Il giornalismo sotto ricatto

Il mondo del giornalismo è colmo di regole. Ci sono le regole deontologiche, create dall’Ordine dei Giornalisti in collaborazione con altri Enti per fare in modo che il giornalista scriva sempre nel rispetto delle persone e dei fatti; ci sono quelle per la salvaguardia della professione e ci sono anche i provvedimenti disciplinari, qualora il […]

Il mondo del giornalismo è colmo di regole. Ci sono le regole deontologiche, create dall’Ordine dei Giornalisti in collaborazione con altri Enti per fare in modo che il giornalista scriva sempre nel rispetto delle persone e dei fatti; ci sono quelle per la salvaguardia della professione e ci sono anche i provvedimenti disciplinari, qualora il cronista non osservi una corretta etica nell’informazione. Ci sono però anche le regole per così dire ‘sommerse’; quelle che spesso e volentieri osserva il collaboratore esterno alla redazione, pur non dovendole rispettare in quanto lavoratore autonomo, con o senza partita Iva. Sono regole che tutti nell’ambiente conoscono ma che in pochi dicono: un vero e proprio segreto di Pulcinella. Ecco allora che emerge l’altro volto del giornalismo: quello fatto dai collaboratori che riempiono i giornali dietro una paga minima (quando va bene) e che di autonomo hanno ben poco; ma anche quello dei parasubordinati, che spesso si vedono tagliare i compensi o ancora coloro che lavorano senza essere iscritti all’albo pur avendo ben superato la soglia di tempo necessaria per potervi accedere. E intanto i compensi sono ridotti all’osso e legati alla quantità degli articoli prodotti; addirittura alcune testate propongono lavori gratuiti o pagati per visualizzazione e clic. Tutto questo sembra essere più presente nel mondo della cronaca. I giornalisti sono sempre più condizionabili e con sempre minori garanzie e certezze, all’insegna del precariato. Con buona pace dei diritti dei lavoratori sanciti dalla Costituzione e della corretta informazione, uno fra i capisaldi del sistema democratico.

Oltre il 40% dei giornalisti attivi dichiara meno di 5.000 euro l’anno

I dati diffusi da AGCOM nel mese di marzo con la seconda edizione dell’Osservatorio sul giornalismo tracciano uno spaccato di realtà che è tutt’altro che roseo. A settembre 2016 risultavano iscritti all’Ordine ben 112.397 giornalisti, di cui 59.017 registrati all’Inpgi (Istituto nazionale di previdenza dei Giornalisti italiani). Di questi, ben 23.547 hanno dichiarato reddito zero. Facendo i conti, il numero di giornalisti che nel 2016 hanno svolto attività giornalistica in Italia risulta essere pari a 35.619. In questa quantità sono compresi tutti, dipendenti o freelance. Non sono ovviamente inclusi coloro che scrivono pur non essendo iscritti all’Ordine e quindi privi dell’abilità alla professione. Se si guarda il reddito dei giornalisti in relazione all’anno 2015, emergono dati che perlomeno fanno riflettere: il 42% dei giornalisti ha dichiarato un reddito non superiore ai 5.000 euro, mentre il 26% ha comunicato un reddito compreso tra i 5.000 e i 20.000 euro. Solo il 16% ha dichiarato un reddito compreso tra i 20.000 e i 75.000 euro, mentre il 15% ha segnalato un reddito superiore ai 75.000 euro. Se si osservano le fasce di età, si nota come i più giovani siano quelli meno pagati. Ben il 59% dei giornalisti fino a 30 anni ha dichiarato un reddito non superiore ai 5.000 euro. Stessa cosa per il 47% dei giornalisti di età compresa tra i 31 e i 40 anni e per il 38% di chi è nella fascia di età compresa tra i 41 e i 50 anni. Il reddito non superiore ai 5.000 euro è dichiarato anche dal 69% dei giornalisti che hanno superato i 70 anni.

