Diffidate dai manager con la rivoluzione in agenda

Intervistiamo Flavio Salvischiani, vice amministratore delegato di Agos: “Per avere un impatto vero sulle persone, come sul business, serve un investimento temporale importante. Bisogna chiedersi che eredità si vuole lasciare, e spingere i collaboratori a mettersi in gioco”

20.05.2024
Manager con un'agenda in mano: la rivoluzione tascabile di cui diffidare

“Quando si riesce a finire il proprio lavoro in un tempo congruo, è giusto staccare per dedicarsi ai propri affari personali, senza rimanere per forza in azienda fino a tardi. No, non sono workaholic”. Affermazione tutto sommato ordinaria, sebbene condivisibile, quando si parla di cultura del lavoro. Ma, diciamolo, è l’ultima cosa che ti aspetteresti di sentire da un vice amministratore delegato di una grande società, a maggior ragione se con responsabilità strategiche sull’organizzazione e sull’area commerciale e marketing – a Milano, per giunta.

Eppure accade, e a pronunciarla è Flavio Salvischiani, 57 anni, condirettore di Agos, società finanziaria attiva nel settore del credito al consumo. Bocconiano, sposato, due figli già grandi e un cane a completare la squadra. Niente, almeno in apparenza, fuori le righe: temperamento calmo e affabile, contesto famigliare classico, stesso sport da sempre. E assunto in Agos da 19 anni, oggi con un ruolo di vertice dopo un lungo percorso interno di crescita. Oltre che, l’abbiamo capito, nemico della tendenza a lavorare in eccesso.

 

 

Sembra, se posso, l’elogio dell’ordinario. Stessa azienda, stessa routine per due decenni: zona di confort consolidata?

E anche se fosse? Se intendiamo come zona di confort la lunga militanza in un’unica realtà, non sempre rappresenta un problema. Partiamo dal presupposto che mi piace vivere in profondità il contesto e costruire nel tempo. E che, nella mia vita professionale, seguo due principi: continuare ad apprendere contenuti nuovi e conoscere persone interessanti, strutturando relazioni con lavoratrici e lavoratori. Ecco, se riesco a trovare stimoli di questo tipo nella mia attività quotidiana, non vedo la necessità di cambiare a ogni costo. Inoltre c’è un aspetto che spesso si tende a non considerare: il miglioramento continuo porta ad allargare il proprio perimetro e, di conseguenza, a cambiare nel tempo diversi ruoli. Pur rimanendo all’interno della stessa organizzazione.

Punto di vista non così frequente. Forse, in passato, rimanere in un’unica realtà era considerata scelta virtuosa; oggi invece il mercato del lavoro e il contesto sociologico ci vorrebbero vagabondi.

Guarda, ho passato i primi dieci anni della mia carriera a cercare la mia strada. Prima nel mondo delle banche, poi nella consulenza. Ho vissuto anch’io la paura di rimanere intrappolato o, peggio, di appiattirmi. Però nella mia attuale realtà non è mai capitato; l’ho scelta vent’anni fa senza mai pentirmi, ho seguito un percorso di crescita in un ambito che mi piace, ho cambiato cinque responsabili. Ho continuato, come spiegato, ad allargare il perimetro in un’azienda interessante. Senza dubbio anche una questione di carattere personale. Però la mia esperienza professionale è senz’altro soddisfacente. Posso dirti? Non è un caso se da noi il tempo di permanenza medio dei dipendenti è piuttosto lungo. Un tempo che permette di formarsi, di crescere, di conoscere davvero le persone con cui collabori.

Il tempo, insomma, vissuto come un valore.

Avere la fortuna di prestare servizio in una realtà con terreno fertile, dove imprimere la mia firma, è di sicuro un privilegio. Ma non ci si deve illudere: sono necessari anni per consolidare l’impronta, soprattutto se si riveste un ruolo di vertice. Ci sono moltissimi manager che arrivano nelle imprese, amministrano – magari anche bene – e poi dopo uno o due anni se ne vanno. Tutto fantastico. Ma che cosa lasciano in eredità alle persone? E con che impatto complessivo? Credo sia opportuno chiedersi che tipo di contributo si vuole portare in un gruppo di lavoro, attraverso una visione di lungo termine.

In sintesi?

Semplice: quando me ne sarò andato, per cosa sarò ricordato? Ecco, a mio avviso per portare un apporto concreto serve una conoscenza profonda del contesto, oltre che precise competenze. Altrimenti, con tutto il rispetto, mi sentirei come un amministratore di condominio. Invece, per avere un impatto vero sulle persone, come sul business, serve un investimento temporale importante, che aumenta in proporzione alla complessità. Chiaro, poi, che non si può ragionare su termini assoluti. Però, personalmente, tendo a diffidare dalla gente che dice di portare grosse rivoluzioni nel brevissimo periodo.

Ragionamento che possiamo considerare anche nel rapporto con le persone, giusto?

A me francamente servono anni per tarare una risorsa, per costruirmi un’opinione definitiva. La devo vedere su più ruoli, nel rapporto con più persone, in situazioni con diverso livello di stress. Anche fuori dai confini dei punti di forza già emersi durante i primi anni di esperienza. Un’operazione di lungo raggio, a tutti gli effetti. Un altro aspetto che ritengo fondamentale è la job rotation, perché permette di cambiare prospettiva, di affrontare nuovi ruoli e sfide rimanendo all’interno della stessa struttura. Il problema è che, per arrivarci, bisogna prestare attenzione a non depauperare le competenze. Spingere le persone a mettersi in gioco, sempre con il massimo equilibrio.

Altra anomalia. Nel mondo attuale, che osanna ed esalta le soft skill, davvero prevalgono ancora le competenze tecniche?

Qui mi piace citare Mario Draghi, quando al conferimento della laurea honoris causa in Economia nel 2021 (a poche settimane dalla fine del mandato in BCE, N.d.R.) ha citato tre caratteristiche prioritarie: conoscenza, coraggio e umiltà. Io dico che servono di sicuro tutte e tre, ma al primo posto metto tuttora la conoscenza, e a seguire le altre. Questo non significa che le competenze trasversali non contano. Nelle grandi aziende il coraggio premia meno, siamo d’accordo, ma senza questo ingrediente si rischia di morire di asfissia. E l’umiltà serve per alimentare l’ascolto attivo, forse il focus sul quale si dovrebbero concentrare di più gli interventi formativi, oggi.

In pratica?

Dobbiamo essere bravi a imparare di più dalle persone da cui si è convinti di imparare di meno. I manager questo dovrebbero sforzarsi di apprenderlo; un aspetto per nulla facile.

Senza dimenticare la soft skill più importante: abbiamo costruito tutto il filo conduttore dell’intervista sulla gestione del tempo. Quasi un’ossessione.

La mia organizzazione personale è sempre stata orientata dalla ricerca di un’efficienza pazzesca. A volte arrivo a programmare anche le singole mezzore in agenda, in modo quasi maniacale – addirittura nella gestione del mio tempo libero. Capisco che si tratta di un’esagerazione, e lavoro ogni giorno per migliorarmi. È importante trovare il giusto equilibrio, capire quando bisogna rallentare, quando è opportuno godersi un po’ di sano ozio fine a se stesso e, al contempo, imparare come ottimizzare al meglio le nostre giornate lavorative.

 

 

Scongiurando così, aggiungo, l’incombente rischio di workaholism, di dipendere dal lavoro. Anche a Milano.

 

 

 

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Foto credits: Sora Shimazaki via pexels.com

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