Italia: questa casa non è un cohousing

Che differenza c’è tra edilizia popolare, social housing e cohousing? Le particolarità di un modello abitativo che ha preso piede in Scandinavia e in Svizzera descritte dall’architetto Alessandro Di Egidio.

Le beghe condominiali e le tensioni che ne conseguono potrebbero essere superate semplicemente con la creazione di spazi condivisi, e quindi di interazioni sociali? Un locale comune nel nostro palazzo, dove incontrarsi per il puro piacere di relazionarsi, potrebbe innalzare la qualità della nostra vita, la salute del nostro ambiente? Le città italiane ed europee sono pronte per questo cambiamento? Il COVID-19 ci ha certamente imposto di riorganizzare gli spazi di ogni spigolo delle nostre città e sfruttare ogni centimetro delle nostre infrastrutture, come pure ci ha obbligati a guardare, durante la quarantena, a quel piccolo esercito di invisibili che quattro mura di protezione non le hanno.

C’è però chi, come il giovane architetto Alessandro Di Egidio, immagina già da anni di rileggere completamente tutto quel “fenomeno identitario che è l’abitare”, per usare la sua interpretazione. Studioso del fenomeno a livello internazionale, ha concentrato la sua tesi di laurea sulla materia ed è il coautore di un sito, realizzato con l’Università La Sapienza di Roma, proprio sul cohousing. Parliamo infatti del social housing.

Cohousing, social housing, edilizia popolare: qual è la differenza?

C’è chi lo traduce come “residenza sociale”; chi lo interpreta come una soluzione alla sempre più diffusa crisi degli alloggi; chi lo considera una politica abitativa vincente per azzerare il fenomeno dei senzatetto. Nessuno, però, ne dà una definizione condivisa in modo unanime. La condivisone, del resto, riguarda altri aspetti, ben più concreti.

«Bisogna fare una distinzione tra le tre grandi categorie», ci spiega subito l’architetto Di Egidio: «L’edilizia popolare, il social housing e il cohousing. Le prime due sono molto simili tra di loro, perché prevedono semplicemente delle agevolazioni, di tipo economico o fiscale, nell’accesso all’abitazione. L’edilizia popolare è infatti destinata a persone con un reddito inferiore a una certa cifra, mentre il social housing nasce spesso per iniziativa di privati, molto simile a quella dell’edilizia popolare, che invece come noto è pubblica; potremmo anche definirla “un’edilizia sovvenzionata”. Si tratta in entrambi i casi di agevolazioni economiche».

«Il cohousing, invece, è un modo di abitare differente, che può ovviamente rientrare nelle sfere delle altre due formule, ma che si contraddistingue per il tipo di dinamica che si instaura nella casa. Quindi non è solo un tipo di edilizia che possiamo definire a prezzo calmierato, ma una particolare “forma di vicinato” in cui ciascun individuo o gruppo famigliare possiede un’abitazione, condividendo servizi e strutture aggiuntive, per motivi che possono essere sociali, pratici, economici o ambientali. Fondamentalmente è un tipo di vita differente, perché si ha un’abitazione ma non si è alienati all’interno di un condominio. Possiamo così parlare di abitare sociale, in quanto genera delle relazioni e delle interazioni. I vantaggi che ne derivano sono molti per la società moderna, che è spesso disgregata, con diversi soggetti fragili. Porta a un grande risparmio di tempo e di soldi, perché lo stesso oggetto viene condiviso e non acquistato da ognuno».

Un principio davvero nobile, ma forse di non facile applicazione, perché implica chiaramente grande, grandissima maturità da parte degli utenti. «È vero – continua l’architetto – ma posso dire, anche grazie alla mia esperienza come mediatore nei condomini, che in questi palazzi non c’è mai uno spazio di incontro tra residenti. Gli unici momenti in cui ci si incontra sono le assemblee di condominio, in cui si discutono problemi di ordine generico, o ci si lamenta dei problemi che uno sta generando all’altro. Qui parliamo proprio di un modo differente di abitare, dove è previsto uno spazio che dia possibilità di incontro, di crescita relazionale reciproca. Uno spazio che può influenzare il modo di vivere e creare quel senso di responsabilità necessario per acquisire un’educazione alla gestione dello spazio pubblico».

«Facciamo un esempio pratico. I condomini non si relazionano perché non si conoscono. Il cohousing potrebbe unire quattro, cinque nuclei che hanno facilità maggiore nel parlare tra loro, rispetto a trenta persone che si devono mettere d’accordo. Ecco che, partendo da un gruppo più piccolo e dalle sue dinamiche relazionali, si può poi imparare a gestire uno spazio più grande. Il cohousing, dunque, nella sua accezione meglio riuscita, partendo da una forma abitativa privata influenza tutta la vita pubblica di un’intera città, attraverso comitati di quartiere composti da cittadini consapevoli, che animano un implicito principio di cittadinanza attiva».

Scandinavia, gli inventori del cohousing lo applicano poco. E l’Europa?

Il tema passa così da architettonico a sociale, e infine politico, perché crea delle relazioni di mutuo soccorso tra persone che ne hanno più o meno bisogno. Il modello Nord Europa, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare data la lunga tradizione di welfare, non è particolarmente attivo in materia; questo sebbene il primo proto-cohousing sia nato in Danimarca. È avvenuto quando, partita l’industrializzazione, le donne che lavoravano in fabbrica non volevano accollarsi da sole tutto il lavoro domestico. Così, inizialmente, si sono confederate con altre donne per ridistribuire il peso degli oneri domestici; poi hanno usato la coabitazione per coinvolgere anche gli uomini nella gestione della casa. Un cambio culturale nel costume, dunque.

