L’homo sapiens è un fallimento: Sabina Guzzanti ci scomunica con un romanzo

L’esordio letterario di Sabina Guzzanti è un racconto fantascientifico che racconta un futuro inquietante, con un’ancora di salvataggio. La nostra recensione di “2199. La disfatta dei Sapiens”.

Non serve poi un grande sforzo per immaginare l’editoria post-pandemia come abbondante di romanzi distopici e storie scritte “alla maniera” dei grandi classici del genere.

Ciò che forse era più difficile da prevedere è che romanzi simili (su un mondo ridotto a un numero ridicolo terre emerse, in cui le vecchie potenze nazionali non esistono più, neanche la specie dei Sapiens se la passa troppo bene e tutto è governato dall’alto da un fantomatico governo transnazionale) avrebbero cominciato ad arrivare in libreria così presto, a pericolo ancora non del tutto scampato, e che lo avrebbero fatto per mano di Sabina Guzzanti. 2119. La disfatta dei Sapiens, infatti, è l’esordio in narrativa della comica; un romanzo dichiaratamente scritto “grazie” alla pandemia, e che con la scusa della satira non le manda a dire a nessuno.

2119. La disfatta dei Sapiens, la distopia letteraria di Sabina Guzzanti

Il mondo che nell’immaginazione della Guzzanti ci aspetta – o meglio, che aspetta i più fortunati tra noi – tra cent’anni non è poi così diverso da quello di oggi.

Ci sono migranti sopravvissuti quasi per miracolo e studiati come fossero una specie aliena; scuole che più che il merito insegnano il privilegio classista; intelligenze artificiali che controllano il benessere del singolo e lo fanno – dicono – per il benessere della collettività; gattini dotati di uno charme senza pari e che sono promessa, per i padroni, di fama e popolarità a buon prezzo. E ci sono soprattutto social media e ambienti digitali che fagocitano l’intera esistenza delle persone, fino a metterne a rischio l’integrità fisica, ma anche “vecchie” malattie ancora impossibili da curare senza farmaci tradizionali e ancora non accessibili a tutti.

Così, a tratti si potrebbe avere l’impressione che in 2119. La disfatta dei Sapiens Sabina Guzzanti proietti in un futuro distopico le strutture del presente perché, viste da lontano, siano più facili da mettere a fuoco, e soprattutto sia più facile riderci sopra amaramente. Che è come dire che è facile ridere di una madre che passa notte e giorno – per diversi giorni e senza mai prendersi una pausa – a difendersi sui social dalle accuse che le piovono addosso, e soprattutto piovono addosso ai figli dopo aver condiviso un video di gattini girato furtivamente da uno dei propri ologrammi. Un po’ più difficile, dopo aver riso, è rispondersi che quella madre al tracollo nervoso non siamo proprio noi, col nostro rapporto ossessivo con la rete.

Decisamente più futuristiche (nell’accezione che spesso “futuristico” assume quando si mettono di mezzo la fantascienza e i suoi topoi) sono scelte narrative come quella che vuole tutti i cittadini controllati da un sistema ad algoritmo capace di indovinare alla perfezione quando è ora di mangiare, riposarsi o persino fare l’amore; o la scelta di un onnisciente governo centrale, a cui già si accennava, capace di sapere tutto di tutti e di farlo in un istante, e da cui è indispensabile tenersi in guardia.

Su questo fronte, però, a tratti si potrebbe avere l’impressione che 2119. La disfatta dei Sapiens non sappia andare molto oltre una serie di situazioni-tipo della narrativa di genere e luoghi comuni (il transumanesimo, il post-umano, o meglio l’umanità aumentata, eccetera) che hanno stancato persino il dibattito in letteratura su uomo e macchina. Meglio non aspettarsi, insomma, quel punto di svolta che renda quello della Guzzanti il romanzo che non ci si aspettava dalla narrativa distopica figlia della pandemia: di fatto potrebbe non arrivare mai.

Perché leggere 2119. La disfatta dei Sapiens

C’è piuttosto un altro elemento interessante che, da solo, vale la lettura di 2119. La disfatta dei Sapiens come se fosse un saggio sul nostro tempo più che una storia di distopia futura.

Di fronte a un mondo le cui regole sfuggono o si faticano a comprendere, non c’è niente di salvifico come il lavoro. Soprattutto se è lavoro fatto alla vecchia maniera, verrebbe da aggiungere. Prima della storia di come il mondo è riuscito a sopravvivere alla disfatta dei Sapiens, infatti, il romanzo è la storia di una strampalata redazione di giornalisti in carne e ossa, per definizione sovversiva in un tempo – ancora una volta: futuro o già nostro? – in cui a fare i giornali sono robot, algoritmi, intelligenze artificiali.

Da una di loro arriva l’intuizione che c’è un futuro possibile anche oltre un sistema centralizzato e artificiale di controllo delle persone. Che si tratti di un’intuizione figlia di passione e devozione per il proprio mestiere è la morale rincuorante di una favola che, per il resto, di rincuorante ha davvero molto poco. Anche quando parla del futuro della cultura del lavoro.

Tra le ragioni per leggerlo, insomma, ci sono due regali che collateralmente in 2119. La disfatta dei Sapiens Sabina Guzzanti fa ai propri lettori. Il primo, per tutti, è l’ipotesi rassicurante che un antidoto alla distopia – e, più in generale, a una certa narrativa tecnoscettica – esiste: continuare a credere in quello che si fa, meglio se con una visione e degli obiettivi ben precisi. Il secondo regalo riguarda chi fa questo lavoro, e si aggiunge all’idea per molti versi romantica che il (buon) giornalismo sia ancora lungi da una morte a lungo profetizzata. E che soprattutto abbia ancora il potere di cambiare le cose.

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