La paranoia della comunicazione in competizione

Nel settore la guerra è viva e sentita, nonostante i teorici della comunicazione ormai da anni affermano quanto il marketing abbia abbandonato il carattere militaresco che lo caratterizzava in passato. Non mi riferisco alla guerra tra brand a colpi di campagne pubblicitarie – e non solo- ma proprio alla cultura radicata nelle menti di chi, […]

Nel settore la guerra è viva e sentita, nonostante i teorici della comunicazione ormai da anni affermano quanto il marketing abbia abbandonato il carattere militaresco che lo caratterizzava in passato.
Non mi riferisco alla guerra tra brand a colpi di campagne pubblicitarie – e non solo- ma proprio alla cultura radicata nelle menti di chi, per lavoro, pensa e fa La Comunicazione.

Il marketing come scontro

In pubblicità, dentro e fuori gli studi, si usano continuamente termini che potrebbero appartenere al vocabolario di un ufficiale dell’esercito. Facciamo “guerrilla marketing“, lavoriamo per “conquistare il mercato“, abbiamo l’obiettivo di “sconfiggere la concorrenza” e non ci rendiamo conto che persino i messaggi pubblicitari più banali vengono cuciti sul concetto di  battaglia, che sia contro l’1% dei batteri rimasti dopo le pulizie con il tradizionale detersivo, contro i fastidiosi peli superflui o contro i genitori affinché concedano quella merendina. Parliamo di web 3.0, di collaborazione, di confronto, quando in realtà il pensiero fisso è sul “terreno di battaglia” che calpestiamo quotidianamente, mentre formiamo i nuovi professionisti del settore, quando entriamo in agenzia, quando studiamo il nuovo piano marketing.

Bikkembers, campagna primavera/estate 2011
Bikkembers, campagna primavera/estate 2011

Ma esiste una ragione storica per tutto questo. Sin dalle guerre mondiali, importanti aziende hanno sempre dato il loro contributo alla propaganda militare e alle missioni del proprio Paese, al punto che l’oliatissima macchina organizzativa delle grandi corporation della comunicazione ha assorbito il significato militaresco di parole come “campagna“, “strategia“, “target“, “briefing” facendole entrare nel vocabolario tecnico del marketer.
Come spiega Alessandro Stenco su Billmagazine, allo scoppiare di una guerra ogni settore è sempre stato chiamato a fare la propria parte adeguando la linea produttiva allo sforzo bellico. Una fabbrica di trattori poteva diventare produttrice di carri armati, una sartoria passare dal prêt-à-porter al confezionamento di divise, l’industria cinematografica realizzare cinegiornali e film di propaganda. “L’incredibile successo registrato dalla propaganda durante la Prima Guerra Mondiale ha rivelato a una minoranza di persone intelligenti le possibilità che la Propaganda offre per mobilitare l’opinione pubblica a favore di qualsiasi causa. Era dunque naturale che, finita la guerra, le persone intelligenti si fossero interrogate sulla possibilità di applicare la stessa tecnica per affrontare i problemi del tempo di pace. La guerra aveva dunque fatto capire l’incredibile potenziale persuasivo della propaganda, da utilizzare quando sarebbe venuto il momento di vendere prodotti”.

La paranoia della comunicazione in competizione

La storica collaborazione tra agenzie di comunicazione e Governo ha influenzato così spesso le sorti della politica da lasciare un segno indelebile nel mercato pubblicitario, inquinando l’ispirazione a comunicare, dentro e fuori gli uffici.

Il linguaggio militare in pubblicità

Sempre Stenco ci illumina su un caso emblematico sulla storia della pubblicità. Durante la Seconda Guerra Mondiale l’agenzia J.Walter Thompson realizzò una delle campagne belliche di maggior successo: Rosie the Riveter, la ribattitrice. Nella locandina veniva rappresentata una donna americana in tuta da operaio che, mostrando un bicipite muscoloso, affermava: “We Can Do It”.

La paranoia della comunicazione in competizione

La campagna, che lanciava alle donne americane un messaggio di parità -anche noi possiamo svolgere il lavoro di un uomo, non tiriamoci indietro, rimpiazziamo i nostri uomini impegnati al fronte! – riuscì a coinvolgere più di due milioni di nuove lavoratrici nel mondo dell’industria di guerra, numeri strabilianti per essere il 1940. Non si può forse dire che fu questa campagna a segnare l’emancipazione femminile, ma dopo questa pubblicità la posizione sociale e il salario non potevano più essere considerati prerogativa esclusiva degli uomini, nel bene o nel male.
L’annuncio, inoltre, continua ad avere vasta eco nella cultura popolare tanto che, se ci pensiamo, continuiamo a riutilizzare questa stessa immagine in svariati contesti, sia nel campo dell’informazione che della comunicazione. A partire dagli anni Quaranta, Rosie the Riveter diventerà un’icona pop conosciuta e citata in continuazione.

