Nella Fase 1, quella dell’esplosione della pandemia da SARS-CoV-2, che ci ha fatto conoscere da vicino la malattia COVID-19 e ha comportato un ferreo lockdown nazionale, l’immagine dell’infermiera stanca è uno dei simboli che la nostra memoria tratterà per più tempo come immagine viva. Una lavoratrice che fa semplicemente il suo dovere. Che sceglie di […]
Giovani cresciuti a cavallo delle crisi: il COVID-19 li ha resi ancora più precari
L’impatto economico del coronavirus è già evidente, e lo sarà probabilmente ancora di più nelle prossime settimane. Ci ha colpiti tutti – nessuno escluso – ma senza alcun dubbio i più fragili di fronte a questa nuova situazione di crisi sono i liberi professionisti, che rappresentano per antonomasia i lavoratori meno tutelati. Qualsiasi sia il […]
L’impatto economico del coronavirus è già evidente, e lo sarà probabilmente ancora di più nelle prossime settimane. Ci ha colpiti tutti – nessuno escluso – ma senza alcun dubbio i più fragili di fronte a questa nuova situazione di crisi sono i liberi professionisti, che rappresentano per antonomasia i lavoratori meno tutelati. Qualsiasi sia il loro ambito operativo, l’esercito delle partite Iva, dei lavoratori a chiamata e a prestazione occasionale, si trova più che mai bloccato, intrappolato in una bolla di incertezze e disoccupazione, in attesa di ricevere maggiori tutele e garanzie, tra una disdetta di un incarico e l’altra.
Per comprendere meglio le loro attuali prospettive, colme di timori, ma anche di aspettative e di proposte, abbiamo raccolto le testimonianze di alcuni professionisti operanti in diversi settori. Testimoni giovani – tutti nati tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta – che non rappresentano solo la voce dei precari, ma anche di quella che è già stata rinominata la generazione delle due crisi in dieci anni. Sono quelli cresciuti tra gli strascichi economici del crollo finanziario del 2008 e lo spettro della precarietà, quelli che hanno imparato a essere chiamati expat perché suona meglio che “migranti”, ma che fino a ora – nonostante tutto – in Italia hanno provato a rimanerci e a intraprendere. Chi più di loro, dunque, può farci capire che forse – oggi più che mai – stiamo sì attraversando la stessa tempesta, ma pur sempre da barche diverse?
Teatri: i primi a chiudere e gli ultimi a riaprire
Alessandro Blasioli, 28 anni, abruzzese, ha fatto della sua passione e dei suoi studi teatrali non solo la sua ragione di vita, ma anche il suo strumento di critica sociale. La recitazione, con monologhi e canzoni, sono diventati il suo modo di dar voce a tante vite e vicende della nostra contemporaneità, dai terremotati suoi conterranei, con il pluripremiato Questa è casa mia, alle insidie di Internet, con DPR – Web sommerso. Il palco è per lui soprattutto strumento di divulgazione e di riflessione, oltre che di svago. Ma in queste settimane di limitazioni, come per tutti i punti di ritrovo culturali, le luci dei teatri sono state tra le prime a doversi spegnere. E, in quanto luoghi di aggregazione, ormai ci è chiaro che saranno anche tra le ultime a potersi riaccendere. E così non si è chiuso solo il sipario, ma anche il circuito lavorativo di Alessandro, che ora è in bilico, in attesa; naviga a vista, senza sapere quando riprenderà, ma senza nemmeno delle tutele all’orizzonte.
Noi lo abbiamo raggiunto telefonicamente nel suo appartamento di Roma, che condivide con la collega Sara, ma che come lui stesso ci racconta non sa fino a quanto ancora potrà permettersi. «Nonostante in quanto libero professionista dello spettacolo io lavori a prestazione occasionale con ritenuta d’acconto o contratti a chiamata, sono rientrato comunque tra gli aventi diritto al famoso bonus dei 600 euro. Che ovviamente ho richiesto, ma che – come tutti i miei colleghi – ad oggi non ho ancora ricevuto.»