Aumenta il lavoro autonomo e l’equo compenso ancora balla

Il reddito varia anche a seconda della condizione professionale. Il 56% dei lavoratori dipendenti (gli insider) ha comunicato un reddito compreso tra i 20.000 e i 75.000 euro, il 48% dei parasubordinati ha dichiarato un reddito compreso tra i 5.000 e i 20.000 euro e ben il 40% dei freelance ha segnalato un reddito che non supera i 5.000 euro.  Se si osservano solo i dati che riguardano il lavoro autonomo, si nota come il 75% di chi offre una prestazione occasionale abbia dichiarato un reddito non superiore ai 5.000 euro, così come il 46% di chi lavora tramite cessione dei diritti d’autore; il 44% di chi lavora con partita Iva ha dichiarato un reddito compreso tra i 5.000 e i 20.000 euro, così come il 50% di chi ha un contratto di collaborazione. Secondo i dati, il lavoro autonomo sta progressivamente sostituendo quello subordinato (stando ai dati del rapporto Lsdi sul Giornalismo in Italia, alla fine del 2015 la quota di lavoro autonomo era pari a 65,5%). Non aiuta l’assenza di un tariffario minimo (abrogato nel 2012) e neppure ha aiutato la vicenda scoppiata in merito all’equo compenso, che ha portato alla vittoria dell’Ordine dei Giornalisti – che si era a suo tempo rifiutato di firmare l’accordo poiché vi ravvisava parametri non proporzionati alla quantità e alla qualità del lavoro svolto – sia davanti al Tar sia davanti al Consiglio di Stato. Equo compenso che attende la revisione dietro convocazione dell’apposita commissione.

Le paure dei giornalisti: la precarietà e l’occupazione a rischio

In questo contesto, sono molte le criticità della professione riscontrate dai giornalisti e individuate tramite questionario. Secondo i dati AGCOM, il 56% dei parasubordinati percepisce un rischio occupazionale, così come il 47% dei freelance. Anche la precarietà è vista come criticità per il 70% dei parasubordinati e per il 63% degli autonomi. I dati sono amplificati a livello locale: il rischio occupazionale è visto come criticità dal 43% dei giornalisti locali (contro il 38% di quelli nazionali), mentre la precarietà è vista come elemento critico dal 40% dei locali (contro il 30% di chi lavora nel nazionale). Del resto, le realtà locali sono in genere piccole e con poche risorse economiche.

Le redazioni ai free lance: “Il tuo compenso è in accrediti stampa e visibilità”

Come si è visto, il panorama dei freelance è estremamente variegato: c’è chi ha la partita Iva e chi lavora tramite cessione dei diritti d’autore o tramite prestazione occasionale. Il lavoro autonomo è ben regolamentato dall’articolo 2222 del Codice civile, che definisce la prestazione d’opera dietro lavoro personale e senza vincoli di subordinazione nei confronti del committente. Va da sé che nel campo giornalistico, il lavoratore autonomo è colui che esercita l’attività in modo indipendente, senza subordinazione e senza essere vincolato al committente. Ma la realtà non è così lineare come sembra. Spesso e volentieri i freelance o i collaboratori esterni (gli outsider) sono sottoposti a regole e ritmi nonostante la loro presunta autonomia. Spesso il giornalista scrive con continuità su determinati argomenti o segue certe zone territoriali in modo costante. Ancora, il freelance si ritrova a dover dare conto ai redattori o essere disponibile a coprire servizi che altrimenti non sarebbero seguiti (eventi, conferenze stampa, consigli comunali o addirittura la cronaca). Non ci sono orari. Il tutto spesso accade senza contratti e senza una retribuzione degna di questo nome. Molte volte il compenso è anche sotto i parametri retributivi previsti dal contratto nazionale del lavoro giornalistico. Chi scrive ha provato l’esperienza direttamente sulla sua pelle. Per alcune realtà locali, ho seguito paesi fissi in modo continuativo, seguendo eventi di bianca, fatti di cronaca o consigli comunali serali, scrivendo pagine su pagine e rendendo conto a redattori vari. Per un periodo ho anche portato avanti inchieste settimanalmente. Sempre presente. Sempre una persona sulla quale si poteva contare. Il lavoro era tanto. Mi impegnava ogni giorno della settimana e la retribuzione era minima: pagata a pezzo o a pochi centesimi a battuta. Tutta esperienza, pensavo. Poi mi sono resa conto che così non si poteva andare avanti e ho dato una svolta, approdando a realtà diverse e molto più positive (pur dopo proposte di collaborazione che come unici compensi offrivano accrediti stampa o visibilità). Certo, nessuno ti punta una pistola contro, ma va da sé che spesso quando si inizia a collaborare con un giornale, soprattutto di cronaca, devi sottostare a determinare regole. Si fa il lavoro del giornalista. Nulla di male, se ci fosse un contratto o quantomeno una retribuzione adeguata.

