Il Mismatch italiano puzza ancora di classismo?

Che dai tempi della rivoluzione industriale ci fosse un conflitto latente e sotterraneo tra sviluppo tecnologico e occupazione lo aveva già intuito Karl Marx nei suoi studi sul capitale, e in particolare in quel “frammento sulle macchine” (Grundrisse) che faceva parte dei suoi appunti sull’automazione, ovvero quella parte del capitale che l’impresa investe in tecnologia. […]

Che dai tempi della rivoluzione industriale ci fosse un conflitto latente e sotterraneo tra sviluppo tecnologico e occupazione lo aveva già intuito Karl Marx nei suoi studi sul capitale, e in particolare in quel “frammento sulle macchine” (Grundrisse) che faceva parte dei suoi appunti sull’automazione, ovvero quella parte del capitale che l’impresa investe in tecnologia. Marx si riferiva ovviamente all’automazione della grande fabbrica dell’Ottocento: pensava a un mondo industriale nel quale le macchine avrebbero preso il posto dell’uomo in un crescente divario tra crescita tecnologica e occupazione, ma certo non poteva immaginare che la tecnologia avrebbe preso la forma della robotizzazione, e in seguito della rete internet e della digitalizzazione dei processi produttivi e informatici.

 

Mismatch, un problema che inizia dalla scuola

Eppure, per quanto paia paradossale, il cosiddetto mismatch posto sotto osservazione dall’ultimo rapporto Cio survey 2019, presentato qualche giorno fa alla stampa, mette in drammatica evidenza proprio questo conflitto, questa “discontinuità”, come la definirà il sociologo Aldo Bonomi, tra due mondi paralleli: quello della tecnologia e quello delle competenze professionali. Due mondi che nel caso del mismatch sembra che non si incrocino tanto spesso.

Qualche esempio? Negli ultimi tre anni, spiega il rapporto, la digital transformation delle imprese è passata dal 43% all’80%, ma è proprio dalle pieghe di questa trasformazione che emerge il grido d’allarme della mancanza di competenze: circa il 70% delle imprese intervistate lamentano infatti di non avere a loro disposizione architetti IT ed esperti di sicurezza. È il paradosso italiano, e non solo italiano: alle imprese servono 469.000 tecnici, ma l’offerta formativa non è in grado di soddisfare la domanda. Tutto ciò in un momento in cui le medie e grandi imprese, controcorrente rispetto alla crisi economica, continuano a investire nel digitale.

Maurizio Del Conte, docente di Diritto del Lavoro all’Università Bocconi ed ex presidente dell’Anpal, (Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro), parla volentieri del mismatch con Senza Filtro. “In Italia il fenomeno del mismatch è aggravato dal fatto che i tassi di disoccupazione sono in crescita, e vi è inoltre un cattivo allineamento tra offerta e domanda di lavoro. Per affrontare questa cruciale questione dovremmo mettere mano alla filiera formativa ed educativa, ma oggi non ci sono strumenti in grado di influenzare l’offerta rispetto alla domanda. Mancano ad esempio finanziamenti finalizzati alle richieste che vengono dalle imprese, e poi c’è l’enorme problema dell’orientamento scolastico. Nelle scuole c’è infatti una bassa presenza di orientatori che verifichino le competenze dei giovani. D’altronde la nostra tradizione culturale vede il lavoro professionale come un lavoro di serie B. Se non studi vai al lavoro!, ci dicevano i nostri genitori, come se il lavoro fosse una condanna”.

Mi sta dicendo che la nostra scuola ha mantenuto ancora l’impronta classista di Giovanni Gentile, che prevedeva per le classi dirigenti il liceo classico e scientifico e per il proletariato gli istituti professionali? “Direi proprio di sì. È per questo che dicevo che in Italia la formazione professionale è ancora considerata una formazione di serie B. L’impronta gentiliana è rimasta. Lo si vede anche da qualche rigurgito: il precedente governo ad esempio ha tagliato le risorse che prevedevano il turnover scuola-lavoro. E a mio parere è stato un errore: un bellissimo studio del professor Raineri dimostra che nei paesi dove studio e lavoro convivono la disoccupazione giovanile è bassissima”.

