L’agricoltura biologica vende, ma non sempre paga

I vari aspetti del bio nel settore primario tra frodi, scetticismi e tutela dei territori. E un sistema di controlli non proprio inattaccabile.

Valorizza la naturale fertilità del suono, difende la biodiversità di piante e animali, esclude l’utilizzo di pesticidi e organismi geneticamente modificati. Questi – ma non solo – sono e dovrebbero essere i capisaldi dell’agricoltura definita biologica, che nel tempo ha saputo raccogliere sempre più consensi e messe in pratica virtuose. Un’adesione in crescita, anche in termini di fruitori (alias consumatori), ma che allo stesso tempo deve affiancarsi alla necessità di tenere altissima la guardia perché le insidie degli improvvisati e di coloro che strumentalizzano il termine bio come specchietto per le allodole è sempre dietro l’angolo.

Il possibile effetto negativo è chiaro, e va a discapito di chi l’agricoltura biologica la pratica seriamente e di coloro che si trovano nel piatto cibo tutt’altro che sano e “tutelato”. A proposito di tutele: è recente la notizia che la stessa Federazione europea dei lavoratori alimentari, agricoli e del turismo (EFFAT) ha chiesto il divieto immediato del glifosato, erbicida definito cancerogeno anche dalla IARC dell’OMS. La cattiva notizia è che l’utilizzo massiccio di pesticidi ha impattato negativamente anche sulle aree che non sono state trattate da essi.

Con SenzaFiltro vogliamo immergerci in questo articolato terreno tematico, il biologico, irrigato da buoni intenti ma costellato anche da aspre insidie.

Se il biologico non fa male, non fa neanche così bene: la tesi di Francesco Burlini

La nostra analisi parte da alcune riflessioni di Francesco Burlini, veterinario, agricoltore, allevatore e, come si definisce lui stesso, ambientalista che combatte i “falsi ambientalisti”.

Questa sua battaglia è stata condensata nel libro Eresie ambientaliste (Gilgamesh Edizioni), un testo che divide e mette in forse alcuni aspetti cardine del biologico. “L’azienda di mio padre è stata la prima a usare il metodo della lotta biologica nel 1973, una vera scelta pionieristica per quei tempi”, racconta. “Allora si utilizzavano diserbanti tremendi, mio padre si lamentava di questi veleni e ha voluto cambiare perché facevano ammalare”.

Sono vari gli aspetti che fanno parecchio scaldare l’animo di Burlini: “Ci sono agricoltori che sfruttano il marchio del biologico per ottenere visibilità e fondi, e non per vero interesse nei confronti dell’ambiente. In più nel biologico le aziende pagano i controllori che rilasciano loro la certificazione: una bella contraddizione”.

Burlini punta il dito su altri aspetti descritti nel suo libro, sostenendo che l’agricoltura biologica non si è evoluta e che non è vero che sia meno impattante rispetto a quella tradizionale. Eresie o stereotipi?

Lucio Cavazzoni, ex AD di Alce Nero: “C’è il bio che cerca guadagni e quello che tutela i territori”

Interpelliamo una delle voci più importanti del panorama biologico italiano: quella di Lucio Cavazzoni. Ex amministratore delegato di Alce Nero, ha contribuito alla nascita di realtà come Libera Terra Mediterraneo, Coop Sin Fronteras, Mediterre.bio. Attualmente è presidente di Goodland Srl.

Partiamo subito in quarta: considerando la problematica delle frodi da parte di chi sfrutta il bio per interessi personali e quella dei controlli non sempre attendibili, oggi qual è lo stato dell’arte del biologico? “Il tema delle frodi è sicuramente reale – risponde Cavazzoni – e purtroppo esiste in tutti gli ambiti lavorativi e della società, così come quello dei certificatori in diversi casi focalizzati sul business e non su una funzione di monitoraggio e guida, così come dovrebbe essere. Ma non è questo il problema principale del biologico, secondo me”.

E dove riscontra i principali elementi critici? “Nella sua commodizzazione, o meglio banalizzazione. Il biologico nasce per la sua forza propulsiva come inno alla vita e con la volontà di connettersi con il pianeta, creando coesistenza e partendo dalla consapevolezza di una interdipendenza profonda di cui vediamo concretamente con gli effetti sul clima e territori. Il pericolo è quindi pensare di fare agricoltura biologica seguendo una semplice ricetta, visto che la Commissione Europea ha stabilito in che cosa consiste fare biologico. Porto un esempio: anni fa in California ho visitato un campo di fragole di duecento ettari, a monocoltura, dove lavoravano messicani che comprendevano bambini e persone anziane, pagati pochissimo. Questa sarebbe l’azienda biologica più storica e famosa del contesto? Non direi, viste le varie contraddizioni. Altri esempi di banalizzazione sono le grandi industrie che dichiarano di fare prodotti biologici solo perché nei loro biscotti ci mettono dentro lo zucchero e la farina biologica; poi magari ci aggiungono conservanti e aromatizzanti. Non ha senso!”.

