Menare per credere. Un razzismo arabo che non ti aspetti

Il Benin è uno Stato dell’Africa Occidentale di dodici milioni di abitanti che si affaccia sull’oceano Atlantico, confinante con il Niger, la Nigeria, il Burkina Faso e Togo. ll nome Benin ha origine da “regno del Benin” (non a caso i capi dei villaggi sono chiamati Re), sostituito nel tentativo di soppiantare il nome coloniale […]

Il Benin è uno Stato dell’Africa Occidentale di dodici milioni di abitanti che si affaccia sull’oceano Atlantico, confinante con il Niger, la Nigeria, il Burkina Faso e Togo. ll nome Benin ha origine da “regno del Benin” (non a caso i capi dei villaggi sono chiamati Re), sostituito nel tentativo di soppiantare il nome coloniale di Dahomey, che venne utilizzato per indicare la regione ancora prima dell’avvento dei francesi. Nel diciottesimo secolo era noto con il nome di Costa degli Schiavi; oggi è una Repubblica democratica. Ma, come racconta il protagonista di questa storia, “spesso in Africa la democrazia, nei rari casi in cui c’è, è soltanto sulla carta. Questo purtroppo vale anche per i governi di matrice marxista”.

La storia di Adam, dal Benin all’Italia, passando per la Libia

Dagli anni Settanta agli anni Novanta il Benin è stato guidato da Mathieu Kérékou, che aveva adottato ufficialmente l’ideologia marxista-leninista, successivamente abbandonata con la fine della Guerra Fredda. Kérékou è tornato a rivestire la carica di presidente dal 1996 al 2006, anno in cui è stato eletto l’attuale capo di Stato, Thomas Boni Yayi, riconfermato nelle presidenziali del marzo 2011.

La storia di Adam, 28 anni, professore di matematica sbarcato in Italia il 22 giugno 2016 per fuggire alla persecuzione politica del suo Re e agli orrori della Libia, inizia nel villaggio di Alédjo, un arrondissement del Benin situato nella città di Bassila. È lì che ha frequentato le scuole medie e si è laureato. Quando ci incontriamo nelle vicinanze del centro di accoglienza prevale la diffidenza. Giustamente mi chiede chi sono e perché voglio indagare sulla sua vita, ma poi capisce che vogliamo semplicemente raccontare una storia di emigrazione, con tratti drammatici di razzismo, violenze e soprusi, ma anche spunti più lieti di integrazione, grazie al ruolo dato alla sua formazione da istituzioni e associazioni.

“Nel mio paese non stavo male: vivevo dignitosamente con la mia famiglia e i miei fratelli. Lavoravo come insegnante di matematica. Quando però, assieme ad altri ragazzi della mia età, ho iniziato a contestare il potere locale del Re e la sua politica corrotta, le cose sono cambiate. È iniziata una persecuzione politica e giudiziaria che mi ha costretto a lasciare il mio Paese. Loro si definiscono repubblicani e democratici, ma se non sei un potente non hai nessuna possibilità di difenderti dalle accuse di cospirazione politica”. Adam mi chiede di non entrare nei particolari di quella vicenda. La sua posizione in Italia è molto delicata: è in attesa di ottenere dalla Commissione Territoriale lo status di prigioniero politico, e se le cose non andassero bene dovrebbe tornare sotto le forche caudine del sistema giudiziario del suo paese.

“Malgrado non volessi lasciare il mio paese e i miei cari, sono andato in Niger fino ad Agadez, oasi e città del Sahara Occidentale. Ci sono persone che mettono a disposizione auto a pagamento per attraversare il deserto, e grazie a mio cugino che mi ha dato una mano ho pagato 50.000 franchi CFA, (la moneta delle colonie francesi d’Africa), pari a 76 euro. Come potrai immaginare, la mia destinazione non era il Niger. Questo paese ha un prodotto interno lordo, a parità di potere d’acquisto, di 807 dollari pro capite; uno dei più bassi del mondo. In Niger non si può immigrare, si può solo scappare dalla fame. La mia destinazione era la Libia, dove mi attendeva mio cugino, che avrebbe potuto offrirmi delle opportunità di lavoro. E così fu.”

