La percezione del pericolo, ecco di cosa abbiamo avuto paura

Percezione del pericolo, delle soluzioni possibili, delle categorie di persone più esposte all’emergenza, percezione della nostra fragilità e della nostra forza: prima, durante e dopo una crisi è vitale saper gestire i bias che possono impedirci di vedere le dinamiche della crisi riconoscendo le risorse disponibili.   Prima della crisi: la mancata percezione del pericolo […]

Percezione del pericolo, delle soluzioni possibili, delle categorie di persone più esposte all’emergenza, percezione della nostra fragilità e della nostra forza: prima, durante e dopo una crisi è vitale saper gestire i bias che possono impedirci di vedere le dinamiche della crisi riconoscendo le risorse disponibili.

 

Prima della crisi: la mancata percezione del pericolo

In una TED del 2015 Bill Gates aveva previsto che la crisi mondiale più grave che il mondo avrebbe dovuto affrontare in un futuro prossimo sarebbe stata la pandemia. Anche le istituzioni scientifiche internazionali ci avevano avvisato: prima o poi sarebbe arrivata. Nessuno di noi tuttavia percepiva il pericolo come prossimo e possibile. Nelle prime settimane di crisi in Cina il medico che aveva denunciato la gravità dell’epidemia, poi deceduto, fu messo a tacere. Così “abbiamo chiuso la stalla quando i buoi erano scappati”, prendendo contromisure e correggendo i meccanismi di funzionamento del sistema dopo lo scoppio della crisi. La prevenzione e la gestione del rischio sono discipline che consentono di migliorare la capacità di lettura dei possibili prodromi di una catastrofe. Se la gestione della sicurezza è considerata un fatto burocratico, possono mancare un approccio sistemico e un presidio organizzativo credibile di alto livello.

Sul piano individuale gli atteggiamenti mentali delle persone verso il rischio risentono di elementi della personalità e di difetti percettivi. Una mancata percezione del pericolo può portare le persone a sottovalutare il pericolo stesso. La predisposizione alla spavalderia può indurre le persone ad assumere comportamenti temerari tesi a dare prova ad altri della propria bravura o a difendere l’immagine di sé: “Milano non si ferma”, le imprese neanche, gli impianti di risalita sulla neve nemmeno. La fiducia nei propri mezzi, l’illusione del controllo e la sensazione di invulnerabilità possono sfociare in atteggiamenti errati come la rimozione della realtà: “Il coronavirus è poco più di una influenza”. L’idea che la Cina, dopo una prima fase di rimozione, avesse chiuso intere regioni e messo in quarantena la prima economia del mondo per “poco più di una influenza” sembrava a dir poco bizzarra. Eppure il cosiddetto confirmation bias induce spesso le persone a considerare valide le proprie convinzioni erronee nonostante la realtà offra elementi che evidentemente confutano le ipotesi considerate.

Le crisi nell’emergenza non vanno quindi intese come un collasso, ma come un’incapacità delle istituzioni e delle organizzazioni di percepire per tempo un pericolo e di adattarsi a un contesto nuovo e specifico.

 

Quali sono i segnali di un’emergenza imminente?

Facendo un passo indietro, possiamo dire che il periodo di incubazione di un qualsiasi disastro presenta alcune tipiche caratteristiche, definibili come i prodromi della catastrofe:

  • alcuni eventi premonitori non vengono notati o vengono sottovalutati perché letti sotto una prospettiva sbagliata: chi denuncia la gravità degli eventi viene messo a tacere;
  • il pericolo emergente viene minimizzato: si percepisce una sostanziale riluttanza a temere il peggio;
  • un problema complesso viene ridotto in tanti problemi semplici che vengono gestiti separatamente, senza risolvere il problema di fondo.

La fase dei prodromi è quella durante la quale i leader potrebbero cogliere utili e deboli segnali d’allarme. Le testimonianze vive da Alzano Lombardo e dalla Val Seriana spiegano come i prodromi della catastrofe fossero visibili al territorio nei giorni in cui si immaginava una nuova zona rossa. Ma gli imprenditori locali non sembravano leggere questi segni. Possiamo non percepire la gravità di un’emergenza nelle sue prime fasi prodromiche, se non riusciamo a gestire l’ansia generata dal solo pensiero del pericolo. In generale, la capacità individuale e collettiva di gestire e governare l’ansia fa la differenza, sia nella percezione del pericolo stesso sia nella ricerca di soluzioni per affrontarlo. Se l’ansia non è ben gestita cresce il rischio di sopravvalutare o sottovalutare i pericoli reali.

La nostra percezione di una crisi è influenzata anche dalla nostra posizione rispetto al cratere. Le persone che si trovano nel cratere dell’emergenza, per l’Italia le aree più colpite della Lombardia, generalmente dicono “nessuno può capire quello che ci è successo”. “Mi sembra di vivere un brutto sogno”, ripetono. Anche chi entra in questa area ha la sensazione di sperimentare una realtà parallela. Riuscire a gestire un’emergenza senza entrare nel cratere, standone cioè fuori, è molto difficile proprio perché nessuna crisi è come uno se la immagina. Ancora una volta, il rischio di governare qualcosa non immergendosi nella situazione può influenzare negativamente la nostra percezione delle dimensioni del problema.

