a provarci ancora più seriamente. Una svolta importante è stata l’inserimento nella squadra di Virgin Radio: occuparsi della copertura fotografica dei festival e dei concerti, di cui Virgin Radio era sponsor e non solo, ha rappresentato un trampolino di lancio che ha permesso di farmi conoscere nell’ambiente.

Per oltre due anni sei stato anche direttore responsabile della testata online MusicAttitude. Un’avventura che si è da poco conclusa.

Sì, ho ceduto il timone perché l’impegno era davvero gravoso. È stata un’esperienza arricchente dal punto di vista personale che mi ha aiutato a crescere molto, mentre dal punto di vista della professione di fotografo ha costituito un freno.

Le esperienze di un fotografo e di un giornalista accreditato a un concerto non potrebbero essere più diverse. È così?

Un fotografo vive l’evento del concerto in maniera completamente diversa dal giornalista, che ha il suo biglietto, la sua postazione in tribuna stampa (difficilmente in parterre), entra quasi in contemporanea con il pubblico, pochi minuti prima dell’inizio, assiste al concerto e poi scrive il pezzo. Il fotografo è vicino all’azione, deve entrare molto prima e rispettare maggiormente le regole del live. Ha a che fare con il management dell’artista, che fornisce direttive comportamentali: quando si può scattare, per quanto tempo e dove. Il fotografo si muove in una posizione estremamente vicina al palco, davanti a tutti, in quello spazio che in gergo si chiama pit, dove si trova la security e si ha la possibilità di interagire con le altre professionalità che lavorano nei live, come i tecnici delle luci, del palco, del suono, oltre al management e all’artista stesso.

Ma non tutti i fotografi live sono uguali.

I fotografi sono accreditati a vari livelli: con le testate giornalistiche per cui devono coprire l’evento, con le società di promozione del concerto e con l’artista stesso. Sono tre livelli diversi con bonus differenti. Nel primo caso, l’artista generalmente concede le prime tre canzoni per scattare immagini. Finito questo tempo, il fotografo con l’accredito stampa viene accompagnato fuori dalla venue. Chi è stato assoldato dal promoter ha di solito anche la possibilità di accedere all’after-show e può fare panoramiche dell’evento. Il professionista che segue l’artista gode di più libertà di movimento rispetto ai colleghi, ma ha anche molte più responsabilità; partecipa ai briefing con i principali attori coinvolti, in primis il management, e in quel momento è un vero e proprio membro del team dell’artista a cui risponde.

Hai vissuto tutte queste tipologie di committenza. Hai fatto parte della squadra di fotografi che ha accompagnato Bruce Springsteen nel suo The River Tour in Italia, nel 2016. Che esperienza è stata?

È banale dirlo, ma quando lavori con un artista il coinvolgimento e di conseguenza la soddisfazione sono più elevati. È come, per un giornalista, ottenere un’intervista esclusiva faccia a faccia piuttosto che partecipare a una tavola rotonda con altri colleghi. Purtroppo non c’è stato modo di incontrare direttamente Bruce Springsteen; a volte succede, con questi grandi nomi. Forse è stato meglio così: avevamo una scaletta da seguire ed è quasi consigliabile dimenticarsi per chi stai lavorando per mantenere la giusta lucidità. Altre volte sei più a stretto contatto con l’artista, come con i Negramaro, di cui l’anno scorso ho seguito il tour estivo e invernale. Pur essendo una band importante c’era una certa accessibilità, e i tempi sono stati più umani rispetto al tour di Springsteen.

Il fotografo deve anche essere un po’ psicologo quando è a stretto contatto con un artista famoso?

Sì, devi saperti comportare in una situazione estremamente riservata come quella del backstage con gli artisti e i loro ospiti. La privacy è molto importante, bisogna fare attenzione a quali foto scattare, quali tenere per sé e quali mostrare all’artista. È uno degli errori più facili in cui cadere: lasciarsi prendere dall’entusiasmo del momento e diventare fan, scordandosi di essere un professionista. Basta davvero un attimo, ma va evitato, almeno per come intendo io questo mestiere. Si vivono emozioni forti, anzi fortissime, ma bisogna contenerle e controllarle prima che diventino preponderanti e abbiano la meglio su quello che stai facendo, su come devi fare il tuo lavoro.

Che senso ha la fotografia di musica live oggi?