Chi tutela i giornalisti? La parola al Presidente FNSI

Ma allora chi dovrebbe tutelare i giornalisti come si sta muovendo? Ne parliamo con il direttore generale della FNSI (Federazione Nazionale della Stampa Italiana), Giancarlo Tartaglia: “Il problema è che la maggior parte degli editori fanno altri mestieri e tendono a diminuire gli organici, facilitati dalla legislazione, che facilita la fuga dal lavoro subordinato. Intanto, aumentano i rapporti di lavoro autonomo, che però presuppongono meno garanzie e rendono più dipendenti dagli editori. Inoltre, il costo delle partite Iva è inferiore a quello dei co.co.co. e quindi l’editore tende a spostarsi verso le prime. Noi stiamo tentando di sensibilizzare i contratti di lavoro e abbiamo sottoscritto con gli editori accordi per regolamentare anche il lavoro autonomo. È una lotta continua”. Tartaglia spiega anche che Il Jobs Act permette il passaggio al lavoro subordinato nei casi che più si avvicinano al lavoro dipendente. Questo però non vale per le prestazioni intellettuali per cui è necessaria l’iscrizione all’albo. “Stiamo cercando di far capire al legislatore – prosegue Tartaglia – che il giornalista freelance lavora comunque per un editore e non per un libero cittadino, come può fare per esempio l’avvocato”. Resta il fatto che i compensi previsti per gli autonomi sono minimi e spesso neppure rispettati. Quindi il collaboratore freelance cosa può fare? “Purtroppo, il lavoratore autonomo ha meno garanzie giuridiche. Noi stabiliamo diritti soggettivi ma poi è l’interessato che si deve muovere e segnalare le situazioni anomale alle associazioni di stampa territoriali”.

Enzo Jacopino: “Si è diffuso un senso di paura”

Un panorama desolante quello del giornalismo italiano, senza tutele né retribuzioni adeguate. Il contratto nazionale del lavoro giornalistico (stipulato tra la Federazione Italiana Editori Giornali, la Federazione Nazionale della Stampa Italiana e altri organi, al momento in discussione per il rinnovo) fissa delle retribuzioni minime, ma che non garantiscono il diritto al lavoro previsto dalla Costituzione e che comunque spesso non sono osservate. Il risultato? Freelance che di fatto scrivono i giornali o che danno a essi un apporto significativo, senza garanzie e in continua incertezza lavorativa: alcuni iscritti all’albo e altri invece senza esserlo. E la forbice tra i dipendenti e i lavoratori autonomi è sempre più ampia. Ne parliamo con Enzo Jacopino, fino a poco tempo fa presidente dell’Ordine dei giornalisti.