Di fatto, da marzo gli unici incassi possibili – a parte gli arretrati di alcuni spettacoli dello scorso anno – sono gli aiuti che può ricevere dalla sua famiglia, da cui non esclude di dover tornare, se la situazione non accennerà a migliorare. «Anche se dovesse finalmente arrivarmi il sussidio richiesto, mi aiuterebbe a malapena a coprirmi un mese di affitto. È chiaro che così non potrei andare avanti a lungo. Certo che però tornare a casa significherebbe davvero fare un grande passo indietro.»
Ad alimentare il suo timore, tuttavia, non c’è solo il rischio di dover azzerare tutti gli sforzi di una gavetta lunga anni, ma anche l’incertezza della ricostruzione. «Non abbiamo idea di quando e come potremo ripartire». Già il teatro aveva subito un grande contraccolpo a causa della crisi dello scorso decennio; ora, anche se si riuscisse a riaprire con quelli che Alessandro definisce dei – seppur necessari – “metodi di biocontenimento”, non si infrangerebbe solo la sua magia, ma si darebbe il colpo definitivo a un settore già traballante, perlomeno nel circuito dei teatri off, ossia delle miriadi di piccole realtà indipendenti. «Prendiamo Roma: è piena di microteatri da 50 posti, che se dovessero riaprire a numero ridotto non potrebbero più vivere. Senza dimenticarci che potremmo anche riuscire a fare Romeo e Giulietta con le mascherine, ma bisognerà vedere se il pubblico sarà ancora disponibile a spendere per venire a teatro».
Ecco perché secondo lui, per far tornare a funzionare il suo settore, attuare tutte le misure necessarie per convivere con il virus sarà necessario, ma non sufficiente. «Bisognerebbe cercare di riequilibrare la situazione economica in generale. D’altra parte, però, con la politica a cui è stata abituata l’Italia nei passati decenni, abbiamo sempre assistito a una storia di corruzione: in un momento così delicato ho persino paura di chiedere al Governo di prendere in mano la situazione.»
Con delle prospettive così incerte davanti a sé è inevitabile cercare delle soluzioni alternative: «Stiamo momentaneamente brancolando nel buio. Certo, i contributi possono aiutarci, ma lo Stato può sostenerci fino a un certo punto.» Nel frattempo, in attesa di risposte, Alessandro, come molti suoi colleghi, non è rimasto con le mani in mano. «Nonostante fino a pochi mesi fa – e tutt’ora per molti – sembrava quasi un insulto parlare di teatro in video, ci stiamo buttando sul digitale per crearci una finestra tramite cui farci guardare.» Lui, ad esempio, ha iniziato a collaborare con il presidio di Chieti dell’associazione Libera per creare un progetto in memoria delle vittime innocenti di mafia. «Ci stiamo mettendo in gioco per cercare di far fruttare con nuove forme quanto fatto e costruito finora».
Grazie ai video sta quindi trovando il modo di non abbandonare nemmeno in un momento di blocco totale quel fermento di critica sociale che ha sempre fatto da motore al suo teatro civile, che chissà, un giorno forse potrà raccontare proprio questo nostro tempo sospeso. «Ne parleranno i libri di storia, lo racconteremo ai nostri nipoti. È vero che oggi tutti sappiamo tutto, ma, al di là del fattore umano e dei dati statistici, a mio avviso potrebbe essere interessante rispiegare la situazione dal punto di vista delle disattenzioni e dei problemi che questo virus sta facendo venire a galla. Il modo in cui è stata – in parte – mal gestita l’emergenza non è poi così lontano dal contesto del post-sisma che racconto da anni in Questa è casa mia.»
