La logistica: la funzione aziendale più “bassa”, il collo di bottiglia di tutte le disfunzioni di un’impresa. Peccato sia di fatto quella più vicina al cliente, in effetti. Molto più vicina al cliente del Marketing, della produzione o di altre funzioni più nobili. E’ quella con la quale il cliente spesso ha il contatto diretto […]
Io divergo, lui diverte, lei diversa
Il mondo cambia, anche senza la nostra collaborazione. La modernità si è fatta complessità: uno stato nel quale ci sentiamo spersi, senza rete, confusi. Quando si vive si ha paura. Del futuro, dei cambiamenti, dell’altro che non conosciamo, degli sconvolgimenti della natura. Ma di quella paura ci nutriamo, quella paura ci fornisce un tangibile, comodo […]
Il mondo cambia, anche senza la nostra collaborazione. La modernità si è fatta complessità: uno stato nel quale ci sentiamo spersi, senza rete, confusi.
Quando si vive si ha paura. Del futuro, dei cambiamenti, dell’altro che non conosciamo, degli sconvolgimenti della natura. Ma di quella paura ci nutriamo, quella paura ci fornisce un tangibile, comodo orizzonte di senso, definisce lo spazio entro cui immaginarci e muoverci.
È una questione di confini che noi stessi costituiamo: i margini sono la nostra dimensione vitale. La famiglia, la casa, la tribù, la città, la nazione nascono strutturate, confinate, talvolta murate ed infatti compiono ogni sforzo, per difendere i propri territori dalle minacce estranee-strane-straniere.
La conquista dell’io (l’idea stessa di un io è escludente e divisiva) è carattere fondativo della modernità e si porta dietro l’irrisolta domanda dei confini, dove finisce io-noi, dove inizia lui-loro? Come posso difendere io?
Noi siamo quelli che vivono dentro la frontiera, loro (massa indistinta di diversi, generalizzati per comodità di pensiero) sono gli esseri che premono ai margini della nostra coscienza o del nostro spazio fisico. Noi abbiamo paura della vita, attraverso di loro, i diversi. Diverso è colui che diverge da noi, che si avvicina costituendo una minaccia al di là delle intenzioni. L’arrivo del diverso da sé è un’occasione eccezionale per autorizzarci a interpretare le difficoltà come conseguenze di comportamenti negativi dell’altro.
Il soggetto portatore di diversità ha caratteri variabili. Non è solo il barbaro integralista che arriva da un posto lontano, è anche l’altro di genere, organico, morfologico, funzionale, sessuale che differisce per comportamenti, abilità, scelte. È talvolta anche il nostro fratello, la nostra sorella.
Nell’interpretazione antropologica, quando si costituisce l’insieme che chiamiamo io-noi, automaticamente nasce anche un Fuori (da me, dall’individualità, dalla casa, dalla città, dal gruppo), che è lo spazio del vuoto oltre la frontiera, destinato solo al confronto con il diverso, con l’altro-straniero, e un Dentro che si estende e contrae, come un muscolo reattivo, intorno alla propria identità, personale e collettiva, una dimensione dell’io-Potere che esercita la selezione dell’esclusività.
Tendiamo a non considerare la dimensione del fuori se non come vuoto, nulla, assenza, altrove e quindi come pericolo. L’altro suscita in noi sorpresa, disagio e rabbia, perché pensa diversamente o perché ama differente, perché vede le cose in altro modo.
Alla paura di quel che c’è Fuori di noi rispondiamo con la discriminazione (una variabile dell’odio) e agiamo attraverso la diminuzione (è inferiore, meno abile, meno adeguato, di minor valore).