Dottor Jacopino, perché gli editori sembrano avere il pieno controllo? “Gli editori hanno potuto godere di complicità, variamente motivate, nella nostra categoria. La situazione di crisi ha fatto il resto perché si è diffuso un senso di paura che ha portato a una contrapposizione tra i contrattualizzati e i collaboratori, con i primi rinserrati in un fortino a difesa della loro situazione. Nessuno, prima che lo facesse l’Odg, ha posto il problema dello sfruttamento. La legge sull’equo compenso nasce da questo, ma è stata uccisa da fuoco amico. La tabella sui pagamenti è stata approvata anche con i voti di Fnsi e Inpgi. Il solo voto contrario è stato il mio in rappresentanza dell’Odg”. Quali soluzioni il Governo può cercare di mettere in campo? “Il Governo non credo voglia cercare soluzioni utili per i giornalisti sfruttati. L’allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, mi replicò in diretta tv che non è vero, come dico, che in Italia esiste la schiavitù. Tre euro ad articolo per lui, evidentemente, sono una cifra adeguata”.

Voce ai giornalisti. Storie di prima mano sulla non tutela degli Ordini e sulla passività delle redazioni 

Sono tante le storie di giornalisti che si sono ritrovati o si ritrovano a fare i conti con una realtà difficile, dove il lavoro è tanto (e spesso scandito da ritmi e regole precise) e la tutela poca. Alcuni di loro hanno scelto di raccontare la propria esperienza e di far sentire la propria voce a ‘Senza filtro’.

La storia di Alessio, cronista e collaboratore a tempo pieno

A partire da Alessio Belleri, cronista e collaboratore per varie testate locali della provincia di Milano. “Avevo 20 anni quando ho cominciato. Io avrei voluto occuparmi di sport e proprio in quel settore allora mi sono indirizzato. Università da una parte, collaborazione giornalistica dall’altra, sempre con argomenti principalmente legati al mondo sportivo. Poi ho chiesto se ci fosse la possibilità di provare l’esperienza in redazione. In settimana passavo qualche ora alla scrivania, mettendo giù alcuni articoli o imparando come trovare e raccogliere le notizie oppure come venivano impaginate queste ultime. Nel weekend, invece, seguivo le partite dei campionati di calcio minori da inviato. Ho deciso così di lasciare l’università per cercare di dedicarmi a tempo pieno alla professione. Dallo sport – che comunque ho continuato a seguire e ancora seguo – eccomi a occuparmi principalmente di cronaca nera, ma anche di bianca. Per quanto riguarda il discorso cronaca bianca, mi sono stati assegnati paesi specifici che seguivo con continuità e dietro tempi precisi. Ci sono stati in alcuni casi delle eccezioni, che mi hanno portato a seguire anche altri paesi. La cronaca nera, invece, era differente: non avevo paesi, ma ho spaziato su tutto il territorio. Così gli inizi e così anche quando nel 2007 ho lasciato il primo giornale per trasferirmi nella redazione, sempre di un’altra testata locale nata proprio quell’anno; entrambi giornali periodici. Nel frattempo sono arrivate anche collaborazioni con dei quotidiani e qui avevo e ho tuttora paesi specifici dei quali occuparmi.

Seguivo e seguo tuttora eventi, manifestazioni, storie, sport e cronaca nera. Personalmente il lavoro lo organizzo in questo modo: la mattina faccio il classico giro di chiamate, per capire se ci siano eventuali notizie. Una volta raccolte le informazioni, le propongo alle redazioni e, se vengono accettate, mi metto a scriverle. E poi c’è il lavoro fuori redazione: ossia si va nel territorio alla ricerca di informazioni che possono essere notizie”. E per quanto riguarda la disponibilità? “Tutto dipendeva e dipende dagli spazi a disposizione. Ci sono stati e ci sono giornali con i quali ho collaborato o sto collaborando dove la disponibilità è praticamente o quasi quotidiana. Altri, invece, dove appunto va in base alle esigenze del momento”.