Non si smette di comunicare ma cambiano i contenuti (e i mestieri)
Non è fermo solo il teatro, ma tutto il mondo della cultura e degli eventi. Ciò significa migliaia di lavoratori: dai tecnici agli assistenti, passando per i manutentori delle strutture, ora disoccupati o in cassa integrazione. Per non parlare poi di tutte quelle figure sempre più necessarie quanto ibride. Come quella di Renata Savo, critica teatrale che da alcuni anni si occupa con successo anche di curare la comunicazione di varie compagnie di teatro e danza, nonché di festival nazionali e internazionali. Tant’è che a maggio 2019 aveva deciso di aprire la partita Iva e creare il proprio ufficio stampa.
«Per lo Stato sono una giornalista. La mia figura, molto specializzata, non è infatti riconosciuta nel grande mare magnum delle professioni italiane. Questo è un problema di tutto il sistema lavoro in Italia, che a mio avviso è rimasto legato a etichette obsolete. Io, ad esempio, comunico eventi e attività legate al mondo del teatro e della danza, ma sono al contempo una sorta di networker delle arti performative che funge da collante tra gli artisti e gli operatori. Una figura che va al di là del giornalismo, ma che di per sé non è inquadrata.»
L’incertezza che sta vivendo in questi giorni Renata non è dovuta solo alla mancanza di un riconoscimento da parte dello Stato di figure professionali più nuove e moderne come la sua, ma anche ai dubbi sul provvedimento che potrebbe garantirle un aiuto economico. «Dallo scorso anno sono iscritta all’INPGI, la cassa previdenziale dell’Ordine dei Giornalisti, che ha previsto – come l’INPS – un bonus di 600 euro per il mese di aprile». Nei criteri che stabiliscono i beneficiari si fa riferimento però al reddito dell’ultimo triennio di lavoro. «Cosa succeda per una persona come me, che è iscritta da meno tempo, ancora nessuno me lo ha saputo dire. Quindi nonostante io ad oggi abbia perso diverse migliaia di euro, ancora non è chiaro se rientri in questa misura. L’unica mia speranza sta nel fatto – come mi ha spiegato un sindacalista – che il testo del provvedimento è talmente vago che la mia richiesta potrebbe essere accolta, anche se è molto difficile. Dipende dalle interpretazioni».
Per ora la sua unica consolazione arriva da un provvedimento della Regione Campania che prevede un contributo una tantum di 1.000 euro per i professionisti. «Mi potrebbe dare veramente una boccata d’ossigeno, anche se è meno della metà di quello che avrei guadagnato in un mese. Inoltre, forse a giugno avrò la possibilità di ricevere un altro bonus di 500 euro dall’INPGI, ma dipenderà dalla perdita effettiva avuta in questi mesi, che ora non posso ancora conteggiare.»
Di fatto, l’aiuto più grande arriva dalla sua famiglia. «Mi ritengo molto fortunata perché mia madre, essendo insegnante, è una delle poche categorie che continua a lavorare, e io ora vivo con lei in una casa di nostra proprietà. Sono tornata ad Amalfi, nonostante mi fossi appena trasferita in affitto da Roma a Napoli per poter seguire un importante progetto di una fondazione con cui ho tutt’ora un contratto di consulenza attivo, ma che di fatto mi ha lasciata in stand-by dal 9 marzo. In questa situazione ho capito inoltre che persino avere degli appartamenti di famiglia che si possono affittare non è più una garanzia. Infatti, in condizioni di povertà assoluta come questa, non è nemmeno sicuro che l’inquilino ti paghi l’affitto».
In questo momento, per lei, l’incertezza economica, oltre che professionale, è totale. «La stima delle perdite non è ancora chiara, perché la gran parte dei miei progetti al momento sono sospesi, non annullati. Se tutto quello che avevo in programma da qui all’estate venisse cancellato perderei almeno 9.000 euro nell’arco di 5 mesi. Senza contare che, se la situazione non si sbloccasse entro l’autunno, vedrei cancellati anche gli ingaggi già presi per i mesi successivi».