Si tratta di processi sociali che hanno a che fare con la maggiore o minore voglia di nutrire consapevolezza. Se le persone vivono circondate dal rimbombo di slogan che invitano a trasformare la paura in odio, trovano più semplice odiare per un processo di imitazione, “sono più tranquillo se mi sento maggioranza, insieme ai più prossimi” e come risultato di una delega di conoscenza; quando si è parte della massa, è più facile perseguitare – il linciaggio per esempio è un comportamento collettivo, è scelta di un ordine, purché sia, che sconfigga la paura del caos.
Se si tenta di guardare il mondo con la dignità di persone e non di turisti televisivi o di social-networker-in-cerca-di-visibilità, ci si può accorgere che per agire sul discrimine è necessario intervenire sulla consapevolezza, delle cause, dei meccanismi, delle paure. È necessario frequentare il dubbio per attivare la curiosità del conoscere.
La consapevolezza è la costruzione originale del proprio modo di rapportarsi col mondo, in quanto sapere identitario. Dà forma all’etica, alla personale condotta di vita, alla disciplina, dubita, costituisce un’apertura all’altro, è un investimento di fiducia. La consapevolezza permette di amare la diversità perché ammortizza, rende possibile affrontare la paura. La consapevolezza non è un dato o una nozione, non si impone.
È il caso della consapevolezza delle proprie capacità, che rafforza ed entusiasma, che apre all’altro. È il caso della consapevolezza del dolore, che rende compassionevoli ed apre all’altro. È il caso della consapevolezza dell’amore, che rende invulnerabili ed apre agli altri.
La consapevolezza non è un essere informati, né un semplice sapere come vanno le cose, è impegno, ingaggio, determinazione. È l’unico motore del cambiamento. Eppure.
Eppure nell’anno appena concluso, una delle più titolate e grandi agenzie di pubblicità del mondo, Young&Rubicam, per Conto di Pubblicità Progresso, chiamata a proporre una lettura e una narrazione sulla discriminazione di genere, ha prodotto un paio di spot che si limitano ad informare, riducono la discriminazione ad un fatto tecnico-quantitativo.
Quanto sono meno pagate le donne rispetto agli uomini? Il 15, il 20, il 30%?
Una giovane attrice che, dopo una sessione di trucco, interpreta anche un giovane uomo, si presenta nelle duplici vesti a due colloqui di lavoro. A parità di competenze riconosciute, alla versione femminile viene attribuito e proposto un valore (stipendio) inferiore. Che poi, con il secondo spot sappiamo in Italia essere, mediamente, un 30% in meno.
Lo scopo? Fare informazione, far sapere. Come quando leggi sul pacchetto di sigarette “Il fumo uccide”. C’è qualcuno che si è impegnato a smettere di fumare dopo averlo letto sui pacchetti? Possiamo peraltro dire che non sia vero?
Se la consapevolezza è impegno, se è ingaggio, se l’amore rende invulnerabili e la paura potenzia l’odio, è con una informazione percentuale, portata al pubblico delle reti, che pensiamo di cambiare qualcosa?
È indubbiamente interessante sapere che le donne sono, a parità di preparazione e ruolo, pagate il 30% in meno. È interessante, ma è sufficiente? È incisivo per cambiare qualcosa? È l’ambito economico quello più sconvolgente, in termini di effetti negativi, della discriminazione?
Sembrerebbe un compitino: hanno informato, dato i numeri sulle conseguenze della discriminazione di genere, quindi hanno fatto il lavoro, sono a posto così. Le loro e nostre mani sono pulite (tanto quelle cose le fanno gli altri, io no), nessuno potrà dire che abbiamo ecceduto.
Però, quando la pubblicità vuole essere sociale, può limitarsi a condividere una informazione tecnica? Non sarebbe il caso che sollevasse, incidesse, travolgesse gli spiriti, che fosse portatrice di un nuovo stimolo, di una forza inarrestabile che spingesse a cambiare le cose?
