Il lavoro? Bisogna lavorarci molto

Negli ultimi anni si è parlato talmente tanto di lavoro che il primo rischio che si corre è quello di essere banali, ripetendo sempre le stesse cose, e poi di calciare sempre la palla della responsabilità nel campo avversario. Ma a volte è possibile, sedendosi intorno a un tavolo con le persone giuste, arrivare alla […]

Negli ultimi anni si è parlato talmente tanto di lavoro che il primo rischio che si corre è quello di essere banali, ripetendo sempre le stesse cose, e poi di calciare sempre la palla della responsabilità nel campo avversario. Ma a volte è possibile, sedendosi intorno a un tavolo con le persone giuste, arrivare alla fine di un incontro e accorgersi di avere trascritto sul proprio taccuino alcuni spunti costruttivi. È quello che mi è accaduto il 23 e il 24 marzo a Bologna a Nobìlita, il festival del lavoro promosso da Senza Filtro, dove direttori del personale, formatori, giornalisti e manager hanno dato vita a un panel dedicato a selezione e formazione, che ha affrontato molti aspetti sensibili dell’odierno mercato del lavoro.

Il lavoro è un diritto o un progetto?

Anche chi non è propriamente un esperto del settore può facilmente rendersi conto di come gli eventi che hanno caratterizzato l’ultimo decennio abbiano cambiato radicalmente il mondo del lavoro, spostando paradigmi, sfidando dogmi e minando certezze.

“Avete mai chiesto ai vostri candidati che cosa sia per loro il lavoro?”. È la provocazione di Walter Passerini, firma storica del giornalismo italiano da sempre interessato a economia e lavoro, che suggerisce di chiederlo come prima cosa agli stagisti e agli studenti in alternanza scuola lavoro. È cultura o diritto come per i nostri genitori, oppure è sacrificio e sudore come per i nostri nonni?

Perché uno dei problemi è proprio questo. Prima ancora di parlare di politiche attive, di tutele e garanzie, è importante capire come e cosa pensano gli eventuali destinatari dei vari interventi istituzionali. Se è vero che rispetto ad altri paesi europei in Italia manca una vera e propria cultura dell’orientamento al lavoro (in Francia è addirittura previsto un corso di laurea), è anche vero che stiamo contemporaneamente perdendo di vista la centralità del lavoro stesso.

Se, con buona pace di Hillman, il lavoro non sarà un piacere, l’eccessivo pragmatismo di breve periodo dei nuovi lavoratori, figli di un mondo troppo veloce, si accompagna a una scarsa consapevolezza delle ripercussioni di un atteggiamento individuale nei confronti del lavoro. Questo approccio finisce infatti per minare i principi di tutela (collettiva per definizione), i fondamenti degli accordi e della rappresentatività, con la conseguente crisi di identità e di valori del sindacato.

Precario sarà lei!

Il dato che sorprende, vista la frequenza di utilizzo della parola, è che in Italia il precariato in teoria interessa solo il 14% dei lavoratori. Ma allora che cosa significa precariato? Nella visione di Andrea Barchiesi, CEO e fondatore di Reputation Manager, il concetto di precariato, grazie alla velocità travolgente dei fenomeni sociali, va riferito in primo luogo alle imprese, i cui cicli di vita si sono ridotti drammaticamente.

Uno studio di Innosight sul turnover delle 500 aziende americane con maggiore capitalizzazione (indice Standard & Poor) rileva come nel 1965 la vita media delle imprese fosse di 33 anni. Ma già nel 1990 lo stesso valore era sceso a 20 anni ed è previsto in ulteriore ribasso a 14 anni nel 2026. La conclusione è che oggi il tanto celebrato posto fisso non mette nessuno al riparo da un precariato di fatto.

Eppur si muove

Fortunatamente, in questo scenario a tratti desolante in cui gli studenti scendono in piazza a protestare contro l’alternanza scuola lavoro, l’iniziativa e l’entusiasmo di alcuni professori, presidi e manager di aziende hanno dato vita a progetti molto interessanti.

Alessandro Camilleri ha raccontato come in Hera abbiano rivisto totalmente il loro sistema di competenze, basandosi questa volta sul quadro europeo utilizzato dal ministero dell’istruzione per sviluppare i programmi formativi nelle scuole. Solo così avrebbero parlato una lingua adatta a dialogare con scuole e studenti. È stato un lavoro di quasi due anni che gli ha permesso di costruire percorsi adatti a “entrare” nei programmi didattici.

Anche Luca Vignaga, HR director di Marzotto, ha vissuto un’esperienza molto positiva grazie a percorsi costruiti di concerto con le scuole, che hanno portato i ragazzi a vivere appieno la realtà della fabbrica, con momenti di verifica e feedback continui.
Si è tornati a vedere “padri” che insegnano il mestiere ai figli, trasmettendo loro il valore dell’esperienza ma la grande novità dell’apprendimento 4.0 è la reciprocità: le nuove generazioni infatti possono insegnare molto, soprattutto in ambito digital.

I due HR sono però concordi sul fatto che la buona volontà di pochi non può essere l’unica strada, perché lasciare che gli obiettivi di un progetto italiano così importante come l’alternanza dipendano da una spontanea adesione al progetto di scuole e aziende illuminate è un errore imperdonabile.