Per arginare questa banalizzazione selvaggia e tutelare chi fa il biologico vero che cosa proporrebbe di fare? Magari stringere le maglie dei criteri richiesti? “No, sarebbe inutile. È fondamentale fare passi avanti sul biologico lavorando sui grandi temi culturali, ambientali e sociali e per una sostenibilità vera. Questa oggi è la vera sfida: l’industria è interessata ai mercati, a noi interessano i territori. Ci sono tanti esempi di tutela del biologico che i fruitori stessi possono sostenere”. Tipo? “I mercati contadini, le occasioni in cui c’è relazione diretta tra chi produce e compra, l’incremento di fruitori del biologico, la ripopolazione delle campagne dove gli agricoltori hanno un ruolo di custodi del territorio: questi sono tutti passi avanti”.

Una lacuna del biologico che andrebbe risolta? “Bisogna continuare a evolvere con coerenza”, commenta Cavazzoni. “Prendo come esempio i biodistretti, che non sono una semplice accozzaglia di agricoltori, ma hanno l’intento di riportare una vita sana per tutti. Ecco, in questi distretti mi aspetto che ci si arrivi in bicicletta o con i mezzi pubblici, non in auto da lasciare in un grande parcheggio, come accade in alcuni casi”.

Simone Clarabella, mentre lavora in vigna

Cascina Clarabella, la Franciacorta dell’agricoltura biologica e sociale

Raggiungiamo il cuore della Franciacorta, sul territorio bresciano, dove ha sede Clarabella, cooperativa agricola e sociale onlus che fin dall’inizio ha voluto mettere in pratica con scrupolo e serietà l’agricoltura biologica, affrontando sfide e raggiungendo numerose soddisfazioni. A raccontarcele è Aldo Papetti, vicepresidente della coop ed enologo.

“Clarabella è nata nel 2002 da un’altra realtà per dare occasione di inclusione lavorativa a persone con disturbi e disabilità psichici”, spiega. “Il biologico ha rappresentato subito un caposaldo per noi: prendendoci cura delle persone non potevamo non farlo anche con la terra e i suoi prodotti”.

Agricoltura sociale e biologica formano così un connubio inscindibile per la cooperativa bresciana, che dà vita al primo vigneto nel 2003: “Noi siamo la seconda azienda in Franciacorta ad aver adottato il biologico; pioniera è stata l’azienda Barone Pizzini, con cui abbiamo un rapporto di collaborazione”.

A dimostrazione che il vero biologico non è la banale esclusione di utilizzo di certe sostanze, ma l’attenzione profonda a tutto ciò che si sta facendo, Clarabella si distingue da molte realtà perché fa analizzare i terreni che coltiva: “In Franciacorta si è creato un polo di agronomi professionisti, il gruppo SATA, che segue le aziende specializzate sul biologico e sta facendo un bellissimo lavoro, tra cui appunto l’analisi dei terreni”, spiega Papetti. “Noi siamo associati a questo gruppo e ogni tot facciamo fare le analisi. Certo, hanno un costo, ma almeno c’è un vero controllo sulle sostanze presenti nella terra”.

Aldo Papetti, Cascina Clarabella: “Nel bio le grandi aziende riescono a eludere i controlli”

Addentrandoci nel tema lavorativo chiediamo quale sia l’aspetto più faticoso da affrontare per chi quotidianamente, nel proprio lavoro imprenditoriale e agricolo, ha scelto la strada del biologico.

“Sicuramente il tempo, perché richiede più ore di lavoro, e i costi di gestione”, sottolinea Papetti. “Pensiamo ad esempio alle erbe infestanti: anziché usare il diserbante noi facciamo dei movimenti nella terra: un lavoro più impegnativo, ma che tutela dalle sostanze nocive”. E aggiunge: “Il biologico per sua caratteristica subisce ancora di più il meteo; non dimentichiamo annate difficili come quella del 2014, con una primavera e un’estate fortemente piovose, e anche quella del 2016. Se però le annate vanno bene traiamo doppio vantaggio”.

Tocchiamo il tasto dolente dei controlli: “Questo è sicuramente un tallone d’Achille per l’ambito. Per mia esperienza però ho trovato certificatori che sono sempre andati al fondo delle questioni. Il pericolo è più che altro a livello delle grandi aziende, che se cercano di fare le furbe in qualche modo purtroppo ci riescono”.

Affrontiamo infine un argomento spinoso, ossia la sfida del fare biologico in un territorio, quello bresciano, carico di bellezze e risorse, ma anche fortemente martoriato dall’inquinamento industriale: “Sì, si tratta di un territorio massacrato. Per fortuna le colline e la Franciacorta sono state meno colpite, ma ci sono zone, come quella della bassa bresciana, dove liquami e nitrati hanno avvelenato i terreni. Il problema della Franciacorta è avvenuto più che altro negli anni Ottanta e Novanta, dove ci hanno dato dentro parecchio con i diserbanti. Oggi con soddisfazione possiamo dire che grazie all’impegno degli agronomi del gruppo SATA la Franciacorta è quasi per metà a produzione biologica e con terreni controllati. Noi di Clarabella e altri abbiamo dimostrato che fare biologico è possibile”.

Photo by Zoe Schaeffer on Unsplash

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