Ma come fa a essere ferma una professione che si occupa di comunicazione culturale proprio ora che veniamo bombardati da mille proposte di intrattenimento da tutti i canali possibili? Innanzitutto perché i festival per cui lavorava abitualmente, così come tutti gli eventi che prevedono un assembramento, non sapendo quando potranno ripartire, al momento non possono neanche essere organizzati da dietro le quinte; ma anche e soprattutto perché tutti gli eventi che al momento vengono realizzati online e in streaming sono perlopiù gratuiti, e quindi non remunerativi per chi lavora nel settore. «La domanda oggi è proprio: quanto lavoro reale ci rimarrà dopo questa esperienza? Quante di queste iniziative potranno essere finanziate per essere portate avanti?»
La risposta più immediata potrebbe essere rendere questi contenuti disponibili a pagamento. Tra chi ci sta già pensando concretamente c’è anche una grande multinazionale digitale – che fino a ora operava in un settore completamente diverso come quello dell’hosting – con cui la stessa Renata sta collaborando per creare un progetto di teatro online totalmente nuovo, aperto a un’ampia platea virtuale e internazionale a un prezzo accessibile.
Che si tratti di aziende o di singoli professionisti, la parola chiave al momento pare dunque essere reinventarsi. «Sto allargando i miei orizzonti, pur non dimenticando le mie radici professionali nel mondo del teatro, dove le prospettive per ora non sono confortanti. Per questo sto studiando per ampliare le mie competenze nell’ambito del digital marketing, che è un settore che potrà funzionare anche in casi di isolamento come questo. Il mio obiettivo in questo momento è fertilizzare un terreno che possa fruttarmi in futuro come una garanzia, cercando di tenere aperta la partita Iva e confidando in un ritorno alla normalità e al mondo delle arti performative. Perché la mia vita, prima, mi piaceva troppo».
Gli eventi internazionali chiusi ancora prima del lockdown
Una delle inossidabili verità cui questo virus ci ha messo di fronte è quanto tutti gli aspetti delle nostre società – dalla salute all’economia – siano strettamente collegati da un capo all’altro del mondo. Non è un caso, dunque, che tra i primi professionisti a risentire dei blocchi produttivi ci siano coloro i quali lavorano in ambito internazionale. Tra questi sicuramente spiccano gli interpreti e i traduttori.
Beatrice De Fanti e Giorgia De Zen si sono laureate entrambe in Interpretazione di Conferenza alla Scuola Superiore di Interpreti e Traduttori di Trieste nel marzo 2018. Come la gran parte dei loro colleghi lavorano da freelance, nonostante le grandi difficoltà che deve affrontare ogni giorno questa professione: l’unica con un percorso di laurea specifico e altamente selettivo (i test d’ingresso hanno le stesse percentuali di scarto di quelli di medicina), ma senza un albo di categoria. Entrambe, però, con tenacia e coraggio sono riuscite a ricavarsi la loro nicchia. Così sia Beatrice, che si è cimentata nella libera professione già durante gli ultimi anni di università, che Giorgia, la quale ha lasciato il posto fisso in un’importante multinazionale per provare a mettere in pratica i propri studi, si stavano costruendo il loro giro di clienti ai quali fornire servizio di interpretazione, soprattutto nell’ambito fieristico. Perlomeno fino allo scorso febbraio.
La loro categoria è stata infatti tra le prime a testimoniare l’effetto globale della pandemia, dovendosi fermare a causa degli annullamenti di fiere ed eventi internazionali ancor prima che l’Italia diventasse zona rossa. Tutte le trattative commerciali che prevedevano l’arrivo di ospiti stranieri, infatti, sono state preventivamente cancellate quando ancora la parola “lockdown” non era entrata nel nostro vocabolario quotidiano. «Mi ricordo», spiega Giorgia, la quale ha aperto la partita Iva proprio il 7 gennaio 2020, «che già intorno al 20 gennaio, mentre lavoravo al salone Vicenzaoro, si sentiva parlare di questo virus in Cina. Da lì a un mese io e i miei clienti saremmo dovuti andare a una fiera a Hong Kong. Ci siamo tenuti costantemente in contatto finché abbiamo avuto la conferma che sarebbe stata rinviata momentaneamente a maggio. Alla fine, invece, è saltato tutto ovunque.»
