Morire sul lavoro in una società ipertecnologica

Morire di lavoro, morire mentre si sta lavorando. Questo è uno fra i più grandi paradossi del mondo contemporaneo. In una società ipertecnologica, basata sull’informazione e con leggi che hanno l’obiettivo di tutelare il lavoratore, ancora si muore mentre si cerca di guadagnarsi da vivere. E la responsabilità di queste morti ricade sulla società stessa. […]

Morire di lavoro, morire mentre si sta lavorando. Questo è uno fra i più grandi paradossi del mondo contemporaneo. In una società ipertecnologica, basata sull’informazione e con leggi che hanno l’obiettivo di tutelare il lavoratore, ancora si muore mentre si cerca di guadagnarsi da vivere. E la responsabilità di queste morti ricade sulla società stessa. Il decreto legge n.81 del 2008 (e successivi aggiornamenti) impone regole ferree in tutti gli ambiti lavorativi e sanzioni pesantissime, che in larga misura sfociano nel penale per chi non le rispetta. Eppure ancora non basta. Quello che manca è una vera propria cultura della prevenzione, quella consapevolezza che permette di rendersi conto che tutto può avere delle conseguenze. E allora ecco che si aprono paradossi immensi: operai morti per aver respirato fibre di amianto sul posto di lavoro e nessun responsabile individuato per quei decessi, morti nei campi agricoli che aspettano giustizia ma per le quali – per il principio di non retroattività della legge penale – non può essere applicata la nuova legge contro il caporalato, la n.199 del 2016.

Le storie vere, i dati veri

Come non richiamare alla mente, per esempio, il caso di Paola Clemente, morta nei campi in cui lavorava nel luglio 2015 e che ha permesso di scoperchiare un mondo in cui spesso si preferisce l’illegalità alla sicurezza? O, ancora, lavoratori che muoiono mentre fanno il loro lavoro, schiacciati da macchinari mal funzionanti o precipitati da metri di altezza. “Bisogna rivendicare al lavoro condizioni migliori, progressivamente migliori; bisogna assicurare al lavoro una sua giustizia, che cambi il suo volto dolorante e umiliato e gli renda un volto veramente umano, forte, libero, lieto”, diceva papa Paolo VI nell’udienza generale di mercoledì 1 maggio 1968. Ma per avere un volto libero e lieto, il lavoro non deve più essere causa di morte e dolore.

I dati per regione, età, malattie professionali 

Secondo i dati Inail (Elaborazione sulla base delle tabelle nazionali, fonte Open data Inali), nel periodo compreso tra gennaio e luglio 2017 sono state 591 le denunce di infortunio con esito mortale (531 uomini e 60 donne), in aumento (+5,2%) rispetto al medesimo periodo dell’anno scorso (562). L’incremento si registra nel settore dell’industria e servizi (497 casi rispetto ai 450 dell’anno scorso, con un incremento pari al 10,4%). Diminuiscono invece i casi nel settore dell’agricoltura (passati da 80 a 76). L’Inail è chiaro: “A fare la differenza nel saldo finale dei primi sette mesi di quest’anno continua a essere soprattutto il dato di gennaio, con 30 denunce mortali in più rispetto al primo mese del 2016 (95 contro 65 casi) – si legge in una nota stampa – di cui oltre la metà legate alle due tragedie di Rigopiano e Campo Felice. Il confronto tra luglio 2016 e luglio 2017 fa registrare invece un incremento di tre casi”. I casi maggiori sono registrati in Lombardia (79 decessi, 15 in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso), in Emilia Romagna (73 casi, pur in diminuzione rispetto all’anno scorso, con 76 casi) e in Veneto, con 55 denunce (diminuite però di ben 10 casi rispetto al periodo gennaio – luglio 2016, in cui si sono registrati 65 decessi). In linea di massima, i casi di decessi sono registrati per lo più nel nord-Ovest (146 morti tra gennaio e luglio 2017, 33 in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso) e nelle Isole (56 decessi contro 43 del medesimo periodo dell’anno scorso), dove la Sicilia vede un incremento di ben 15 casi, passando da 31 a 46 decessi. In calo di 12 denunce con esito mortale è la zona del Centro Italia (112 contro i 124 del periodo compreso tra gennaio e luglio del 2016). In calo, pur lieve, anche il Nord-Est (157 contro 160) e il Sud (120 contro 122). I dati non tengono ovviamente conto degli ultimi mesi estivi, durante i quali si sono verificati altri gravi fatti di cronaca. A morire – secondo i dati Inail – sono per lo più lavoratori tra i 50 e i 59 anni (189 casi complessivamente), tra i 45 e i 49 anni (89 decessi, in aumento di 23 unità rispetto a gennaio – luglio 2016) e tra i 40 – 44 anni (70 casi, con un incremento di 24 unità). Non mancano però le denunce con esito mortale anche nei giovani: 43 nella fascia d’età tra i 35 e i 39 anni, 37 casi di persone con età compresa tra i 30 e i 34 anni, 27 casi tra i 25 e i 29 anni, 26 decessi tra i 20 e i 24 anni. Sono, infine, ben 58 le denunce con esiti mortali relative a persone tra i 60 e i 64 anni. Non mancano le denunce di malattie professionali: 36.224 le denunce protocollate tra gennaio e luglio 2017 (in calo rispetto allo stesso periodo del 2016: 37.560, 1.336 in meno). Le malattie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo sono quelle più denunciate (20.852), insieme a quelle del sistema nervoso (3.886), dell’orecchio (2.735) e del sistema respiratorio (1.608). Anche i tumori, però, rappresentano una parte importante: 1.445.

