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Le pause forzate de l’Unità
Una pausa di dieci mesi, epilogo di una storia iniziata nel 1924, in pieno fascismo, da un ambizioso progetto politico editoriale voluto dal fondatore del Partito Comunista Italiano, Antonio Gramsci. Poi il 30 giugno 2015 la rinascita, imprevista, all’insegna dell’ortodossia renziana, che i fautori vorrebbero come quella dell’Araba Fenice ma che soltanto il tempo potrà […]
Una pausa di dieci mesi, epilogo di una storia iniziata nel 1924, in pieno fascismo, da un ambizioso progetto politico editoriale voluto dal fondatore del Partito Comunista Italiano, Antonio Gramsci. Poi il 30 giugno 2015 la rinascita, imprevista, all’insegna dell’ortodossia renziana, che i fautori vorrebbero come quella dell’Araba Fenice ma che soltanto il tempo potrà definire tale. Quando nell’agosto del 2014 gli azionisti de l’Unità decisero di chiudere i battenti dopo 90 anni di pubblicazioni nell’alveo della storia d’Italia, nessuno avrebbe immaginato che sarebbe stata una pausa. Tutti pensarono che fosse conclusa una lunga e complessa storia editoriale. Ora il quotidiano nella sua nuova veste è controllato dalla famiglia di costruttori Pessina – che ne detiene la maggioranza, mentre una quota minoritaria è in mano al Partito Democratico, ma è stato Matteo Renzi a volerne la rinascita, mettendo alla direzione del giornale un suo uomo: Erasmo de Angelis, toscano, ex giornalista del Manifesto, già sottosegretario nel governo Letta. Vedremo nei prossimi mesi se si tratta davvero di rinascita o di un fuoco effimero ma per capire perché si è arrivati alla pausa del 2014 bisogna metter mano alla storia del quotidiano e ad alcune ragioni che lo hanno spinto verso il precipizio.
La prima vera pausa arriva nel lontano 1926, quando il governo guidato da Benito Mussolini decide d’imperio di chiudere l’Unità e di mettere in carcere il suo fondatore. Il quotidiano entrerà in clandestinità, stabilirà la sua sede in Francia, a Lille, e tornerà in edicola nel 1944, un anno prima della liberazione. Il Dopoguerra è un periodo chiave per capire le sorti future del quotidiano fondato da Antonio Gramsci: in quegli anni l’idea del leader massimo del Pci, Palmiro Togliatti, era di costruire un partito di massa e di conseguenza un giornale di partito che diventasse però punto di riferimento di grandi masse proletarie e al tempo stesso luogo delle elite intellettuali antifasciste come fu, ad esempio, per Elio Vittorini e Cesare Pavese. Il progetto di Togliatti regge fino al 1970 quando il quotidiano supera ampiamente le 200 mila copie di vendita, grazie anche a una distribuzione militante porta a porta. Ma all’inizio degli anni ‘80 l’idea originaria comincia a scricchiolare, le leggi del mercato prendono il sopravvento e la formula “organo di partito” non funziona più. Lo intuisce Eugenio Scalfari che nel 1976 fonda la Repubblica con l’obiettivo esplicito di dare al popolo di sinistra un quotidiano. L’Unità resta comunque punto di riferimento di un’area politico sociale ma le vendite sono in calo. E nel 1989 arriva la grande svolta. Con la caduta del muro di Berlino, l’Unità cambia pelle: da giornale del Partito Comunista a giornale fondato da Antonio Gramsci.
Nel 1994 Walter Veltroni mette da parte la tradizionale diffidenza dei comunisti verso il mercato e, in veste di direttore, lancia la politica dei gadget, (videocassette, libri, figurine), che affiancano il quotidiano. All’inizio l’esperimento riesce, viene vissuto come una novità, ma dopo qualche anno mostra la corda. Così per la prima volta nella sua storia il quotidiano viene affidato a imprenditori privati – negli anni passati i gestori erano Pci e Pds) – ma neppure questa scelta riesce a fermare la crisi endemica del giornale. E nel 2000 arriva un’altra pausa: il quotidiano cessa le pubblicazioni per circa un anno e anche allora si pensa che sia l’ultimo atto. Non è così. Negli anni del berlusconismo vincente, l’Unità viene affidata ad alcuni giornalisti bravi e indipendenti: Antonio Padellaro e Furio Colombo. Il progetto editoriale regge bene per un po’, il popolo antiberlusconiano e la Cgil di Cofferati guardano con simpatia alla nuova gestione ma poi i nuovi direttori entrano in rotta di collisione proprio con il Pd guidato da Massimo D’Alema. Dopo quest’ultimo tentativo altri direttori tentano di evitarne il naufragio, ma la storia del quotidiano sembra segnata da una crisi più generale che investe nel 2008 tutta la carta stampata. Si arriva così all’ultima pausa. Ora il quotidiano cambia di nuovo pelle. La scommessa, già segnata da polemiche interne al Pd, è ardua ma va salutata e accolta come una buona notizia almeno per un motivo: in un mercato giornalistico asfittico e precario, un po’ di occupazione in più non guasta.
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