“Arrivai a Saba, in Libia, e mio cugino mi diede la possibilità di lavorare con lui come aiutante muratore. Sapevo che non avrei potuto pretendere di continuare a fare l’insegnante, ma imparare un mestiere mi andava bene. Inoltre ero consapevole che dopo l’era di Gheddafi in Libia era iniziata una crisi economica gravissima, con una disoccupazione giovanile impressionante, ma non potevo immaginare che gli uomini di pelle nera fossero ancora trattati come animali, come carne da macello”.

Mi puoi raccontare qualcosa di più?, gli chiedo. Sapevo che nei paesi arabi la vita era ed è durissima per gli africani, che proprio dagli arabi nei secoli scorsi sono stati deportati in massa dall’Africa agli Stati Uniti, ma non sapevo che la situazione fosse ancora così drammatica. Sui giornali italiani ed europei si parla poco di questo aspetto: si parla di fuga dalla guerra, di emigrazione per ragioni economiche ma poco del fenomeno del razzismo nei paesi arabi.

“Lo so, ma la situazione è questa. Se hai la pelle nera in Libia non puoi girare per le strade; devi uscire dal lavoro, correre a casa senza perdere tempo e rimanerci fino al giorno dopo. Nel tragitto fino a casa devi sperare di non incontrare gruppi di ragazzi sbandati, che appena vedono il colore della tua pelle ti avvicinano per chiederti il cellulare o i soldi. E se non hai niente di tutto ciò, bene che ti vada, ti picchiano a sangue”.

Gli domando se a lui sia capitato. “Purtroppo sì. Visto che non avevo né cellulare né soldi mi hanno massacrato di botte più di una volta. La polizia? Se hai la pelle nera cadere nelle mani della polizia libica è ancora peggio. Per il solo fatto che sei africano ti considerano uno sbandato, ti sbattono in carcere, ti costringono a chiamare la tua famiglia per ottenere del denaro in cambio della tua liberazione, dopo averti riempito di botte. Io ho resistito più di un anno in Libia nella speranza che la situazione nel Benin si risolvesse, ma alla fine ho ceduto. Anche perché al lavoro la vita non era meno infame: quando lavoravo era il datore di lavoro che stabiliva se e quando ti pagava”.

È così che Adam decide, come altre migliaia di persone di rischiare la vita imbarcandosi per l’Italia. Un gommone da 50 posti ne portava almeno il triplo. “Un rischio mortale. A un certo punto il motore si è guastato in modo irreparabile e siamo restati in mare in balia delle onde. Temevo soprattutto per i bambini, ma siamo stati fortunati. Quando siamo sbarcati in Sicilia abbiamo avuto un’accoglienza confortante. Siamo stati suddivisi per gruppi, e casualmente io sono finito alle porte di Milano in un centro gestito dalla Croce Rossa.”

“Ho vissuto otto mesi nelle tende, e in quel periodo mi hanno fatto un corso di italiano certificato che mi è stato molto utile per integrarmi. Le istituzioni scolastiche mi hanno consentito di fare la terza media e io ho utilizzato le mie competenze facendo lezione di matematica a una ragazza irakena. Devo dire che le istituzioni pubbliche milanesi, le associazioni e anche alcune istituzioni private, come la Fondazione Verga e la Boston Group, hanno avuto un ruolo decisivo per la formazione e l’integrazione di molti emigranti: un lavoro importante di cui si parla troppo poco. Ora mi occupo di contabilità. Grazie a un tirocinio di inserimento lavorativo posso dire di essermi integrato piuttosto bene. E penso che la mia storia potrebbe essere un esempio.”

Adam ha condotto anche una trasmissione a Radio Popolare, La voce degli emigranti, ma ora non può più farlo per motivi di lavoro. “È uno spazio che dà la possibilità agli emigranti di raccontare le loro storie. Sono storie drammatiche, a volte tragiche. Come vedi, però, non ci sono soltanto storie di clandestini sbandati pronti a diventare manovalanza della criminalità organizzata, come sostiene qualcuno, ma anche e soprattutto storie di gente che fugge dagli orrori della guerra e del razzismo. E che ha voglia di rifarsi una vita”.

 

Photo by EU Civil Protection and Humanitarian Aid Operations [CC BY-NC-ND 2.0] via Flickr

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