La religione se lo merita

La questione che ruota intorno al tema “meritocrazia” potrebbe essere formulata in vari modi. Non solo perché riguarda il ruolo del “merito” rispetto alla salvezza dei soggetti (ossia: si salva solo chi se lo merita), ma anche perché attiene alle forme politiche e sociali moderne, nelle quali la sede del potere non è esterna, ma […]

La questione che ruota intorno al tema “meritocrazia” potrebbe essere formulata in vari modi. Non solo perché riguarda il ruolo del “merito” rispetto alla salvezza dei soggetti (ossia: si salva solo chi se lo merita), ma anche perché attiene alle forme politiche e sociali moderne, nelle quali la sede del potere non è esterna, ma interna al “popolo”. Se all’onore si sostituisce la dignità (Taylor), la tradizione del “merito” viene riletta potentemente, anche al di là della comprensione che le singole tradizioni propongono sul piano teologico della questione.
Io vorrei limitarmi qui a segnalare soltanto alcuni aspetti della “visione cattolica”, che spesso viene equivocata dagli stessi cattolici, oltre che dalle altre tradizioni cristiane, religiose e laiche.

Perdono e penitenza: un rapporto complesso

La prima cosa che deve essere “sfatata” è che il cattolicisimo, a differenza del protestantesimo, annunci un primato assoluto del perdono, senza considerazione della “pena”. Questo è piuttosto uno sviluppo delle prassi cattoliche che non una “visione compiuta” riferibile al cattolicesimo. In effetti, il punto di equilibrio tra “dono del perdono” e “lavoro del lutto e della memoria” costituisce una delle caratteristiche più delicate della tradizione penitenziale cristiana e cattolica. Il punto di distinzione, rispetto al protestantesimo, non è la correlazione tra grazia e lavoro, ma l’esercizio della autorità, che nel sacramento della penitenza è attribuita al “ministro ordinato”, che determina la entità del “lavoro penitenziale”, sottraendone la decisione alla coscienza del peccatore, come invece accade nella tradizione protestante. In tal modo, come è evidente, e anche se le prassi si sono grandemente scostate da questa visione, resta decisivo correlare dono e lavoro per entrare in un percorso di penitenza. Il “merito”, quindi, non riguarda il rapporto con la grazia, ma la forma della risposta umana al dono divino di misericordia.

Grazia e libertà nella società in evoluzione

Un altro punto qualificante, in questa complessa vicenda, è rappresentato dal rapporto tra “etica protestante” e “spirito del capitalismo” (Weber). Alcuni aspetti della tradizione protestante – non tanto di quella luterana, quanto di quella calvinista e riformata – inclinano ad una lettura del “dovere etico” come cuore della relazione di servizio a Dio. In tal modo, inavvertitamente, la “obbedienza alle leggi dello stato” (e del mercato) possono diventare la realizzazione del regno di Dio, con uno spazio esiguo di autonomia lasciato al soggetto. In tal modo, a partire dal XVII secolo, progressivamente, la tradizione cattolica ha scoperto una “maggiore autonomia” rispetto a quella protestante nel concepire una differenza tra “obbedienza alla legge” e “obbedienza a Dio”. Ed è forse singolare che sulla porta del Campo di concentramento di Auschwitz si leggesse la frase: “Arbeit macht frei”, ossia “il lavoro rende liberi”. L’ideologia del lavoro e la ideologia del “senso dello stato” non garantiscono solo la “efficienza”, ma anche la “perdita del limite”. La autonomia cattolica dalla idealizzazione del lavoro e dello Stato permettono anche di ridimensionarne distorsioni e patologie.

Conseguenze politiche di queste differenze

E’ legittimo domandarsi se, in contesto cattolico, la “meritocrazia” sia sostanzialmente impossibile. Credo di sì e credo che questo non sia solo un male. Una società meritocratica è, inevitabilmente, una società violenta. Guardando al mito del “merito” – ossia fondandosi sulla pretesa di autodeterminazione del proprio destino – essa perde la “sporgenza dell’altro”, sia esso Dio sia esso prossimo. Dio e il prossimo sono, in fondo, la condizione perché il mio merito debba trovare condizioni ulteriori e non possa essere assolutizzato. Detto altrimenti, la “meritocrazia” è una degenerazione della “democrazia”, perché dimentica ciò che un grande giurista come Wolfgang Beockenfoerde ha affermato a ragione. Ossia che “la democrazia vive di condizioni che essa non può assicurare”. In altri termini, alla radice della giusta composizione di “diritti e doveri” – che la democrazia assicura – c’è una esperienza “donata” della esistenza, che non si riesce mai a comprendere e a gestire soltanto con la logica del “merito”. Non si nasce e non si muore per merito. Non si gode di buona salute e non si è amati per merito. Questo mistero, se proviamo a ridurlo al merito, lo deformiamo, lo stravolgiamo, lo deturpiamo, fino a perderlo.

Non solo il cattolicesimo, ma tutte le tradizioni religiose, senza trascurare il merito, non si illudono di farne la chiave della esistenza. Lasciano sempre aperta la porta, stretta e piccola, per la quale il bene può irrompere nella esistenza, come una grazia immeritata. Il bene che irrompe dall’alto di Dio e del prossimo è la condizione della mia risposta “in merito”. Su questa delicatissima dialettica – in equililibrio tra grazia che previene e libertà che corrisponde – la tradizione cattolica ha ancor oggi qualcosa da dire, purché non siano anzitutto i cattolici stessi a darne una versione caricaturale e inattendibile.

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