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Riggan Thomson era Birdman. Riggan Thomson è ancora Birdman, suo malgrado. Per il grande pubblico, la faccia del protagonista di questo film, interpretato da Michael Keaton, (alzi la mano chi non lo ricorda come il Batman di Tim Burton) è per sempre legata ai film del supereroe mascherato da uccello. Anche adesso che Riggan ha […]
Riggan Thomson era Birdman. Riggan Thomson è ancora Birdman, suo malgrado.
Per il grande pubblico, la faccia del protagonista di questo film, interpretato da Michael Keaton, (alzi la mano chi non lo ricorda come il Batman di Tim Burton) è per sempre legata ai film del supereroe mascherato da uccello. Anche adesso che Riggan ha deciso di cambiare completamente genere e palcoscenico, adattando ambiziosamente per il teatro “What do we talk about when we talk about love” di Raymond Carver.
Questa frase è scritta su un cartoncino infilato nello specchio nel camerino di Riggan Thomson, e mi ha subito fatto pensare a una frase celebre nel personal branding, “Your brand is what people say about you when you’re not in the room”. Per contrasto, ovviamente.
Riggan sta sicuramente cercando di cambiare faccia alla sua identità di attore, scontrandosi spesso con sfiducia ed incredulità: da “famoso” del grande schermo ad artista di talento, capace di confrontarsi con un autore ed un testo non certo alla portata di tutti. Fra i vari personaggi che ruotano attorno a Riggan (attori e non, ciascuno a suo modo combattuto nell’eterno dilemma fra “essere o apparire”) la figlia Sam (Emma Stone), a cui la storia affida il compito di ricordare al protagonista che in un mondo dove tutti cercano di emergere allo stesso modo, nessuno è davvero importante. Salvo forse chi riesce a diventare, anche se per un colpo di sfortuna, un fenomeno da un milione e trecentomila visualizzazioni in meno di due ore.
Edward Norton interpreta Mike, l’attore affermato partner di Riggan sulla scena: il loro rapporto è “complicato”, giusto per usare un eufemismo. Ed è proprio Mike a ricordare a Riggan che fama e rispetto non sono esattamente la stessa cosa, e che tutto può essere giocato (e perso) anche sulla base di una singola azione.
Perchè Riggan ha scommesso tutto sulla sua nuova identità professionale, e le difficoltà che accompagnano lo svolgimento della storia fino alla sera della prima teatrale non lo aiutano certo a guardare al futuro con fiducia.
Ma cosa vuole, in fondo, il protagonista? Liberarsi di una identità divenuta “scomoda”, quel Birdman che gli ha dato popolarità e successo ma lo ha anche costretto a vivere per sempre “incatenato” a quell’unico ruolo. E che ancora, letteralmente, lo perseguita. La regia di Inàrritu è abile nel trasmettere un senso di smarrimento legato ad una ricerca continua… Ma ricerca di cosa?
Riggan vuole una seconda possibilità, sulla scena come nella vita: vuole essere apprezzato per le proprie capacità, vuole dimostrare di essere “andato avanti” rispetto al suo passato professionale, vuole trovare comprensione ed affetto in chi lo circonda.
In una parola, vuole essere amato.
Ed è amaramente ironico, ma sicuramente non casuale, che proprio il testo che ha scelto di mettere in scena si interroghi continuamente sulla natura dell’amore.
“Perché devo sempre implorare la gente di amarmi?” chiede il personaggio di Riggan alla moglie, sulla scena del teatro. Ma contemporaneamente la stessa domanda la pone Riggan al pubblico in sala durante uno dei momenti più drammatici del film.
E la stessa domanda se la porrà, fatalmente, lo spettatore al cinema.
Allo stesso modo, chi sceglie di lavorare sul proprio personal branding per rinnovare e far apprezzare la propria professionalità dovrà chiedersi come riuscire a farlo in modo adeguato, ricordandosi che puntare sugli elementi più forti della propria identità lavorativa è sicuramente un elemento essenziale… così come il riuscire a comunicarli all’esterno in maniera efficace, evitando di confondere “conosciuto” con “apprezzato”.
Ognuno troverà la propria risposta.
Per Riggan Thomson questa passerà attraverso un ultimo estremo tentativo di cambiare faccia, a testimonianza che le capacità e le doti individuali sono pur sempre fatalmente legate a quello che gli altri ne dicono, sia che siamo ancora nella stanza… o che abbiamo trovato il nostro modo per uscirne.
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