È una riflessione personale che vivo anche in maniera conflittuale. Si fanno sempre i conti con i grandi del passato, che avevano a disposizione band leggendarie che oggi forse non ci sono più, oppure non sono così nel fiore degli anni. Basti pensare ai Rolling Stones. Il confronto si fa con chi li ha immortalati negli anni Sessanta e Settanta. Non lo sapremo mai con certezza, ma credo che le foto attuali dei Rolling Stones non avranno quell’impatto e quel carattere di unicità che possiedono ancora quelle scattate decenni fa. Per questo motivo sento che un professionista oggi parte svantaggiato, perché si è perso il valore che la fotografia aveva un tempo, vuoi perché i fotografi del settore erano pochi, vuoi per l’utilizzo della pellicola. A incidere è anche la sovrapposizione di immagini degli artisti. Tutti oggi fanno foto; l’unica soluzione, quindi, è puntare sulla qualità, portare a casa un risultato superiore a quello di tutti gli altri.

Si può parlare di concorrenza degli amatoriali?

Se una persona del pubblico riuscisse a entrare all’evento con l’attrezzatura professionale, probabilmente immortalerebbe momenti salienti inaccessibili al fotografo accreditato, che dopo tre canzoni è dovuto uscire. Capita già che il fan al concerto scatti una foto con il suo smartphone, la pubblichi sui social network taggando l’artista, e che lui magari la condivida; in questo caso l’artista viene meno alle regole che lui stesso ha imposto, dando visibilità a immagini di persone che non si limitano più a essere fan, ma si improvvisano e si sentono legittimati a comportarsi come fotografi professionisti, pur non essendolo. Il discorso è molto lungo e complesso; spesso non è responsabilità diretta dell’artista ma del suo entourage, che sceglie foto di fan per il materiale promozionale e sa che non deve pagarle perché il fan stesso gliele regala. È una questione di educazione che in generale sta venendo a mancare. Il male della mia professione è che ci sono centinaia, se non migliaia, di improvvisati hobbysti che, in barba alle regole, vanno a scattare fotografie ai concerti che frequentano.

Questo cosa comporta?

La loro occupazione primaria è un’altra: la tranquillità economica non fa comprendere loro il valore aggiunto che porta un fotografo di live. Per loro è un passatempo, che però compromette il lavoro di chi lo fa – o vorrebbe farlo – per vivere. E quando il circo mediatico dietro l’artista si abitua a disporre di centinaia di foto in maniera gratuita, avrà sempre più ritrosia nei confronti del professionista che, di fronte alla richiesta di un incarico, redige un preventivo e chiede un giusto compenso. Questo ha portato a una crisi della professione.

Quanti fanno oggi questo mestiere in Italia?

Un fotografo live che gioca su numeri da professionisti nell’arco di un anno segue da accreditato non meno di cento concerti, tra cui eventi di artisti internazionali in venue importanti come San Siro o lo Stadio Olimpico. A tenere questi ritmi oggi è circa una quarantina di persone. Quanti di questi 40-50 ha come professione principale quella di fotografo? Il numero cala esponenzialmente e si conta sulle dita di una mano, stando largo, chi ha come core business l’attività di fotografo live. Io posso dire di aver raggiunto questo traguardo, ma continuo a occuparmi anche di altro proprio per la situazione di incertezza che circonda questo lavoro. L’obiettivo è puntare a migliorare e a consolidare la mia posizione, senza dare nulla per scontato. Sono contento che ci sia chi vede nei miei scatti qualcosa di diverso. Virgin Radio opera anche su Milano, dove l’offerta di fotografi è ampissima, eppure ha scelto di affidarsi a me, che vivo in provincia di Bologna, e a Henry Ruggeri, uno dei migliori fotografi di live in Italia, che viene delle Marche. È una conferma che stai lavorando bene.

In questi anni hai lavorato con i nomi più celebri della musica italiana e internazionale, da Vasco Rossi ai Rolling Stones. Puoi svelarci una preferenza, un aneddoto curioso da raccontare?

Amo particolarmente gli artisti che più sono grandi e importanti e meno si nascondono dietro una serie di regole e limitazioni che complicano l’impegno del fotografo. Ad esempio, una band storica come i Depeche Mode a oggi non ha mai creato problemi in questo senso, mentre artisti minori ed emergenti – spesso italiani, devo ammettere – ti pongono dei paletti, ti fanno approvare prima le immagini. Mi ha sempre colpito questa discrepanza di atteggiamento di chi, avendo uno spessore artistico superiore, concede la massima libertà espressiva. Di aneddoti ce ne sarebbero a iosa e non escludo di raccoglierli in un libro fotografico, un giorno. Per il momento, quello che posso dire è che ciò che accade nel backstage resta nel backstage.

 

Depeche Mode, Live in Italy, Roma 2017. Fotografia a cura di Mathias Marchioni.

 

In copertina: Frank Carter, fotografia di Mathias Marchioni

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