Ma il social housing, a lungo oggetto di propaganda per i partiti in campagna elettorale, oggi non ha veramente attecchito in Scandinavia, complice la diffusa concezione del diritto alla casa come diritto naturale, frutto della socialdemocrazia stretta che per decenni ha guidato questi Paesi, nei quali la mano e gli occhi dello Stato hanno sempre controllato (con alterni successi) le speculazioni edilizie. Attualmente solo la Finlandia ha fatto sua questa formula, con la quale conta di azzerare entro il 2027 il fenomeno dei senzatetto. Quale Paese europeo si distingue per aver fatto proprio questo principio abitativo?

«La Svizzera – risponde Di Egidio – è un esempio incredibile di come queste pratiche si stanno diffondendo e stanno risolvendo problemi abitativi, anche legati alla sostenibilità eco-sociale della casa. E parlo di tutta la Svizzera, perché gli articoli 41 e 108 della Costituzione della Confederazione Elvetica prevedono il diritto alla casa. Si sta trovando una soluzione proprio attraverso il cohousing. Il 25% delle nuove costruzioni svizzere sono di questo tipo, con la possibilità di accedere alla casa a prezzi super agevolati».

«A Zurigo è stato recentemente festeggiato il centenario della cooperazione tra lo Stato e le cooperative abitative, ed è stata creata un’associazione, la Mehr als Wohnen (“vivere meglio”), che raggruppa 370 cooperative svizzere, le quali hanno dato vita alla completa ristrutturazione del quartiere Area Hunziker. Era un vecchio quartiere industriale in disuso, che è stato completamente ricostruito secondo un modello di cohousing e impiegando modelli architettonici differenti, in modo da avere uno stile variegato, con una sintassi spaziale differente accomunata dal tema del cohousing. Per avervi accesso è necessario iscriversi alla cooperativa secondo un modello che è quello già adottato in Catalogna, nei Paesi Baschi. Fondamentalmente con il versamento di una quota si entra a far parte della cooperativa, e poi si paga ogni mese una sorta di affitto molto modesto. Si tratta di un modello che si fonda non sul possesso, ma sull’accesso all’abitazione. Parliamo quindi di diritti di superficie e di concessione d’uso, il che limita moltissimo tutte le potenziali forme di speculazione».


L’area Hunziker (in questa foto e in copertina) era un vecchio quartiere industriale in disuso, che è stato completamente ricostruito secondo un modello di cohousing.

Altri Paesi all’avanguardia sono la Catalogna, le cui province rurali sono oggetto di recupero da parte di cooperative in cessione d’uso private, che ne restaurano i ruderi sempre con il sistema svizzero. A Barcellona poi è stato proprio il comune che, rendendosi conto della validità del modello cohousing sia per la soluzione del problema abitativo che per risolvere le fragilità sociali, ha messo a bando terreni pubblici inutilizzati per progetti di questo tipo.

In Francia, a Strasburgo, si è ripetuta la formula di Barcellona, con la città che per soli mille euro l’anno di diritti di superficie ha dato in cessione terreni pubblici, facendo crollare alla base i costi di tutta la filiera, fino al cittadino. Ancora in Francia si è creata una rete tra comuni, l’RNHCP, che fa interventi strutturali nella programmazione urbanistica della città per agevolare il diffondersi di questa formula abitativa.

L’Italia e il cohousing, un contrasto di culture

«Inquadrare il cohousing come esperienza di vita normale – continua l’architetto Di Egidio – è proprio ciò che stimola la nascita di nuove unità. Prendiamo il caso italiano. Noi ne parliamo come di una cosa mistica, perché non abbiamo esperienze concrete a lato. Spesso immaginiamo la coabitazione come un concetto legato prima di tutto a gruppi selezionati di età: gli studenti, gli anziani che vivono in case comuni. Sono però situazioni correlate alla temporaneità di una condizione, e non vi si vede mai occasione di inter-generazionalità, di condivisione di spazi – senza per questo perdere la propria abitazione, la propria privacy. È il primo limite, cioè la mancanza nel mercato immobiliare di un’alternativa di cohousing».

Eppure anche in Italia non mancano iniziative, sia private che pubbliche, ma sono meno rispetto al resto d’Europa. Si trovano a Torino e Milano; anche a Roma, ma gestite da comunità religiose. La vera resistenza alla diffusione della formula abitativa nel Bel Paese consiste di fatto nella mancanza di esempi tangibili con cui confrontarsi, nel retaggio culturale fortemente italiano che vede il mattone come intramontabile bene rifugio, e nel pregiudizio politico, che fa coincidere la coabitazione con le comuni, legate a occupanti o a frange estremiste. Un futuro cohousing, in Italia, è possibile immaginarlo?

«Deve esserci una intersezione di proposte», conclude l’architetto. «Deve esserci una spinta dal basso che induce chi governa gli spazi, il territorio, a proporre soluzioni simili. A Trento, ad esempio, c’è una buona pratica: il comune propone delle agevolazioni fiscali enormi sul recupero di edifici in disuso, anche privati, ma abbandonati. L’opportunità viene data a cooperative che realizzino poi progetti di cohousing, e che prevedano una quota anche per la trattativa con il titolare dell’immobile. Immagino quindi che il futuro sia il recupero di tutte le proprietà abbandonate, con progetti di collaborazione pubblico-privato. Sarebbe un grande impulso per l’Italia, che pullula di immobili abbandonati».

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