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A molti in ufficio sarà capitato almeno una volta di dover interagire con un collega difficile che suscita fastidio, frustrazione, disagio o anche rabbia. I comportamenti difficili delle persone sul luogo di lavoro sono tra le cause principali di problemi relazionali, mancata collaborazione, cooperazione, creatività, e in ultima analisi calo della produttività. Le recenti ricerche […]
A molti in ufficio sarà capitato almeno una volta di dover interagire con un collega difficile che suscita fastidio, frustrazione, disagio o anche rabbia. I comportamenti difficili delle persone sul luogo di lavoro sono tra le cause principali di problemi relazionali, mancata collaborazione, cooperazione, creatività, e in ultima analisi calo della produttività.
Le recenti ricerche neuropsicologiche sono state in grado di fare luce sulle cause di tali comportamenti da parte di alcune persone, così perturbanti del clima aziendale. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, tali persone quasi mai si comportano in modo oppositivo intenzionalmente, né consapevolmente, oppure perché cercano a tutti i costi attenzione. Esse non vogliono avere il ruolo di coloro con le quali è difficile avere a che fare, ma semplicemente mancano delle abilità e delle strategie utili per entrare in buona relazione con gli altri.
Nello specifico si è constatato che sono carenti soprattutto in flessibilità, capacità di tollerare le frustrazioni e di risolvere i problemi. D’altro canto, al tempo stesso possono essere individui dotati di numerosi altri ottimi talenti e potenzialità, anche se il loro comportamento può minacciare la serenità di interi gruppi di lavoro.
Tutti questi comportamenti disfunzionali si riflettono, si amplificano e si veicolano anche nell’uso e nell’interpretazione delle parole, spesso mancanti di delicatezza ed empatia.
Tutto parte e torna nell’ottica dell’io, anziché del noi. Come se non bastasse il dito risulta continuamente puntato verso il “tu” dell’altro, considerato una minaccia, un’accusa verso se stessi; una fonte di pericolo, di messa in discussione, di erosione del proprio ego (oppure di ricerca ossessiva di conferma). Difficilmente ci si mette in discussione o si analizza il proprio punto di vista, la propria posizione, i propri atteggiamenti e il loro ruolo nel suscitare le reazioni di coloro con cui si interagisce. Si ragiona prevalentemente nell’ottica dello schema vittima-carnefice e dell’altro al proprio servizio.
L’attenzione, l’osservazione, l’ascolto delle parole che prima di tutto si formulano dentro se stessi, verso di sé, e di riflesso verso gli altri, dovrebbero essere le linee guida fondamentali per una relazione più sana, consapevole e rispettosa verso se stessi e gli altri. Le relazioni si alimentano di parole, tutto nasce e riconfluisce in questa direzione. Se a ciascuno di noi vengono offerti gli strumenti consoni, è possibile modificare e, nella migliore delle ipotesi, migliorare i rapporti con noi stessi e con gli altri, in qualsiasi momento e circostanza di vita e di lavoro.
Applicando il modello del Collaborative Problem Solving (CPS) si possono ottenere ottimi risultati in diversi contesti di vita e di lavoro, ivi compresa la gestione dei cosiddetti colleghi difficili.
Il metodo è stato sviluppato dal dottor Ross Greene e successivamente perfezionato dallo stesso con il dottor Stuart Ablon presso il Massachusetts General Hospital e l’Harvard Medical School. Inizialmente era stato concepito per trattare i bambini difficili; poi è stato esteso anche in altri contesti: scuole, ospedali, casa, lavoro.
Per i manager è fondamentale creare la convinzione, per se stessi e i propri collaboratori, che i conflitti si possano gestire in modo efficace. Altrettanto fondamentale è che forniscano gli strumenti utili per farlo.
La filosofia di fondo con cui è nato il CPS afferma che i bambini agiscono bene, se possono. Se non sono in grado di farlo, gli adulti devono capire perché non ci riescono in modo da poterli aiutare. Nel contesto di lavoro questo si può tradurre così: i dipendenti svolgono bene il loro lavoro, se possono. Se non sono in grado di farlo, i manager devono aiutarli a capire perché non ci riescono in modo che possano farcela.
Il metodo parte dalla stimolazione dell’empatia e della pazienza in modo da comprendere la persona in difficoltà e le ragioni che la motivano ad agire in modo perturbante, pur nella sua scarsa capacità di esplicitare le reali motivazioni sottostanti. Poi si passa al vero e proprio problem solving, che non solo contribuisce a ridurre i comportamenti sfidanti, ma aiuta anche a costruire le abilità necessarie per interagire in modo costruttivo con la persona difficile.
Nello specifico, il modello Collaborative Problem Solving si compone delle seguenti tre fasi:
Anche se all’apparenza tale strategia può sembrare molto semplice, in realtà si può rivelare assai efficace. Non solo essa consente di risolvere concretamente dei problemi, ma permette anche lo sviluppo delle abilità connesse, quali ad esempio: capacità di comunicazione, di assumere il punto di vista altrui, di stare calmi, di tollerare la frustrazione; l’empatia, la flessibilità, la creatività, la collaborazione.
Una delle maggiori sfide quando si ha a che fare con comportamenti difficili da parte degli altri consiste nel non farsi a propria volta travolgere. La frustrazione che essi possono suscitare può mettere chiunque a dura prova e può essere molto contagiosa. È un fenomeno psicologico che in gergo si chiama “disregolazione”: un’incapacità di gestire le emozioni che impedisce di accedere alla parte più razionale del nostro cervello. In tali frangenti diveniamo quasi totalmente incapaci di risolvere i problemi.
In quei momenti è fondamentale non prendere mai i comportamenti altrui sul piano personale né rispondervi nell’immediato; successivamente si può passare ad applicare il modello Collaborative Problem Solving. Solo imparando a gestire le proprie emozioni si può ascoltare gli altri, empatizzare e collaborare per giungere a una soluzione finale efficace e congiunta.
Foto di copertina: Diredonna.it
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