Il primo e l’ultimo giorno, rito o consuetudine .

Quando abitavo in centro città, ero solito fare colazione in un bar vicino casa, dove spendevo sempre un po’ di tempo, leggendo il giornale,  e sempre alla stessa ora, scarto di massimo un minuto, entrava un signore, ben vestito, con una cartellina nera sottobraccio. Non saprei dire che lavoro facesse, potrei tentare di indovinare ma non […]

Quando abitavo in centro città, ero solito fare colazione in un bar vicino casa, dove spendevo sempre un po’ di tempo, leggendo il giornale,  e sempre alla stessa ora, scarto di massimo un minuto, entrava un signore, ben vestito, con una cartellina nera sottobraccio. Non saprei dire che lavoro facesse, potrei tentare di indovinare ma non è importante. Ciò che attirava la mia attenzione era il suo agire. Si puliva i piedi due volte sullo stoino esterno, appena entrato posava la cartellina nera in una posizione specifica di una specifica mensola, si rivolgeva alla signora delle paste togliendosi il cappello e posandolo sul tavolo vicino alla mensola  prendeva il piattino con  sopra una pasta con l’uvetta che questa aveva già preparato.  Si sedeva ad un tavolo tondo,  sulla sedia più vicina la banco, si alzava subito dopo e si sedeva su quella accanto più centrale, nel frattempo la signora gli portava il caffè.

Ogni mattina così. Il problema fu che guardando lui mi misi a riflettere su di me e mi resi conto che, non con la stessa maniaca precisione, ma anche io seguivo un rituale  quando entravo in quel bar. Stesso tavolo, stesso caffè, stesso giornale, stessi tempi, e pensare che mi ritenevo una persona fuori dagli schemi.  Siamo tutti, coscienti o no, succubi di rituali. Uso il termine rituale perché si addice di più a ciò di cui stiamo parlando. Il termine rito spesso viene utilizzato come sinonimo ma sono due cose diverse, anzi probabilmente sarebbe più corretto parlare di consuetudini, ripetizioni di azioni che mettiamo in atto per un bisogno di sicurezza. Lo impariamo da bambini, quante volte vi sarà capitato di sentire la richiesta di vostro figlio o nipote di raccontare per la decima volta la stessa storia e guai se cambiate una parola. Questo trasmette stabilità, sicurezza, senso di protezione. Quindi nessuno ne è immune.

Il rito è qualcosa di diverso, il rito è quella ripetizione di atti e parole, spesso di racconti,  che fa nascere dentro di noi una dimensione parallela in cui viviamo momenti accaduti che il rito vuole e si propone di  evocare. Si capisce subito che non è ciò che ho osservato nel signore al bar.

Rituali e consuetudini, azioni ripetute sono, quindi, ovunque. Da uomo di azienda li osservo anche sul posto di lavoro. In particolare ci sono dei momenti, dei tratti,  che ci rimangono più impressi di altri e fra questi, penso di non sbagliarmi, ad indicare quelli di inizio e di fine. Quando siamo all’inizio di qualcosa o al suo termine i nostri sensi sono più sensibili, l’emozione ci prende, registriamo ed immagazziniamo e ricordiamo. Pensate al primo giorno di lavoro e all’ultimo. Il rituale comincia da quando ci si sveglia, ci si prepara, si fa un respiro profondo di fronte allo specchio, appena dopo l’ultimo ritocco, e si va ad affrontare il momento.  Sono certo che ognuno di noi ha in mente moltissime sequenze di azioni  che ha visto accadere sempre uguali in questi due momenti. Sempre uguali ma tutte diverse fra loro perché diversi sono i contesti. Diverso sarà se entro a lavoro come stagista o come dirigente, se ne esco per andare in pensione o per una posizione migliore o costretto da una casa integrazione.