Una situazione pressoché confermata da Beatrice, che lavora tra il mercato italiano e quello tedesco, e subito dopo quel fatidico 22 febbraio si è vista annullare di colpo la sua agenda per il 2020. «A gennaio la mia situazione era ancora tranquilla, anzi avevo già un sacco di progetti per la primavera. Poi, non appena l’epidemia è arrivata in Italia, è andato tutto sempre peggio. All’inizio è stato il caos totale. Il primo incarico che avevo in programma sarebbe stato una fiera del vino a Düsseldorf a metà marzo. Dal momento che la gran parte degli espositori sarebbe stata italiana, però, l’organizzazione è andata in tilt. Regnava una situazione di incertezza. Poi l’evento è stato cancellato, come tutti gli altri».
Grazie alle competenze acquisite con i loro studi, gli interpreti sono una categoria piuttosto versatile, ma questa volta la loro poliedricità non basta. Da quando è iniziata l’emergenza sono state sospese anche le visite alla Illy Caffè di Trieste, dove Beatrice lavora come guida aziendale per ospiti di ogni nazionalità. E perfino i lavori di traduzione che svolge in remoto per un’azienda produttrice di menù elettronici sono stati sospesi. «Questa collaborazione all’inizio rappresentava un’ancora di salvezza anche mentre mi vedevo annullare tutti gli eventi pubblici. Poi con il lockdown di metà marzo è venuta a mancare anche questa mia unica certezza lavorativa».
L’unica piccola garanzia, per Giorgia, è rappresentata invece dai suoi corsi di lingue, momentaneamente spostati online, anche se in misura drasticamente ridotta. «Molti dei miei corsisti sono adulti poco digitalizzati, perciò sto continuando principalmente con gli studenti più giovani. Praticamente un terzo. In tutto lavorerò 7 ore a settimana e, considerato che il pagamento è orario, non è un regime sostenibile».
Nonostante la confusione iniziale e il crash dell’ormai celebre “Click Day”, entrambe hanno potuto richiedere il contributo di 600 euro, che pare però una goccia nell’oceano delle continue perdite economiche che stanno affrontando da due mesi a questa parte. «Sembra brutto dire che non mi aiutino a far quasi nulla, ma concretamente è così», ci spiega Beatrice, che per quanto faccia fatica a quantificare i danni effettivi subiti non esita a confermare una perdita di almeno il 50% rispetto allo scorso anno. Per chi come lei rientra nei regimi minimi si tratta di cifre di sopravvivenza. «Non sono ancora arrivata al punto di chiedere aiuto alla mia famiglia o a tornarmene a casa per smettere di pagare l’affitto, però sto già pensando di andare un paio di mesi in Germania a lavorare nella gelateria dei miei genitori per mettere da parte un po’ di risparmi. Sono tutti pensieri che prima non avevo. Lavoravo bene nel mio ambito e non avrei mai pensato di dover ripiegare su altro.»
L’attività dei genitori in Germania non è solo una possibile ancora di salvezza per Beatrice, ma anche motivo di confronto con le misure adottate nel nostro Paese. «In Italia il bonus dei 600 euro viene dato sia ai liberi professionisti che alle piccole attività con dipendenti a carico. In Germania i liberi professionisti hanno ricevuto un contributo una tantum di 5.000 euro, che è salito 9.000 per le imprese con un massimo di 5 dipendenti e a 15.000 per quelle con più di 5 dipendenti. Non dico di darci 5.000 euro come in Germania, ma poter ricevere un contributo leggermente più alto aiuterebbe. Avrei bisogno di un sostegno effettivo per coprire l’affitto e le utenze, anche se a mio avviso le bollette ora non andrebbero fatte pagare. Siamo costretti a stare tutto il giorno a casa e perciò incrementiamo i consumi, pur non potendo guadagnare nulla per sostenerli. L’ideale sarebbe sospendere il contributo INPS, come si paventava all’inizio. Sarebbe un vero sollievo, perché per noi a regime forfettario, più che le imposte, è proprio l’INPS la maggiore spesa. Eliminare il contributo 2020 credo che ci darebbe un respiro talmente ampio da non rendere nemmeno necessario il versamento dei 600 euro».