 

Gestire l’emergenza, una questione di organizzazione e cultura del margine

Tipicamente, in ogni crisi, dopo la fase dei prodromi, gli eventi critici si manifestano con velocità ed elevata intensità. La capacità di reazione si fonda sulla cultura del margine: in ogni attività servono ridondanze che impediscano operazioni ai limiti strutturali delle risorse umane, tecnologiche e finanziarie disponibili. La maggiore disponibilità di letti di terapia intensiva, di medici e di budget in Germania ne è un concreto esempio positivo. La riduzione dei servizi sanitari regionali e il debito pubblico in Italia rappresentano l’esempio opposto. Quale percezione avevano del servizio sanitario pubblico i gruppi che ritenevano di poterne fare a meno?

Nei manuali di disaster response il rischio biologico rappresenta una delle possibili opzioni di emergenza. Si ricorda il caso della SARS, detta sindrome acuta respiratoria grave, una forma di polmonite virale generata da un altro coronavirus. Fece la sua prima comparsa in Cina nella provincia del Guandong nel 2002. In pochi mesi si diffuse in altri 30 Paesi, per la maggior parte asiatici, e con pochissimi casi in Canada, Stati Uniti e in Europa. L’individuazione della SARS si deve al medico italiano Carlo Urbani, che prima di morire per gli effetti di questa infezione comunicò le sue importanti scoperte all’Organizzazione Mondiale della Sanità, lanciando l’allerta mondiale. Tra il novembre 2002 e il luglio 2003, nelle ragioni asiatiche coinvolte scoppiò una vera e propria epidemia.

Anche in virtù dell’esperienza vissuta, le comunità di alcune città asiatiche, come Hong Kong e Singapore, si sono rilevate più resilienti e preparate in queste settimane. Queste città hanno percepito rapidamente i segni del pericolo e hanno messo in campo soluzioni già codificate in via preventiva. Molte aziende avevano già costituito specifici Health & Safety Team responsabili della gestione di un’epidemia, della comunicazione al personale e della rapida implementazione di sistemi generali di smart working per le funzioni nelle quali questa modalità permette la continuità operativa. Per affrontare la crisi alcune organizzazioni avevano già raggruppato il personale in team separati, e avevano alternato le squadre tra i diversi siti produttivi con una frequenza di rotazione pari al periodo di incubazione della malattia. Le organizzazioni avevano inoltre vietato le conversazioni faccia a faccia tra persone di gruppi diversi durante le ore lavorative e non lavorative.

Queste soluzioni si erano già rimostrate ai tempi della SARS utili per sostenere la capacità dell’azienda di rassicurare i lavoratori e contenere la minaccia delle quarantene qualora una sola persona della squadra fosse esposta alla malattia. L’integrazione di competenze organizzative, logistiche, sanitarie e antropologiche rende possibile la continuità dei servizi minimi anche a beneficio delle comunità locali. Agire nella pandemia è percepita come una competenza organizzativa nelle aree che già hanno vissuto la crisi biologica.

 

Allenarsi all’antifragilità è necessario per tornare a progettare un futuro

Qualsiasi emergenza produce una fase di disfunzionalità, scombussolando le routine, gli equilibri e gli automatismi organizzativi. L’obiettivo dei programmi di emergency response è ricostruire una funzionalità rinnovata e diversa in un ambiente sconosciuto. Ritrovare il senso di comunità e la propria rete sociale serve per vincere la paura, e anche per condividere una percezione più oggettiva di quanto ci sta accadendo. In una comunità colpita da un’emergenza lunga, che ha colto di sorpresa le organizzazioni e che ha prodotto imponenti distruzioni materiali o immateriali, la questione del benessere mentale diventa una priorità. Fanno la differenza, anche rispetto alla lucidità individuale e collettiva nell’emergenza, l’attaccamento alle istituzioni e i comportamenti di cittadinanza organizzativa. Il senso di comunità, la capacità di impegno reciproco intorno a valori condivisi, un vissuto di connessione e condivisione e uno spirito di servizio sono tutte priorità da coltivare, se prima dell’evento non erano radici della cultura capaci di far fiorire comportamenti positivi diffusi.

Una corretta percezione della realtà ci permette di capire quali sono le categorie di popolazione più colpite dalla crisi e di cogliere le risorse disponibili per una possibilità individuale e collettiva di intervento. In un contesto fatalista le speranze, le ambizioni e la capacità stessa di sognare il futuro agonizzano sotto il peso della crisi e della paura del domani. Le persone non percepiscono la propria sfera di influenza sulla realtà. Un atteggiamento passivo prevale su quello attivo, il commiserarsi prevale sull’agire, la denigrazione di chi si attiva prevale sul riconoscimento delle persone che lavorano. Al di là del destino, chi è l’artefice del futuro?

La capacità di gestire i salti della storia va allenata lavorando sulla percezione della nostra forza. Alcune generazioni in Occidente, vissute in un contesto culturale connotato dal valore dell’individualismo, non sono abituate a usare il muscolo emotivo dell’antifragilità che le generazioni precedenti, nel dopoguerra, avevano dovuto allenare. La tendenza alla semplificazione è il riflesso ancora una volta dell’ansia di una comunità abituata ad avere il controllo di ogni processo, che scopre di essere oggi in balia degli eventi.

Come scriveva Eraclito, per darsi un destino bisogna avere un carattere. La parola perseveranza riassume la volontà di continuare a fare bene soprattutto in mezzo alle difficoltà e alle tribolazioni. Solo chi ha carattere accetta di percepire la realtà, anche nei suoi risvolti più drammatici, per quella che è: “Sì, è successo proprio a noi”.

 

 

Photo murales by Aarón Blanco Tejedor on Unsplash

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