La paga varia in base al numero degli articoli: “Non c’è mai un mese uguale. Con un giornale ho uno stipendio fisso, con gli altri va a collaborazione. Facendo una media delle collaborazioni, diciamo tra i 200 e i 400 euro (200 – 300 euro quando va bene mensili, di più ogni due mesi). È una media, a volte qualcosa in più e a volte anche meno”. Alessio ha sempre desistito dal chiedere un contratto: “Ci ho pensato, ma onestamente vedendo come funzionano le varie situazioni ho sempre desistito dal farlo”. Cosa spinge a continuare a fare il freelance senza certezze? “Penso che l’elemento fondamentale sia la passione. Non mi vedrei fare altro. Non riuscirei forse a fare una professione dove stai tutto il giorno chiuso in un ufficio o in un’azienda: il bello del giornalista è proprio lo stare in giro, a contatto con la gente e conoscendo ogni volta persone nuove, ognuna delle quali ti aiuta a crescere, ti lascia qualcosa (chi in maniera positiva e chi anche in maniera negativa; va detto).  Come ogni lavoro ci sono i pro e i contro: i pro sono alcuni di quelli che ho detto qui sopra; i contro sono, invece, che le redazioni ma pure le istituzioni o le singole persone non capiscono quello che fai: le redazioni, a volte, non si rendono conto che per raccogliere una notizia e scriverla serve tempo: vogliono invece tutto e subito. Mentre le istituzioni e i cittadini ti vedono, usando un termine un po’ forte, come se fossi lì a dare fastidio”.

Come risolvere la contraddittorietà tra quello che chiedono di fare al collaboratore e il trattamento economico o contrattuale (ammettendo che ci sia)?  “Questo è uno dei grossi problemi della professione. Secondo me ogni lavoro deve essere retribuito per quello che è; invece spesso si chiede tanto, ma si dà in cambio poco. E ritengo che chi dovrebbe tutelarci, nella maggior parte dei casi, è come se non vedesse e non volesse vedere qual è la realtà dei fatti. Ci sono dei tariffari specifici, ma dovrebbero essere fatti rispettare. È un po’ come il discorso meritocrazia: tante belle parole, però nulla di fatto. E nessuno che purtroppo dice niente. Ma non sono i collaboratori che dovrebbero far sentire la loro voce – o meglio non devono essere solo loro – bensì quegli enti che continuano a ripetere di essere a tutela e al fianco dei giornalisti: messaggi e slogan, purtroppo, che rimangono solamente tali. Ritengo che serva cambiare qualcosa nel modo di intendere la professione: ci sono, infatti, i giornalisti (che lo fanno quotidianamente e con costanza) e poi ci sono gli pseudo giornalisti (che con i social e altre forme di comunicazione, possono dire di far parte anche loro della categoria). Andrebbe fatta una precisa distinzione tra i due soggetti, ma dovrebbero essere gli enti che ci tutelano e le stesse redazioni a doverla fare. Cosa che purtroppo non sempre avviene. Un esempio: in qualche caso si preferisce prendere una notizia, magari da un social o da uno di questi pseudo giornalisti, perché così si evita di pagare il collaboratore e il giornalista. È in questo che c’è bisogno di cambiare mentalità e di farlo in maniera concreta.

Valentina: “Oggi mi ritengo fortunata ma ricordo un periodo con la luce staccata”