Paura e diversità, odio e discriminazione, ce ne sarebbe abbastanza per un forte sommovimento delle consapevolezza; ce ne sarebbe abbastanza forse, per poter cambiare le persone. “Descrivere, rappresentare, dare una misura concreta alla discriminazione, è l’inizio”, siamo sicuri risponderebbe il pubblicitario; ma userebbe lo stesso artificio retorico che si applica ad un marchio “L’auto WV inquina il 30% in meno rispetto alle altre”.
“Ma la comunicazione sociale è un’altra cosa dalla comunicazione di prodotto: parla di vita, parla di ingiustizia, esplode la sostanza del vivere insieme”, questo ribatterebbe il critico.
“Ci sono molti modi per dire una cosa, ma ce n’è sempre uno che si ricorda più degli altri” ripete spesso Michael Goettsche, grande pubblicitario italo-tedesco, autore con Emanuele Pirella, della campagna “Jesus – Non avrai altro jeans all’infuori di me”, in primo piano una cerniera aperta su un corpo nudo (forse di donna, forse di uomo, non era importante); erano gli anni ’70, la campagna cambiò completamente la percezione di quello che poteva o non poteva esser detto e mostrato in pubblico. Quel modo di fare pubblicità aggrediva il mondo: testimoniava che il coraggio di muovere le convenzioni, con quel claim, con quell’immagine, creava un nuovo tipo di lessico sociale, scuoteva le consapevolezze, innescava una esplosione, un modo inedito di interpretare le cose, forzava, accelerandolo, il cambiamento dei tempi e della cultura, era foriero di discussioni, prese di posizione, ingaggi, appunto. Sulla prima pagina del Corriere della Sera, anche Pier Paolo Pasolini pubblicò un articolo sul “Folle slogan dei Jeans Jesus”.
Erano altri tempi o erano solo persone capaci di creare, attraverso il linguaggio pubblico, salti, forze, consapevolezze, appunto, sociali?
Erano, quei pubblicitari, prima di tutto, delle intelligenze vive, delle persone che amavano immergersi nel reale delle persone e di evidenziare il discrimine delle convenzioni, dei tabù. Quelle persone erano molto lontane da quello che poi sarebbe accaduto: la costruzione dell’astratto mondo dei loghi, dei prodotti e dei pay-off, poco sentiti, poco stimolanti, molto lontani dalla vera carne dei fenomeni.
Una volta, rievocando quella campagna Goettsche mi disse “Roba d’altri tempi, quando ancora ci si emozionava scrivendo la headline e ti veniva il magone allo stomaco per quello che avevi scritto”.
Invece, oggi, tutto sembra annacquato, lontano dal cuore, soprattutto le campagne sociali. La campagna Punto su di te sembra pensata dalle stesse penne che ci parlano di detersivi, di smart phone, di merendine: usano i colori finti e stinti del mondo commerciale. Sembrano non essere consapevoli che stanno affrontando vicende reali che esseri in carne, anima ed ossa, tutti i giorni, con coraggio patiscono e subiscono e che altri esseri usano e potenziano, perché impauriti o forse solo perché appiattiti sulle convenzioni.
Forse, il vivere sociale dobbiamo ancora immaginarlo, esperirlo. Forse siamo solo all’inizio del vivere collettivo. Forse il progresso ci aiuterà a re-interpretare le persone e le relazioni come un fenomeno fisico, come una dimensione corporea che crea nuove connessioni infinite e ricche, come realtà dotate di apertura, come un abbattimento di frontiere, come un fenomeno che cambia i fenomeni: i nuovi luoghi pubblici, le televisioni, le reti, i social network, sembrano ancora incapaci di cambiare la separazione tra Dentro e Fuori, sembrano, anch’essi, impegnati a difendere strenuamente, i confini dell’io, a supportare confuse dinamiche mimetiche.
L’informazione, quando si limita al dato tecnico, opacizza e tenta di sostituire la vita, quella vita che ha invece bisogno della consapevolezza travolgente, piena, per essere vissuta.
Punto su di te. Tutto qui?
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