Nella storia, insomma, spesso è stato chiesto agli imprenditori di inserire nelle proprie campagne pubblicitarie contenuti patriottici. Annunci di frigoriferi, bibite, sigarette e automobili, realizzati con chiare connotazioni militari, oltre a enfatizzare il prodotto, chiamavano il consumatore all’acquisto dei War bonds e sostenere la causa bellica. Una scelta strategica oculata: come avrebbe potuto in seguito il consumatore dimenticare i brand che avevano dato il loro apporto alla vittoria finale? Come potrebbe oggi, tanto il consumatore quanto il pubblicitario, tirarsi indietro di fronte a un richiamo quasi atavico alla lotta?

Il Clutrain Manifesto, la comunicazione aziendale e l’etica delle informazioni economiche

Milioni di persone in rete, non necessariamente esperte, percepiscono falsa la comunicazione delle imprese, perché spesso le conversazioni non permettono l’incontro reale tra produttore e consumatore, al contrario di quanto teorizzato dal famoso Clutrain Manifesto per sviluppare una comunicazione virtuosa. Pensiamo al servizio clienti sui social network da parte di importanti aziende nazionali, da Trenitalia a Vodafone, fino a quelle locali.  Spesso il linguaggio usato durante queste conversazioni, anche quando recita l’apertura e la condivisione, è fallimentare, perché basato su menzogne legali, a loro volta usate proprio perché azienda e cliente non si incontrino mai. E questo è il suicidio per il mercato, nessun uomo di marketing dovrebbe concepire qualcosa di simile, eppure l’ampiezza della casistica che dimostra il contrario si commenta da sola.

Sulla Fanpage Facebook di Social Media Epic Fail,  segnalazioni imbarazzanti fatte degli utenti
Sulla Fanpage Facebook di Social Media Epic Fail, segnalazioni imbarazzanti fatte degli utenti

 

Gli utenti vogliono parlare con le aziende. Vogliono comprare i loro prodotti. Vogliono adottare nuovi comportamenti d’acquisto. Vogliono ricevere assistenza, spiegazioni e rassicurazioni. Vogliono parlare con chi conosce tutte le dinamiche del lavoro dietro quel prodotto, non con i loro social ciarlatani media marketing, i venditori ambulanti e i sottopagati dei loro call center, messi a rispondere delle loro non-conversazioni senza etica né ragione, con l’unico vero scopo di intrattenere i clienti per il più lungo tempo possibile intanto che il problema venga considerato davvero.
I mercati vogliono partecipare alle conversazioni di chi pensa le aziende. E quei mercati siamo Noi, clienti ma anche pubblicitari, che per rispondere a queste situazioni predisponiamo il terreno di… battaglia, comunicando esigenze e soluzioni con atteggiamento belligerante.

L’economista francese Jean Paul Fitoussi sostiene che una società che oppone la comunicazione all’informazione finisce col privilegiare l’ideologia. Proprio per questo, la nostra età, cioè “l’epoca della comunicazione”, non è affatto caratterizzata dal tramonto delle ideologie, quanto piuttosto da una loro semplificazione estrema che mette in secondo piano gli aspetti razionali a favore dell’emozionalità, banalizzando la realtà che viviamo. La Comunicazione, insomma, ha il potere di disegnare una realtà particolare facendo leva sulle tensioni sociali, legittimando certe convinzioni personali e certe decisioni collettive, tanto in positivo quanto in negativo, e in questo esiste un preciso dovere, di natura etica, per chi fa il nostro lavoro:  riferirsi continuamente al mercato come a una guerra conferisce alla comunicazione un carattere distruttivo sin dal suo concepimento e non ci può essere alcuna evoluzione di mercato se non esiste un’evoluzione dei linguaggi, quindi una nuova predisposizione mentale allo scambio, di informazioni e di merci. E probabilmente tutto questo dovrebbe partire già fra marketer, dentro le mura delle agenzie di pubblicità.

Abbiamo frainteso L’Arte della Guerra.

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