Le insospettabili canzoni degli emigranti

Fino agli anni Settanta del XX secolo sono tanti gli italiani che per trovare lavoro devono cambiare città o paese. Le direttrici dell’emigrazione che cambiano radicalmente la distribuzione demografica della penisola sono tre: ci si sposta dalle campagne o dalle colline verso le città, dal sud verso il nord e dall’Italia verso l’estero, con mete […]

Fino agli anni Settanta del XX secolo sono tanti gli italiani che per trovare lavoro devono cambiare città o paese. Le direttrici dell’emigrazione che cambiano radicalmente la distribuzione demografica della penisola sono tre: ci si sposta dalle campagne o dalle colline verso le città, dal sud verso il nord e dall’Italia verso l’estero, con mete d’elezione privilegiate come gli Stati Uniti, il Canada e l’Europa centrale.

Sono così tanti gli italiani a muoversi che ben presto gli autori delle canzoni si accorgono di loro, e di quanto il sentimento di nostalgia per la patria lontana sia un eccezionale volano per la commercializzazione dei dischi: i racconti sentimentali si vendono in quanto i destinatari si identificano con i protagonisti delle canzoni. Se nell’anteguerra la nostalgia era stata ammannita agli italiani all’estero tramite un artefatto recupero del folclore che confezionava artefatte melodie a carattere popolaresco, è dagli anni Cinquanta in poi che l’emigrazione diventa un topos della musica leggera italiana, destinato a diradarsi per poi scomparire del tutto nel giro di appena vent’anni.

Il Festival di Sanremo, vetrina della canzone italiana all’estero, presenta le prime storie d’emigrazione e di straniamento. Nel 1952 il tema compare per la prima volta in un motivo di D’Anzi e Salerno cantato da Gino Latilla: «Un disco dall’Italia» racconta della commozione e della nostalgia che, in una casa di italiani d’America, provoca l’arrivo per posta di un disco di «quel tenorino languido». Nel 1958 ancora Gino Latilla e Natalino Otto cantano «Tu sei del mio paese», di Testa, De Giusti, Biri e Carlo Alberto Rossi, incontro tra un lavoratore e una lavoratrice arrivati in città che si riconoscono e trascorrono insieme, confortati dalla reciproca familiarità, il giorno di pausa festivo.

E’ sempre uguale questa vita di città
non sembra festa la domenica
girando per le strade
la gente non ti vede

Già, il paese. L’heimat del protagonista delle canzoni italiane è raramente l’Italia, mai la regione o la città. Le nostalgie sono indirizzate altrove, al borgo appenninico o alla cittadina di pianura abbandonati per la metropoli. Gli uomini partono per primi, lasciando le donne ad attenderli, come Wilma Goich nel Sanremo 1965 («Le colline sono in fiore»)

Amore, ritorna, le colline sono in fiore, ed io, amore, sto morendo di dolore

La solitudine dell’emigrato e il suo senso di inadeguatezza di fronte alla città e alle sfide della tecnologia sono al centro di «Ciao amore ciao», il motivo presentato da Luigi Tenco al Festival di Sanremo 1967, canzone che deve tutta la sua notorietà alla tragica scomparsa del cantautore la sera della sua eliminazione, ma che presenta un punto di vista crudo, diretto, quasi post-neorealista fino ad allora inedito nel repertorio festivaliero.

Non saper fare niente in un mondo che sa tutto
E non avere un soldo nemmeno per tornare

L’emigrante delle canzoni ha miglior fortuna quando si abbandona alla nostalgia, o quando, in un perenne «addio ai monti» contempla il borgo natìo alla vigilia di una inevitabile partenza («Che sarà», Ricchi e Poveri e José Feliciano, 1971).

Paese mio che stai sulla collina, disteso come un vecchio addormentato…

Tra l’emigrante di Luigi Tenco e quello di Franco Migliacci e Jimmy Fontana, autori di «Che sarà», sembra passino più di quattro anni. Se il protagonista di «Ciao amore ciao» partiva per bisogno, quello di «Che sarà» sembra lasciare le sue origini per cercare qualcosa di più adeguato alle sue aspettative

…La noia, l’abbandono il niente sono la tua malattia, paese mio, ti lascio e vado via

E se in Tenco andarsene sembrava quasi un atto di eroismo solitario, in Migliacci-Fontana si sa di non essere soli

Gli amici miei son quasi tutti via, e gli altri partiranno dopo me

Negli anni Settanta, del resto, anche le donne iniziano a raccontare storie di emigrazione, come la siciliana Marcella Bella nel motivo d’esordio «Montagne verdi» presentato a Sanremo 1972

Poi un giorno mi prese il treno: l’erba, il prato e quello che era mio scomparivano piano piano…

E anche i complessi «beat» finiscono a raccontare le storie degli italiani che tornano a casa nelle settimane del riposo estivo trovando conforto nella propria lingua e nel calore della donna amata («Casa mia» Equipe 84, 1971)

Torno a casa, siamo in tanti sul treno,
Occhi stanchi, ma nel cuore il sereno
Dopo tanti mesi di lavoro mi riposerò…

Sono ancora i Ricchi e Poveri nella quasi sconosciuta «Un diadema di ciliegie» (1972) a segnare l’inversione di tendenza. Dal paese si parte per incatenarsi a una «catena di montaggio», ma è al paese che si vuole fare ritorno.

cielo blu del mio paese
oggi io ritorno da te

Dalla metà degli anni Settanta l’immigrazione delle canzoni torna un’esperienza lontana, non più contemporanea. Il «Pablo» di Francesco De Gregori (1975), come anni dopo il suo «fuochista» e i suoi «ragazzi di terza classe» (1982) sono racconti ambientati in un mondo diverso da quello dal quale proviene il cantautore, come del resto l’uomo descritto da Mario Castelnuovo alla vigilia della partenza in «Madonna di Venere» (1987). A strizzare l’occhio a chi ha un paese da rimpiangere restano solo Al Bano e Romina Power

Nostalgia, nostalgia canaglia di una strada, di un amico, di un bar
Di un paese che sogna e che sbaglia
Ma se chiedi poi tutto ti dà.

A emigrare, ormai, non sono più gli italiani, e nel 1992 una canzone di Sanremo racconter per la prima volta i disagi degli stranieri arrivati in Italia in cerca di fortuna: è «La casa dell’imperatore» della Formula 3, scritta dallo stesso Mario Castelnuovo.

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