Altra storia, quella di Valentina Rigano. “Ho alle spalle 17 anni di professione e sono pubblicista dal 2010. Sono libera professionista e ora ne sono contenta, perché si conserva un po’ l’autonomia; ma è stata una scelta obbligata. Il sogno iniziale della maggior parte di chi voglia fare questo lavoro è di trovare un suo percorso professionale. La problematica del collaboratore c’è ed è grossa: ci sono compensi bassi a fronte di un impegno di un certo tipo. Ed è tanto più forte quanto la testata è piccola. La maggior parte dei freelance, inoltre, collabora per più giornali ed è ovvio che poi si abbassi la qualità. Bisognerebbe anche ragionare sulla tipologia dei compensi, che dovrebbero variare a seconda degli argomenti trattati. Insomma, gli organi competenti dovrebbero capire che è il caso di rimettere mano alla retribuzione dei giornalisti. Io ho iniziato dal basso: dopo un tirocinio gratuito iniziale, sono passata sulla carta stampata a livello regionale. Tutto è nato per caso: al ritorno da una trasmissione televisiva a Roma, ho saputo che a Milano stava per aprire un quotidiano. Una volta cercato l’editore insieme ad altri colleghi, abbiamo ottenuto un colloquio. Io mi occupavo della provincia di Monza, dove sono cresciuta. All’epoca facevo cronaca nera. La retribuzione non superava i 500 euro, ma ero impegnata per l’intera settimana per tutto il giorno. Ricordo di aver seguito l’inchiesta delle bestie di Satana: lavoravo giorni interi e in alcuni casi anche le notti. Quel periodo ho avuto un crollo, finendo in ospedale. Per tre anni e mezzo si respirava la promessa, mai realizzata, di un contratto a paga più alta. Anzi, il giornale ha poi chiuso di punto in bianco, senza avvisare nessuno. Vivevo già da sola e quella era la mia unica fonte di reddito. Mi ricordo un periodo con la luce staccata; mangiavo pan di stelle con the o alici con crackers. Non ho mai chiesto aiuto ai miei genitori perché volevo essere coerente con la mia scelta. È stato un periodo difficile. Ora sono inquadrata in maniera abbastanza corretta e faccio un lavoro che mi piace: mi ritengo fra quelli fortunati”.

Anonimo di un noto quotidiano nazionale: volevano pagarlo a pezzo e abbandonò la professione

C’è anche chi ha appeso la penna al chiodo, poiché i cambiamenti decisi dall’editore non gli avrebbero consentito di mantenere sé e la sua famiglia. A raccontarlo è un giornalista professionista, firma di un noto quotidiano nazionale, che preferisce restare nell’anonimato. “Sono 20 anni che faccio il giornalista – racconta – e ora l’avventura è finita: non scriverò mai più nulla per alcun giornale. Vista la parabola discendente, ho deciso di fare altro nella vita. Io ho cominciato dalla base: nessuna scuola di giornalismo e tanta gavetta, partendo da una testata locale. Ho seguito tutto l’iter di produzione di un giornale: la raccolta delle notizie, l’impaginazione, la distribuzione. All’epoca era diverso: c’era disponibilità all’ascolto, pagamenti puntuali e cifre dignitose. Fino allo scorso gennaio, mi sono occupato di cronaca per un importante quotidiano. Avevo un contratto co.co.co. da 17 anni. Non si era mai parlato di assunzione ma avevo uno stipendio buono. Quest’anno però l’editore ha deciso di pagare i collaboratori a pezzo. Il problema è che ai collaboratori sarebbero stati preclusi molti articoli. Il tutto in una redazione che fa finta di non vedere il problema. Mi è stata tolta di fatto la possibilità di scrivere e così ho smesso. Sono sempre più convinto che questa stia diventando una professione per ricchi”.

Francesca: “Attenzione alle startup fasulle on line”

Nel panorama degli autonomi, ci sono anche giornalisti professionisti senior che sono passati da esperienze regolate da assunzione in redazione allo stato di freelance. È il caso di Francesca R. Lancini, 41 anni, nata nell’hinterland milanese, inviata in vari Paesi del Sud del Mondo. Attualmente realizza inchieste e approfondimenti per un mensile francese e altri media nazionali. “Ho iniziato a scrivere 16 anni fa per l’Unità di Roma. Inviai il mio cv, dopo una gavetta post-laurea di tre anni e fui scelta per uno stage agli Esteri. Nel tempo, ho intrapreso vari percorsi in testate nazionali, cartacee e digitali. Ho conosciuto tutti i passaggi graduali per diventare professionista: dalle brevi al praticantato, e così via. Mi sono sempre occupata di attualità internazionale e nel 2006 ho iniziato a lavorare da freelance, dedicandomi soprattutto ai reportage in varie zone ‘difficili’ del mondo. Ho avuto anni abbastanza positivi, con direttori e capi-redattori dai quali ho imparato molto e con compensi dignitosi.