La possibilità di trasferirsi definitivamente all’estero, per il momento, rimane però l’ultima spiaggia per entrambe. «Io vorrei poter rimanere in Italia e continuare a dare una mano alla mia economia, sennò sarei già andata all’estero anche prima», incalza Giorgia. «Certo che, se la situazione da qui a un anno non cambia, inevitabilmente ci dovrò pensare.» Nel frattempo sfruttano queste giornate di blocco forzato per cercare nuovi clienti, mettere a posto i propri curricula o, come fa Giorgia, seguire corsi di formazione per possibili sbocchi alternativi.
Iniziare a costruirsi un’altra possibilità pare essere un obbligo di sopravvivenza, anche perché il settore fieristico al momento brancola totalmente nel buio, con tutti gli eventi rinviati al 2021. Per progettarsi un futuro stabile, però, l’aiuto concreto delle istituzioni sarebbe per entrambe più che auspicabile. «Una buona idea sarebbe incentivare strutturalmente lo sviluppo digitale. Ad esempio creando una piattaforma che permetta lo scambio tra domanda e offerta, dove anche noi professionisti delle lingue potremmo prestare servizio di traduzione cataloghi», suggerisce Giorgia, che ha deciso di muoversi autonomamente per aprirsi nuove strade, «pur di non rimanere bendata con le mani in mano». Nel frattempo, a entrambe basterebbe solo iniziare a ricevere delle risposte.
Una coppia di wedding planner
Il caso 1 di Codogno non ha solamente portato in Europa lo spettro di quella che sembrava una lontana minaccia asiatica, ma soprattutto, almeno all’inizio, ha rivestito l’Italia del ruolo di “untore”. Ecco che quindi, mentre noi continuavamo la vita di sempre pensando che il problema “solo cinese” ora fosse “solo lombardo”, all’estero iniziavano a pensarci due volte prima di venire in Italia.
Il primo ad averne risentito, da questo punto di vista, è stato ovviamente il settore turistico. Un danno immenso per un Paese come l’Italia, dove l’intera filiera del turismo vale circa il 14% del Pil e alimenta una miriade di attività collaterali, dalla gastronomia al wedding.
C’è chi addirittura riesce a fare impresa basandosi quasi totalmente sui rapporti con la clientela estera, come Michele e Francesca, i wedding planner romani che abbiamo intervistato, coppia nella vita e nel lavoro. Insieme, grazie agli studi e alle esperienze lavorative di lei, nonché alle lingue e le capacità fotografiche di lui, hanno costruito una fervente attività di wedding planning, amata soprattutto dai turisti che scelgono di venire nella «Bella Italia» – come la chiamano loro – proprio per sposarsi.
Ma gli stranieri sono stati anche tra i primi a temere gli spostamenti all’interno del nostro Paese. Così, quando ancora noi affollavamo le piste da sci e bevevamo spritz nelle vie della movida, la sposa dall’Irlanda chiamava per dire che quest’estate i suoi parenti avevano paura di venire alle celebrazioni, e quella americana cancellava l’evento. «Dopo il primo decreto ci sono stati i problemi maggiori. In quel momento è stato annunciato che non si sarebbero potuti fare matrimoni nemmeno a porte chiuse, ma non c’era ancora una regola omogenea. Ad esempio: il Comune di Roma all’inizio ha continuato a permettere i riti civili al Campidoglio a chi non poteva rimandare la data per motivi urgenti. Poi la cosa si è bloccata definitivamente».
