La cura della community non è tempo perso, è una priorità

Il segreto di una buona gestione dei social è la community. Così, in maniera pratica e concisa, senza andare alla ricerca di formule matematiche e strategiche degne di un manuale sui social. Chissà perché invece, nella pratica, si continua a considerare la community un concetto astratto, come se fosse soltanto una parola straniera in più […]

Il segreto di una buona gestione dei social è la community. Così, in maniera pratica e concisa, senza andare alla ricerca di formule matematiche e strategiche degne di un manuale sui social. Chissà perché invece, nella pratica, si continua a considerare la community un concetto astratto, come se fosse soltanto una parola straniera in più da aggiungere nel titolo di lavoro. Community Manager suona bene, ci fa sembrare impegnati, dediti alla cura del cliente e dell’audience. Ma perché, sui social, esistono così tante Pagine e così poche community? E non parlo dei grandi brand. È bene fare subito un distinguo: le multinazionali e i grandi brand, ci condizionano nelle valutazioni. Fanno sembrare tutto facile sui social perché possono contare su due variabili fondamentali, che l’80% delle aziende italiane non hanno: cioè un brand riconosciuto di cui la gente sia innamorata (Ferrero con Nutella, Coca Cola Italia, Gucci, brand del fashion) e degli ingenti investimenti in advertising (ads, video, sponsored post).

Il tessuto economico del Paese contempla variabili molto differenti da queste, ovvero aziende che non hanno mai investito seriamente sul brand e che non hanno budget di un certa rilevanza per la pubblicità sui social. Sono tagliate fuori? Direi di no, ma andiamo per ordine. Quando leggo consigli e best pratics sui social, ho come l’impressione che si giochi tutti a fare la multinazionale, come se il nostro brand fosse già sulla bocca di tutti. Mi spiace, ma non è così. La soluzione non è assumere un community manager o assoldare un’agenzia di comunicazione che apra una Pagina facebook e un account Twitter. Perché quella, semmai è una conseguenza. Il community manager dovrebbe creare delle community, appassionarsi di discussioni legate al settore di mercato specifico, guidare questa community verso un risultato. Avete mai provato a postare su Facebook qualcosa che tocca da vicino un tema che vi appassiona? Una tematica per la quale gli utenti vi riconoscono come autorevole? Cosa succede in quel frangente? Commenti, condivisioni, like, qualcuno che non è d’accordo e vi dice la sua: in una parola interazione.

Parola magica. Ma sembra mancare a molte aziende abituate per anni a chiudersi in una torre d’avorio, a parlare da un pulpito. Non è preistoria, accade ogni giorno e, per 10 persone che parlano animatamente di dinamiche dei social network, ce ne sono 90 che non se ne curano, e anche se i campioni digitali sono ovunque, non tutti sono disposti ad ascoltarli e in molti casi sono loro a non farsi capire, perché il termine campione bisogna meritarselo sul campo, e campione è diverso da supporter, da appassionato e pure da talento, ma tant’è. La verità è che i Social Network hanno aumentato a dismisura gli spazi da riempire, e le aziende non si sono fatte trovare pronte. E adesso rincorrono, nella maggior parte dei casi con le stesse risorse, economiche ed umane, di prima. La soluzione continua ad essere, per molti, quella della frenetica pubblicazione di post tematici, magari commissionati ad un’agenzia o in molti casi con link a siti non loro. Contenuti riciclati scritti da terzi, nessuna riconoscibilità per il brand e nessuna risposta alle domande che fanno i clienti.

Eppure il cliente è lì, a fare domande, a volte banali, a cui noi potremmo rispondere tranquillamente se solo li conoscessimo, i clienti. Il caso più clamoroso, quasi paradossale, è quello del giovane Salvatore Aranzulla, 24 anni, diventato milionario rispondendo alle domande sul web. Nell’ultimo esercizio ha fatturato oltre 1 milione di euro rispondendo alle domande dei clienti. In un’intervista a Linkiesta ha risposto candidamente che la domanda più frequente a cui ha dovuto rispondere è stata: come si diventa invisibili su WhatsApp? Quante domande di questa portata ci vengono poste ogni giorno? E perché diamo tutto per scontato? Diamo per assodato che la gente conosca il nostro prodotto, sappia come usarlo, dove trovarlo, quali vantaggi competitivi offriamo e perché siamo unici, se lo siamo.

E quali sono i problemi dei nostri clienti, quali le opportunità da risolvere? Eppure non dovrebbe essere così difficile, per realtà come le PMI, conoscere tutti i propri clienti. Mi piace citare Archilovers e Archiportale, una community di appassionati, di architettura, che solo in seguito diventa Pagina Facebook, e quindi aggregazione di contenuti per appassionati. Anche in questo caso, dietro il successo dell’azienda c’è una persona che dedica tempo e ricerche alle persone. E si chiama Claudia Lorusso.

Il primo consiglio che mi sento di dare, alle imprese, è di capire cosa appassiona i propri dipendenti, e di conseguenza i clienti. Perché quella è la base per costruire una community che possa generare, scusate la parolaccia, un ROI. Ci vuole tempo e pazienza. Ci vuole un professionista del networking e un ambiente fertile in cui lavorare. Ci vuole apertura mentale, attitudine al cambiamento e valorizzazione delle persone. Detta così sembra semplice, ma in realtà si tratta di anni di lavoro.

Anni in cui, sicuramente, i social network cambieranno. Facebook lo sta già facendo, con l’esplosione dei video. Basti dare un’occhiata ad una delle aziende da sempre più attente alle novità “social” Oreo, per capire qual è la nuova tendenza (non vi svelo altro, possiamo continuare qui la discussione). In più è arrivato WhatsApp per il web, che può stravolgere il mondo del customer care. Qualunque cosa accadrà, se le aziende avranno lavorato sulla community, non sarà stato tempo perso.

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