Il lavoro a Napoli: o così o niente

Le ultime statistiche sul lavoro nero a Napoli sono sconcertanti: circa il 40 % dei lavoratori napoletani si troverebbe in una situazione di violazione delle regole. Stando ai dati, la crisi sembra aver approfondito la spaccatura tra due Napoli, quella di chi i diritti ce l’ha e se li tiene stretti, e quella di chi […]

Le ultime statistiche sul lavoro nero a Napoli sono sconcertanti: circa il 40 % dei lavoratori napoletani si troverebbe in una situazione di violazione delle regole.

Stando ai dati, la crisi sembra aver approfondito la spaccatura tra due Napoli, quella di chi i diritti ce l’ha e se li tiene stretti, e quella di chi invece non ha neanche la consapevolezza di poterci aspirare. Molti di quest’ultimi – lavoratori senza contratto, sfruttati, sottopagati – sanno che la scelta è tra due sole alternative: essere dentro il mondo del lavoro a quelle condizioni oppure non avere niente, esserne escluso. Perché pochi datori di lavoro li assumerebbero regolarmente: troppi costi, a loro conviene rischiare la sanzione.

Quando conosco Vincenzo, sono cinque anni che lavora come barista a Fuorigrotta. Lui di anni ne ha 23. È magro come una pertica Vincenzo e ha il viso lungo, la risata facile.

“Vengo da Mugnano (un paese a una decina di chilometri da Napoli, ndr)”, mi racconta, “tutte le mattine prendo l’autobus delle 5.30 per arrivare al bar intorno alle 6.”

Inizia così la sua lunga giornata lavorativa, ogni santo giorno.

Appena entrato dà una pulizia al bancone, spazza, sistema i cornetti e le graffe nella vetrinetta, controlla i rifornimenti. Il bar nel quale lavora non vende tante cose, è specializzato nei caffè, punta tutto su questa attività e il perché è dettato da ragione pratiche. Lì vicino c’è un bar molto più grande, un bar storico, di quelli che hanno un vasto angolo pasticceria, una ricevitoria del lotto e pure una sala con le slot machine. Non c’è modo di competere con un concorrente così se non specializzandosi. E allora il datore di lavoro di Vincenzo – lui lo chiama “il padrone”- ha deciso di puntare tutto solo su questo e di farlo nelle seguenti modalità: primo, facendo il caffè più buono che si possa fare, ossia scegliendo la marca migliore, che il napoletano se ne accorge, non è uno sprovveduto; secondo, offrendolo a un prezzo competitivo, anche di cinque centesimi più basso del concorrente; terzo, portandotelo direttamente in ufficio.

Quest’ultimo è il compito di Vincenzo. Con le sue gambette svelte percorre rapido i marciapiedi delle due grandi strade parallele, via Diocleziano e via Kennedy, dal momento in cui gli uffici aprono, intorno alle otto e mezzo, e fino alla loro chiusura che generalmente è alle sei del pomeriggio.

Se potessimo calcolare i chilometri che Vincenzo percorre durante la sua lunga giornata probabilmente arriveremmo quasi a quelli di una mezza maratona. Lui sembra instancabile. Lo puoi vedere sfrecciare sempre sorridente, con il suo vassoio in equilibrio su una mano, fermarsi solo un istante per scherzare con i negozianti che incrocia una, dieci, cento volte. Sale le scale degli uffici, lascia l’ordinazione, poi incassa il compenso stando ben attento a non sbagliarsi. Se ciò accadesse sarebbe lui a rimetterci e questo non può permetterselo.

Intanto il raggio d’azione cresce, la rapidità del servizio e la sua bontà conquista nuova clientela, il bar serve uffici sempre più lontani. Per il padrone di Vincenzo è una scommessa vinta, una soddisfazione se si pensa che lui, con questa attività, ci fa campare tutta la famiglia. Alla cassa ha messo sua moglie, mentre lui e suo padre stanno dietro al banco quando Vincenzo è fuori. Solo con Vincenzo non ha alcun rapporto di parentela. Con il passare del tempo lo considera sempre meno un estraneo, però un estraneo resta e come tale deve essere trattato, non si scappa.

Appena è stato assunto, Vincenzo guadagnava 100 euro a settimana, ora ne prende 120. Me lo confida una mattina e io lo guardo esterrefatto, non posso crederci. Un impiegato – di quelli a cui lui porta il caffè – guadagna quasi tre volte quello che guadagna lui e lavora la metà delle ore.

“Sono solo 480 euro al mese”, dico tra me. “Così poco!” aggiungo ignorando che, come mi spiega subito dopo, è questa la paga normale di un ragazzo di bar. “Poi ci sono le mance”, mi dice con una punta di orgoglio, “con quelle il mio guadagno cresce.”

“Non lavori troppe ore?” gli chiedo. Lui mi guarda con un sorriso ironico. In realtà non sa neanche di cosa sto parlando.

Racconta che i baristi a Napoli sono tutti i pazzi, che i ritmi di lavoro sono quelli e che qualcuno per sostenerli si impasticca pure, sta pieno di anfetamina.

“Sai quante volte un barista tira giù la leva per il caffè? Due volte per ogni ordinazione, la prima è per sciacquare le condotte della macchina che il padrone lo esige, non sia mai; la seconda è per far scendere il caffè nel bicchiere. Conta che, se in una giornata se ne fanno circa trecento, sono seicento tirate al giorno, tremila minimo in cinque giorni.”

È bravo in matematica Vincenzo, con i calcoli non lo freghi.

“Il lavoro è lavoro”, mi fa senza capire ciò che gli voglio spiegare ossia che ha dei diritti e che dovrebbe farli rispettare. Ma per lui è “o così o niente” e al niente preferisce centomila volte così, anzi si ritiene pure parecchio fortunato. O sei dentro o sei fuori, intende, non esiste una via di mezzo.

“Pensa che io non vado mai in ferie”, mi dice con ironia, “perché ho paura che, se solo mi allontano per qualche giorno, il padrone assume un altro.” “Per me sarebbe la fine”, aggiunge con una smorfia: “no, è una cosa che non posso rischiare”.

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