Le dimissioni del Terzo Millennio

Yuko Obuchi ha un nome e cognome di poche lettere che al di fuori del Giappone non dicono nulla e nessuno. Lo scorso ottobre ha lasciato l’incarico di Ministro dell’Industria dopo che erano state accertate nei suoi confronti accuse di peculato per aver utilizzato soldi pubblici in acquisti di creme di bellezza, una spesa di […]

Yuko Obuchi ha un nome e cognome di poche lettere che al di fuori del Giappone non dicono nulla e nessuno. Lo scorso ottobre ha lasciato l’incarico di Ministro dell’Industria dopo che erano state accertate nei suoi confronti accuse di peculato per aver utilizzato soldi pubblici in acquisti di creme di bellezza, una spesa di oltre 10 milioni di yen. Più o meno 75 mila euro utilizzati a scopo personale tra il 2007 e il 2012. Nel 2008 era stata Ministro di Stato per gli Affari sociali e per l’uguaglianza di genere: sarebbe potuta passare alla storia come il più giovane membro di un governo giapponese dal dopoguerra ad oggi o come ministro responsabile per il ripristino dell’industria nucleare in Giappone dopo Fukushima. Verrà invece ricordata per le sue dimissioni e per la sua vanità in tubetti.

Per chi lavora con un contratto di lavoro dipendente, le dimissioni dovrebbero essere il più grande strumento di libertà. La cronaca, per lo più politica, ci ha invece abituati a pensarle come la bandiera bianca di chi è stato costretto a gettare la spugna per scarso senso di responsabilità. Nel mondo aziendale le dimissioni sono l’atto unilaterale per eccellenza: nessun obbligo di motivazione, giusto il rispetto del preavviso previsto dal contratto. Da qualche anno, tutta l’attenzione sui temi del lavoro si è completamente sbilanciata sulla sola questione del licenziamento, con tutto quello che ne è seguito tra giuste cause e meno giuste strumentalizzazioni. Quando si parla di lavoro sembra non esista più altro. A chi lavora si ricordano soltanto i doveri, i rischi e i possibili scenari su come entrare o uscire dai contratti, come se nel mezzo il lavoratore cessasse di esistere. Ci siamo abituati a dimissioni talmente dibattute e invocate, che alla fine l’atto unilaterale di chi le rassegna diventa quasi un atto pubblico, anzi plateale. Del resto, la politica è sempre stata di tutti e di nessuno.

Sarà forse per via di questo condizionamento mediatico che non riusciamo più a dare un valore alle dimissioni che arrivano dal settore privato dove lasciare il lavoro è ancora un gesto di libertà, almeno visto da fuori.
Sulla recente notizia dell’addio annunciato dal Direttore finanziario di Uber vale la pena di riflettere perché le fonti delle notizie possono fare la differenza. Io l’ho saputo leggendo Il Sole 24 Ore, che titolava così: “Uber, lascia l’artefice della crescita boom. È il morbo del Cfo scoppiato?”. Inevitabile immaginare che la causa delle dimissioni fosse stato un motivo di salute o uno stato prolungato di impegni, al punto da logorare il brillante cinquantenne Brent Callinicos dopo che aveva ricoperto quel ruolo per 15 anni in Microsoft, per 6 in Google e per 2 nella giovanissima startup californiana esplosa in tutto il mondo e da lui portata all’apice del fatturato. La sorpresa è stata invece intercettare la notizia alla radice e scoprire, anche qui almeno da fuori, che tutto questo dramma poi non c’era.

Nella mail di Callinicos allo staff di Uber, tutto sembra tranne che a scriverela sia stato uno scoppiato. Piuttosto, si legge nelle sue parole una grande verità: l’importanza del limite, finché si è in tempo. Time has a way of passing quickly, easily leaving your heart’s desire to “maybe happen later.” For me, there is no later. It is now. It is time to do what I have desired for a very long time; time to keep a promise to my wife of not missing another school play, swim meet, or academic achievement of our daughter’s childhood.  Time; time; time, to encapsulate what matters most to me; time, to admit that every day I work, I lose time with my family; time, to help my daughter understand how important time is before time becomes a blur to her too. It is simply time.

L’Italia, intanto, non cede il podio del Paese europeo col più basso numero di impieghi nella vita professionale dei suoi cittadini: in media due lavori, contro i quattro francesi e i cinque danesi. Che vuol dire una durata parecchio lunga del rapporto medio di lavoro, pari a circa 15 anni. Eppure siamo al tempo stesso il Paese con gli scudi sempre alzati contro immobilismi e privilegi finché quella stabilità non tocca un nostro figlio o un familiare.

Abbiamo confuso flessibile con precario, responsabilità con privilegi e dimissioni con atto dovuto.
Uber ci insegna che il lavoro è ancora una forma di espressione del chi siamo.
Ce lo conferma persino Papa Bergoglio che in più occasioni, e in modo nemmeno velato, ha ammesso la possibilità di scegliere una fine anticipata per il suo mandato: portarlo avanti è faticoso e il tempo per se stessi è troppo poco. Fonti vaticane a lui vicine non smentiscono quanto riportato pochi giorni fa da Valentina Alazraki della tv messicana Televisa sull’ipotesi delle dimissioni: che non vuol dire mi dimetto ma magari mi riservo. Un secondo Papa che dovesse allinearsi all’ipotesi di un pontificato dimissionario avrebbe quasi la forza del precedente giudiziale nei sistemi anglosassoni. Fino a due anni fa tutto questo sarebbe sembrato inarrivabile anche solo col pensiero.

Secondo la testata cattolica Zenit, dopo la sua storica rinuncia Ratzinger spiegò così il perché di quella scelta: Me l’ha detto Dio e la questione si fa già più complicata. Se davvero fosse stato il suo datore di lavoro a chiedergli di fare il passo, non sapremmo come venirne fuori perché l’illegalità delle dimissioni in bianco continua a interessare le riforme del lavoro – dalla Fornero a Renzi – senza che nessuno ci abbia però messo ancora un punto.

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