Imprese e scuola dovranno dialogare in modo strutturale nel rispetto dei reciproci ruoli, ricordandosi cioè che la scuola non è un’azienda: la velocità che accompagna la nostra esistenza fa sì che oggi si studi per risolvere problemi che ancora non sappiamo essere tali, con strumenti che non sono ancora stati inventati. E se il 40% delle nozioni che si apprendono a scuola saranno “obsolete” ancora prima di terminare il percorso scolastico, risulta ancor più evidente come il compito della scuola non sia quello di fornire competenze ma quello di aprire le menti e formare persone.

Du iu spic inglisc?

Senti oggi fai tu la MOM, poi la posti e mi mandi il link. Ok?

Siamo tutti d’accordo sia sull’odierna necessità di conoscere le lingue straniere – quantomeno l’inglese – sia sul fatto che sono veramente pochi, a tutti i livelli, gli italiani in grado di padroneggiare correttamente l’uso di una lingua straniera. Molti altri invece, cioè la maggioranza, con la caratteristica creatività che contraddistingue noi italiani, sopperiscono alla carenza strutturale di conoscenza della lingua con un abuso di inglesismi, di misteriosi acronimi o addirittura con ardite italianizzazioni di termini inglesi. Tutti strumenti che da soli, però, non sono sufficienti per esprimersi decorosamente nella lingua di Shakespeare.

Il primo ad ammettere questa contradictio in terminis è Marco Cigna, CEO della scuola di John Peter Sloan, il cui compito è quello di trasmettere agli allievi non solo la struttura grammaticale e logica della lingua inglese, ma anche la sua grande capacità di sintesi e la sua musicalità, sia pur diversa dalla nostra lingua, ma che non può essere tradita da chi ostenta slide in inglese lette con pronunce fantozziane.

Proprio nelle riunioni – pardon, meeting – capita di sentire frasi da fare accapponare la pelle: evidenziare come this year is previst, informarsi about the formation, delegare a un collaboratore con preziose indicazioni sulle tempistiche (“you have to gestion the problem, but after the vacancies”) o accampare scuse (“I’m sorry, I’m impegned”) e millantare improbabili esperienze “selvagge” wordwild.

A questo punto, per tutelare la propria immagine, sarebbe più saggio raccogliere l’invito di Annamaria Testa: usare la nostra bella lingua, proteggerne il futuro e la ricchezza invece di creare un linguaggio artefatto che, invece di essere esclusivo, diventa escludente, tradendo la sua funzione comunicativa.

Io so che tu sai che io so

Un elemento molto importante quando si cerca un’occupazione è la propria reputazione. Ma se fino a qualche anno fa molte persone potevano ragionevolmente affermare che il lavoro era una cosa e loro vita privata ne era un’altra, oggi il mondo dei social ha reso questa affermazione quasi priva di significato. Andrea Barchiesi ha spiegato infatti come sia più corretto pensare a un intero ecosistema digitale completo e non a un singolo social. Se prima infatti si poteva considerare LinkedIn un social professionale e Facebook solo relativo alla vita privata, oggi entrambi, che ci piaccia o meno, sono oggetto di valutazione.

Nonostante Facebook e LinkedIn siano presenti in Italia da circa dieci anni, è evidente come non ne sia ancora chiaro il funzionamento. Di certo LinkedIn non è una bacheca in cui pubblicare un CV e ricevere offerte di lavoro, specie se prima non ci si è costruiti nel tempo una rete e una reputazione. Va chiarito però che la reputazione è ciò che altri dicono di noi e non l’arbitraria auto attribuzione di doti mirabolanti di leadership o team working, problem solving et similia, che abbondano in CV e lettere di presentazione. Soprattutto dev’essere chiaro che la reputazione va curata nel tempo con grande accortezza.

In primo luogo occorre essere coerenti, e soprattutto ricordarsi che non si sta parlando nel salotto di casa, ma in un’affollatissima piazza virtuale dove tutto ciò che si pubblica rimane lì per sempre, con il rischio che qualcosa che oggi ha senso ed è condivisibile domani non lo sia più, perché è mutato il contesto.

Mi manda Picone

Insieme alla pizza, ai baffi neri e al mandolino, la raccomandazione fa parte a pieno titolo degli stereotipi che riguardano il Belpaese. Infatti, se il termine inglese recommendation fa riferimento alle referenze, la traduzione italiana ci fa subito pensare al nepotismo più becero.

Ma in un mondo del lavoro che viaggia verso la digitalizzazione, le referenze hanno ancora senso di esistere? Dal panel emerge un dato interessante: l’85% delle persone trova lavoro grazie alle proprie reti personali, in una versione social VIP del “conosco qualcuno”.

Allora, in attesa che si passi da un sistema di reti personali a un sistema di reti professionali al servizio del lavoro e della collettività, meglio forse un CV fatto bene, magari non troppo standardizzato come il CV Europeo – che Walter Passerini definisce una gabbia senz’anima – ma con qualche elemento che permetta di distinguersi rimandando eventuali approfondimenti al colloquio in azienda.

Ad avere bisogno di supporto non sono però solo i giovani in cerca della prima occupazione, ma anche e soprattutto i quarantenni o cinquantenni, poco propensi alla formazione e al cambiamento, che improvvisamente si trovano nella condizione di dover cercare un nuovo posto di lavoro. Neanche le altre fasce deboli, del resto, cadono in piedi. Questo in attesa delle auspicate politiche attive e supporti alla ricollocazione.

Una cosa è certa: c’è molta strada da fare, ma il fatto di sapere in quale direzione procedere è un vantaggio non trascurabile.

 

Photo by fiordirisorse [CC BY-NC-ND 2.0] via Flickr. Photographer: Felicita Russo

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