Potrebbe essere che il primo giorno  ci sia  il giro di presentazione dei colleghi, la indicazione del posto di lavoro, qualche spiegazione di regole, il primo caffè con colleghi, il cercare qualcuno che ha la sindrome del buon samaritano e che volentieri si presterà a spiegare tutto e a dare consigli su chi evitare e da chi stare in guardia e chi è l’amante di chi. O forse si viene subito gettati dove si deve lavorare, sia questa una scrivania o una macchina utensile e vediamo se sopravvive. Sicuramente una giornata interminabile o forse arriva sera senza nemmeno accorgersene. Il mio ultimo giorno, la pulizia della scrivania, il lasciare qualcosa di nostro  a chi si è ritenuto “amico”, così, per ricordo. Spegnere per l’ultima volta il computer e forse non riuscire a sollevare il dito dal tasto off per qualche secondo.    Rituali tanti, tutti diversi, ma presenti. Se volessimo potremmo anche catalogarli e suddividerli in classi di  comportamento, ma non credo che varrebbe la pena dello sforzo.

Vale pena però fare un piccolo sforzo e pensare a ciò che è comune. Ogni primo giorno in ogni contesto ed ogni ultimo giorno di lavoro, in ogni contesto, tutti facciamo un cosa.  Esiste un rituale che ci accomuna, tutti.  Passiamo da una porta. Una porta di ingresso o di uscita, ma un passaggio, in ogni caso, in un altro mondo, in un altra dimensione, completamente diversa da quella in cui ho vissuto prima. Regole diverse, persone diverse, tempi diversi. Il rituale che ognuno di noi mette in atto è quindi interiore. La preparazione a quel passaggio per un atterraggio possibilmente morbido.  L’insieme di articolazione di pensieri, messa in ordine di informazioni, revisione di errori commessi, auto-convincimento che “andrà bene”. Un rituale che inizia non nel passaggio ma nel momento che ho deciso o che ho saputo che dovrò passare quella porta, per entrare o per uscire. Da quel momento, ogni giorno, tutti i giorni, interiormente metto in ordine i pensieri e li confondo di nuovo, mi costruisco e mi destrutturo e mi costruisco di nuovo. Fino a che non arrivo davanti, finalmente e forse anche fatalmente, a quella porta che attraverso ma forse non guardo, perché, come h sempre fatto per entrare e per uscire il mio sguardo è sempre stato proiettato al di la di quell’oggetto separatore.

Ma se fosse propio la porta in se ad insegnarci qualcosa ?

Fino a che sono stato studente abitavo in una grande casa in campagna che aveva, come tutte le case, una porta antica, in legno. Avrò usato quella porta per entrare ed uscire di casa forse milioni di volte, ma l’avevo veramente mai considerata come porta nella sua essenza ? Un giorno si ruppe la serratura, la porta non funzionava più per il suo scopo di utilità. Nella fase subito seguita, di comprendere come mai non funzionava più, l’attenzione cadde sulla porta in sé. Non era più uno strumento, ma era un oggetto. Notai allora che era verde, ma non un verde comune, con tonalità dal chiaro allo scuro, evidentemente fatte ad arte, era intagliata con delle piramidi che davano un effetto tridimensionale, una vera opera di artigianato. Aveva due battenti in ferro con ognuno una testa di leone maschio, nella parte alta un altro intaglio a raffigurare un rosone; un’altra opera d’arte e sullo stipite in alto uno stemma, probabilmente della famiglia. Subito, senza riflettere partirono, mille domande nella mia mente: chi la aveva costruita, quando, da dove veniva, da quanto tempo era lì, cosa significavano i simboli che raffigurava?Avevo richiamato quell’oggetto all’essere, ora esisteva per me, non più come una cosa che usavo, ma come una cosa che esisteva, aveva una storia ed un significato, non era più trasparente. Mi aveva per la prima volta insegnato qualcosa, mi aveva insegnato a vedere el cose e  quindi le persone nella loro essenza.

I rituali ci prendono, ci catturano e ci servono perché da questi ed in questi ci sentiamo in qualche modo protetti, ma quante volte accade che ci offuscano e ci fanno perdere il senso di cosa ci sta intorno. Tutto è relazione, il lavoro non fa eccezione.  Richiamare le persone all’essere, che significa anche non vedere gli altri come cose da usare ma come persone in se, come altro da me, avendo la forza di  rompere la gabbia della ritualità come nel caso della mia porta di casa, potrebbe far si che quel primo giorno di lavoro diventi l’inizio di una grande carriera e quell’ultimo una grande opportunità.

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