 

Il sociologo Aldo Bonomi: “La tecnologia crea discontinuità e conflitti sociali”

Aldo Bonomi, sociologo del lavoro, non rinuncia a un commento visionario e complesso sul tema del mancato incontro tra domanda e offerta. “Alieno come sono da definizioni anglosassoni, preferisco usare un linguaggio più consono ai meccanismi della storia di lungo periodo studiati da Fernand Braudel. Non mi meraviglia il fenomeno su cui state riflettendo: lo definirei discontinuità”.

“Nel Novecento la discontinuità di saperi e competenze si è verificata in modo traumatico nel passaggio dal mondo agricolo a quello industriale o nel passaggio dal fordismo al postfordismo. E quei passaggi hanno creato conflitti sociali laceranti e un intelletto collettivo sociale, come ad esempio il sindacato. Lo stesso accadrà nei processi in corso. Non è fuori luogo, come hai fatto tu, citare Karl Marx. Lui aveva intuito il processo per cui la tecnologia, se da un lato incorpora saperi e competenze, da un altro lato espelle lavoro e crea conflitti. Con l’avvento delle nuove tecnologie il processo è ancora in atto, e dunque ci saranno di nuovo conflitti. D’altronde, la cronica disoccupazione che caratterizza le società moderne è forse il segnale più evidente di questo processo in atto. Come colmare questa discontinuità? Sarà difficile farlo nel breve periodo, sono processi lunghi che ci impongono di mettere mano appunto all’intelletto collettivo sociale”.

 

Dentro il mismatch: le nuove figure che le aziende cercano (e non trovano

Come si legge nel rapporto Cio survey 2019 commissionato da Kpmg, “se nel mondo imprenditoriale c’è molto nervosismo per la crisi economica, questo nervosismo non esiste per coloro che decidono gli investimenti tecnologici. Anzi. Nelle aziende i budget destinati all’innovazione tecnologica e alla digitalizzazione sono infatti in costante aumento. Il 55% dei Chief Information Officer (CIO) dichiara di aver stanziato nuovi investimenti in IT nell’ultimo anno. È il livello più alto registrato negli ultimi 15 anni. Se si allarga lo sguardo al futuro c’è ottimismo: oltre la metà (52%) dei responsabili degli investimenti IT pensa di continuare ad aumentare il budget per il prossimo anno, incrementando anche l’organico. I settori che investiranno di più in IT sono quelli del Leisure (68%), dei Broadcast/Media (62%) e dei Financial Services (58%), che sono quelli più impattati dalla digital transformation”.

Questa trasformazione, spiegano gli analisti di Kpmg, ha subito un rallentamento soltanto nel 2010, quando tutto il mondo occidentale, compresa l’Europa e l’Italia, sono stati aggrediti dalla più grave crisi recessiva del dopoguerra.

Quali sono le tecnologie su cui puntano di più le aziende? “Un po’ a sorpresa, il cloud è la tecnologia su cui le aziende stanno investendo di più (per l’83%). Secondo gli esperti KPMG il dato non sorprende, perché adesso si stanno concretizzando una serie di investimenti di cui fino a poco tempo fa si parlava solamente. L’Artificial Intelligence e il machine learning (41%), l’Internet of Things (39%), Robotic Process Automation (39%) e le piattaforme on-demand (38%) sono le altre tecnologie su cui stanno investendo le aziende per portare a compimento la digitalizzazione dei loro processi. Sebbene solo il 4% delle organizzazioni stiano lanciando progetti pilota in quantum computing, si osserva che le aziende tecnologiche stanno facendo a gara per investire in questa area per liberare tutto il potenziale in settori come quello farmaceutico, finanziario ed energetico”.

Gli specialisti di Kpmg sostengono tuttavia che “disporre delle giuste competenze in queste aree sta però diventando sempre più complesso. La carenza di capacità registrata quest’anno è la più alta dal 2008 e rischia di diventare un freno per la crescita. Le capacità ricercate che scarseggiano maggiormente sono, infatti, relative all’analisi dei big data (44%) alla sicurezza informatica (39%) e all’intelligenza artificiale (39%). Questo problema è particolarmente sentito nel settore delle istituzioni pubbliche (81%)”.

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