La grande difficoltà, ora come allora, rimane quella di dare risposte. E in un’attività prettamente organizzativa l’incertezza può essere devastante. «Ovviamente noi non potevamo dare indicazioni scientifiche, ma abbiamo comunque consigliato di spostare le date per precauzione. Ora consigliamo direttamente di sposarsi l’anno prossimo.» Dal punto di vista economico è controproducente rinviare tutto di un anno, ma la situazione attuale non offre altre possibilità. «Nel frattempo speriamo che il virus possa attenuarsi d’estate, così che qualche nuova coppia possa iniziare a pensare di pianificare il proprio matrimonio e i propri spostamenti per il prossimo anno. Perché se non ci arrivano nuove richieste entro quest’anno o i primi mesi del 2021, significherebbe avere un altro anno in perdita. Nel 2019 abbiamo fatto una cinquantina di eventi, e per il 2021 ne contiamo al momento 12, tutti provenienti da rinvii. Per non parlare del vuoto di quest’anno. La ripresa vera arriverebbe quindi nel 2022, ma è davvero tanto avanti».
Ad oggi è impossibile prevedere quando riprenderà ogni sorta di manifestazione pubblica, e i matrimoni sono un assembramento per eccellenza. Anzi: si tratta di un’attività legata al mondo degli eventi, ma anche a quello della ristorazione. «Gli operatori dell’indotto sono tutti disperati, oltre che bloccati. Noi, per lo meno, non abbiamo spese fisse di affitto perché abbiamo sempre lavorato da casa, ma le strutture stanno avendo costi enormi, tra affitti e manutenzione. Alcune di queste location, peraltro, essendo società, non rientrano neanche tra i beneficiari dei 600 euro», ci spiegano i titolari dell’agenzia, che dal canto loro si sentono fortunati ad aver almeno potuto far richiesta del bonus. Tuttavia si tratterà di un contributo comunque minimo, considerate le tasse che incombono nonostante gli incassi zero.
Rimanere così fermi è pesante: «Come fai a stare un anno intero senza guadagnare?» Ecco perché stanno già pensando a un piano B. «Se la situazione andrà avanti a lungo come previsto, ci dedicheremo alla formazione online, sia insegnando nell’ambito del wedding che seguendo a nostra volta dei corsi per approfondire nuovi argomenti da sfruttare professionalmente. Inoltre stiamo valutando anche progetti paralleli sempre nell’ambito del digitale, come ad esempio aprire un nostro e-commerce, che comunque potremmo continuare a seguire anche quando riprenderebbero i matrimoni».
Ogni nuova soluzione presuppone, però, degli investimenti iniziali, e in questo momento non c’è alcun tipo di aiuto concreto per avviare nuove attività. «Per andare avanti, in pratica, stiamo attingendo esclusivamente ai nostri risparmi. Per questo sarebbero utili dei finanziamenti a fondo perduto per rilanciare il settore, magari incentivando la promozione. Un secondo aiuto sarebbe sicuramente un alleggerimento fiscale. È vero che la scadenza del modello Unico è stata rinviata al 30 settembre, ma considerato che d’estate non lavoreremo e nel frattempo le altre spese non saranno state né ridotte né cancellate, sarà difficile riuscire a pagare le tasse per l’autunno».
D’altro canto, rispetto alla situazione di grandi realtà con cui si confrontano quotidianamente – come gli alberghi a 5 stelle tutti vuoti e i grandi tour operator completamente fermi – si sentono «l’ultima ruota del carro» di un settore immenso. Ciò non toglie però, come sostengono fermamente, che «bisognerebbe dare maggiore attenzione al settore del turismo che dà lavoro a migliaia di persone, molte delle quali lavorano in nero, compresi i lavoratori stagionali. Ma si tratta di esseri umani che in un modo o nell’altro sbarcano il lunario per portare il pane a casa, mantenendo lo status quo senza tensione sociale. Il turismo non solo è un settore fondamentale per un Paese come l’Italia, ma è anche interconnesso con numerose altre filiere come la gastronomia, la moda, le fiere».
Photo by Ante Hamersmit on Unsplash
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