Negli ultimi anni, tuttavia, ho visto precipitare il settore dell’informazione in un far west. Sono incappata in startup fasulle, prevalentemente on line: chiedono sforzi immani, promettono ricompense (minime), ma rimandano in continuazione. Solo dopo ci si rende conto che dietro non c’è probabilmente alcun progetto serio. Su questo bisognerebbe lanciare un allarme, ma anche su altri fattori. Il precariato selvaggio, diffuso ovunque, è legato all’assenza e al non rispetto di regole deontologiche, alla mancanza di controlli su cosa si scrive e sulle fonti, alla sparizione o non applicazione di lettere d’incarico e a compensi inesistenti o irrisori. Infine, si è diffuso l’utilizzo poco consapevole delle tecnologie digitali. C’è una sorta di fanatismo, secondo cui i tools digitali dovrebbero prevaricare sui contenuti informativi. Una ‘dittatura dei click‘, in certi casi. Ma perché? Serve un’integrazione delle competenze digitali con quelle giornalistiche, ma anche una separazione dei ruoli e delle professioni. Dipende dai media e va organizzata redazione per redazione. È sufficiente scrollare il sito di BBC News o di un quotidiano straniero per rendersi conto di come essere più professionali: i blog sono distinti dagli articoli, così come i contenuti sponsorizzati (i vecchi publiredazionali cartacei) e gli interventi partecipativi dei lettori. Ho pubblicato recentemente una riflessione su Linkedin, perché in gioco c’è qualcosa di più importante del destino dei singoli, ovvero un diritto alla base di ogni democrazia, un diritto di tutti: il diritto a un’informazione corretta.

Inoltre, lottare da soli non incide. Serve un ‘no’ collettivo. A essere malato è un intero sistema nostrano cui partecipano vari attori: editori, direttori, digital manager, pubblicitari, giornalisti, sindacati. Ho sentito dire ad alcuni anziani giornalisti, che purtroppo sembrano aver rinunciato a formare i più giovani, che forse ci estingueremo. Lancio una provocazione: forse ci estingueremo noi giornalisti italiani, perché in altri Paesi come la Francia e la Germania – seppur con tante difficoltà – è ancora chiaro cosa sia l’informazione. Ma, per fortuna, è ancora chiaro anche a una ‘minoranza silenziosa’ di bravi giornalisti, che si dedicano con onestà alla professione. Da questi ultimi dobbiamo ripartire”.

Giacomo: “Dopo un no, non mi hanno più fatto lavorare”

A completare il quadro ci sono anche quei giovani che sognano di essere giornalisti e che spesso iniziano a scrivere accettando tutti gli incarichi e le regole nella speranza di una qualifica e di uno stipendio. Alcuni di questi ragazzi però non acconsentono proprio a tutto e hanno il coraggio di dire no. Il risultato? Smettono di lavorare. È accaduto a Giacomo Napoli, un giovane che ha rifiutato un incarico e che per questo non sarebbe stato più richiamato. “Durante la magistrale ho iniziato a collaborare con una redazione sportiva (inizialmente come stage universitario), con la quale sono rimasto fino all’ottobre del 2016. Ho lasciato perché ho avuto la possibilità di poter scrivere per un quotidiano della zona di Varese. Lì mi hanno assegnato il calcio dilettantistico e soprattutto il volley. Scrivevo aperture e articoli di 3 o 4 mila battute. Tuttavia, quando mi hanno chiesto di andare a Caronno, per seguire la squadra, ho risposto che quasi due ore di macchina non le avrei fatte. Da quel momento in poi non mi hanno più calcolato. Alla mia richiesta di spiegazioni, mi hanno risposto che per loro si trattava di mancanza di professionalità. Inutile dire che gli animi si sono accesi. Nel primo giornale, on line, mi pagavano 10 euro a pezzo. Nella seconda testata avrebbero dovuto pagarmi a seconda delle battute ma degli oltre 200 euro per un mese di collaborazione non ho visto un centesimo. Ho pensato alla retribuzione e sono passato dalla parte del torto e per quello, ai loro occhi, poco professionale”.

 

 

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