Le risorse umane hanno abdicato?

(in collaborazione con Osvaldo Danzi) Il ruolo del direttore del personale è profondamente cambiato. Si è modificato, infatti, il principale interlocutore, l’organico aziendale, diverso per composizione e motivazioni. Non tutti, però, sembrano essersene resi conto. A mio avviso questo rende  la direzione del personale “inconsapevole” di tale importante cambiamento a rischio di errata interpretazione del […]

(in collaborazione con Osvaldo Danzi)

Il ruolo del direttore del personale è profondamente cambiato. Si è modificato, infatti, il principale interlocutore, l’organico aziendale, diverso per composizione e motivazioni. Non tutti, però, sembrano essersene resi conto.
A mio avviso questo rende  la direzione del personale “inconsapevole” di tale importante cambiamento a rischio di errata interpretazione del proprio ruolo e di miope “arroccamento” su posizioni ormai superate, trincerandosi nei meandri di ipertrofie professionali, aggrappandosi a vecchi schemi di relazioni industriali, e rinchiudendosi nei soli temi noti al mondo delle risorse umane.

Il direttore del personale deve ora percepire come inderogabile la necessità di abbandonare il ruolo, per molti irrinunciabile, di consigliere personale e di supporto psicologico del dipendente, per riconvertirsi in un manager con obiettivi economici, partecipando e dando il contributo alla realizzazione delle strategie di business aziendali. Infine, deve farsi tutore e promotore del capitale umano, da intendersi nell’accezione economica del termine.

Il dilemma interpretativo di tale ruolo, se irrisolto, può rappresentare un grave rischio. Veniamo da un periodo di profonda crisi del sistema industriale che, se da un lato ha portato ad investire in modo costante sulla razionalizzazione del capitale umano d’azienda, dall’altro ha  prodotto una proliferazione di strumenti molto invasivi dal punto di vista psicologico e sociologico. Le analisi delle competenze, gli assessment center e le valutazioni del potenziale, molto spesso hanno travalicato gli obiettivi loro propri, smarrendo la correlazione con il mezzo e la finalità loro propria, e divenendo così strumento autoreferenziale essi stessi.

Non è possibile negare che si è registrata un’abdicazione alle nostre responsabilità di direttori del personale, assegnando in outsourcing quanto appartiene alla nostra esclusiva competenza. La crisi di ruolo “sta mandando a casa” – a mio parere giustamente – le direzioni del personale che non si sono rivelate in grado  di giocare un ruolo economicamente utile, riqualificando le risorse in campo, sfruttandone adeguatamente le competenze, esplorando nuove forme contrattuali e massimizzando il beneficio per l’azienda del rapporto tra costo e competenze. Si è scelta spesso la strada più semplice, perdendo di vista le soluzioni che avrebbero potuto rivelarsi, nel tempo, più lungimiranti ed efficaci.

Investire su strumenti esterni iper-specialistici si è confermato una sostanziale pigrizia nella ricerca, e una correlata incapacità nella lettura di ciò che si può rivelare veramente utile per un’organizzazione al passo con i cambiamenti di volta in volta necessari. Le direzioni del personale che non sono state in grado di rivoluzionare il proprio ruolo e rivedere le proprie priorità si sono dimostrate così avulse dal contesto  aziendale da rappresentare, per esso, solo un costo, senza saper offrire alcun vero valore aggiunto.
A mio avviso la soluzione è un autentico ritorno alle origini, che consenta di riappropriarsi della capacità di promuovere, dirigere e governare l’investimento efficace sul lavoro, evitando l’approccio psicologico nel rapporto con il dipendente. Si deve, cioè, avviare un percorso di ottimizzazione, in termini di costi-benefici, dello scambio tra professionalità, compenso economico, opportunità di sviluppo e necessità aziendali.

Oggi le opportunità di crescita personale e il know-how di partenza sono così ricchi ed eterogenei da rendere auspicabile e conveniente, per l’azienda, concentrarsi maggiormente sulla propria offerta, modificando radicalmente il contratto sociale. Infatti, la predisposizione ad un rapporto da dipendente di fantozziana memoria ha lasciato il posto a valori profondamente diversi e, con essi, all’aspirazione a nuovi benefit. Un  esempio tra tutti è la presenza fisica sul luogo di lavoro nelle organizzazioni innovative, che ha perso del tutto la propria rilevanza. Le funzioni del personale, che non hanno però ancora colto l’importanza di individuare i driver da seguire, brancolano ancora nel buio, generando una significativa e preoccupante destabilizzazione.

I fenomeni espulsivi registrati in questi anni di crisi e l’uscita dalle aziende di un numero molto elevato di manager, formatisi su modelli di business superati e non competitivi, hanno portato alla proliferazione di offerte di coaching e counselor, e di supporto consulenziale, poco rilevanti e a basso impatto, con scarsissime probabilità di vedere l’alba del giorno dopo. Il mestiere del coach è impegnativo come quello dello chef, e l’essere in grado di preparare un piatto di pasta non deve portare a pensare di poter aprire un ristorante, così come non è sufficiente essere stato manager per diventare un bravo consulente, capitandomi spesso di imbattermi in consulenti  del tutto anacronistici.
Pertanto, preferisco una risorsa in azienda che giochi tutte le sue carte da sola, senza assistenza, piuttosto che risorse governate e manovrate da un coach fuori tempo. Ritengo che l’errore possa legittimamente, e a pieno titolo, essere considerato un passaggio obbligato per chi desidera giocare il proprio ruolo professionale. Occorre distinguere l’errore dal fallimento: commettere errori è fondamentale per essere resilienti. Sarebbe pertanto opportuno riuscire a veicolare in tale direzione la mentalità delle aziende eccessivamente orientate verso l’ idolatria dell’efficientismo. Oltre ad avere una portata fortemente innovativa, pensare di poter considerare l’improduttività, associata all’errore, elemento di vitalità e rinnovamento, può rappresentare un’effettiva opportunità, per l’azienda, di affrontare sempre nuove sfide.

Mi domando infine se la causa di questa crisi del capitale umano non possa essere ricercata anche nel fatto che, negli ultimi vent’anni, si è puntato troppo e, solo, su efficientismo e ristrutturazioni. Le direzioni del personale incidono molto sull’employer branding e, con esse, le direzioni generali e la proprietà.

Se la gestione delle risorse umane viene focalizzata unicamente sui temi del controllo maniacale degli orari di presenza, le relazioni industriali si riducono ad un mero strumento di sterile concertazione, se si punta su un coaching orientato a temi soft, quali team building, change management, innovation, estranei ai reali bisogni del business, si rischia che l’azienda non riesca ad alimentare e promuovere il passaggio dalla teoria alla pratica, generando un effetto di significativa e dannosa disaffezione.

I temi strategici finiscono per essere banalizzati e  relegati a gradevoli esperienze di outdoor, senza  beneficio alcuno in termini di impatto sul lavoro e con una rilevante, e non auspicabile, ricaduta negativa sulla motivazione del personale.

Concludo parafrasando il titolo di un saggio di Boldizzoni di qualche decennio fa, che auspicava la possibilità di creare valore aziendale attraverso il capitale umano ridisegnando, con coraggio, un nuovo paradigma di gestione delle risorse umane. Come direttori del personale siamo chiamati a rilanciare, con piena consapevolezza e rinnovato entusiasmo, il nostro ruolo di promotori del binomio sviluppo del business – valorizzazione del capitale umano, assumendo appieno le nostre responsabilità di gestori del rapporto investimenti sul capitale umano/benefici, anche prendendoci il rischio di un futuro che si profila senza certezze.

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