Respirare fibre di amianto e morire senza rendersene conto

Morire di amianto respirato sul luogo di lavoro e di conseguenza morire di lavoro e rendersene conto solo dopo anni, quando ormai ci si è ammalati di mesotelioma pleurico, un tumore killer che si sviluppa respirando fibre di amianto, in modo lento ma che non lascia scampo. Questo è un grave paradosso quando si parla di amianto, un materiale che – prima del divieto in Italia a causa della sua tossicità (legge 257 del 1992) – era molto utilizzato dalle industrie a causa della sua facile reperibilità, del basso costo e delle sue caratteristiche: resistente al fuoco, isolante termico ed elettrico, facilmente mescolabile ad altre sostanze. La sicura correlazione tra fibre di amianto e tumore al polmone è stata provata già tra il 1955 e il 1960. Nel 1965 in Italia sono pubblicati gli atti della conferenza sugli effetti biologici dell’asbesto organizzata nel 1964 dalla New York academy of Sciences. Nel 1977 la IARC (International Agency for Research on cancer) ha riconosciuto formalmente la cancerogenità dell’amianto (ma già nel 1973 lo aveva valutato come probabile cancerogeno). In generale, dalla scienza è ammesso che il mesotelioma sia causato esclusivamente dall’esposizione alle fibre di amianto. Una volta scoperta e diagnosticata la malattia, in media restano pochi mesi di vita.

Il paradosso delle sentenze: nessun colpevole per i morti di amianto sul lavoro

A distanza di anni, sono molti i processi in corso o terminati da poco nei confronti di ex manager accusati di omicidio colposo, che secondo le Procure sarebbero responsabili dei decessi dei lavoratori per non averli informati e protetti in maniera adeguata sui rischi che stavano correndo quando ancora l’amianto si utilizzava nelle fabbriche o nelle centrali, tra gli anni’70 e gli anni’90. E paradosso nel paradosso spesso per queste morti non viene individuato alcun responsabile. Molte le assoluzioni in formula piena, per esempio, fatte al Palazzo di Giustizia milanese: assoluzioni in primo e secondo grado per ex manager della Franco Tosi di Legnano. La Cassazione è prevista per il prossimo 10 novembre; assoluzione in secondo grado (in primo grado c’era stata la condanna) per ex dirigenti di stabilimenti milanesi della Pirelli e assoluzione anche nel processo Pirelli bis, scaturito da un secondo filone d’inchiesta e di cui si attendono ancora le motivazioni della sentenza; assolti anche gli ex vertici a processo per la morte di operai che avevano lavorato nello stabilimento Alfa Romeo di Arese e ancora in primo grado gli ex manager Breda. Ribaltamento della sentenza anche per il processo che riguarda la Fibronit (in provincia di Pavia): condannati in primo grado e assolti in appello.  Assoluzione in primo grado e in appello anche per ex vertici della centrale termoelettrica ex Enel di Turbigo, per le cui sentenze le parti civili di Aiea e Medicina Democratica, difese dall’avvocato Laura Mara, hanno presentato ricorso in Cassazione. La motivazione di fondo è una: per i giudici non è possibile dimostrare che l’esposizione dei lavoratori nello specifico periodo in cui i singoli imputati erano garanti della loro salute sia stata “causalmente rilevante” nel determinarne il decesso.

Il caso della ex Centrale Enel di Turbigo

Si legge nero su bianco, per esempio, nella sentenza di primo grado (confermata in appello) della ex centrale Enel di Turbigo, nel milanese: “(…) è dunque certo che le persone offese si sono ammalate di mesotelioma a causa dell’inalazione di fibre di amianto – scrivono i giudici – Deve anche ritenersi dimostrata l’origine lavorativa della patologia contratta dalle persone offese: le otto persone offese si sono ammalate a causa dell’esposizione all’amianto avvenuta mentre le stesse erano impiegate presso la centrale termoelettrica di Turbigo”. Tuttavia “è estremamente problematico (se non impossibile) stabilire se l’esposizione patita dal lavoratore nel periodo di tempo nel quale l’imputato rivestiva il ruolo di garante sia stata causalmente rilevante nel determinare la malattia”. Conseguenza: otto morti riconosciuti al processo (nella realtà i decessi sono di più, considerando anche quelli di alcuni familiari dei lavoratori, morti con probabilità per essere stati a contatto con fibre di amianto portate al ritorno a casa) e nessun responsabile. Ora si aspetta la Cassazione. “Anche se l’amianto si sta dismettendo, il mesotelioma si sviluppa dopo anni e la gente continua a morire – commenta Valentino Gritta, Vice Presidente nazionale dell’Associazione Italiana Esposti Amianto e componente del Comitato di Gestione del Fondo Vittime per l’amianto, costituito presso l’INAIL di Roma. “Quest’anno sono decedute altre tre persone nella zona di Turbigo: uno è riconducibile al lavoro in centrale, un altro ha lavorato per molti anni in centrale ma anche in altre parti e un terzo, invece, non si è ammalato a Turbigo ma la mansione che svolgeva era la stessa. Il mesotelioma si sviluppa dopo anni e la gente continua a morire. E non solo lavoratori, ma anche tanti parenti dei lavoratori che sono morti di mesotelioma. A Turbigo, ma anche in altri processi, è stato riconosciuto il fatto che i dipendenti sono morti per l’esposizione all’amianto sul lavoro. Quindi è stato riconosciuto il nesso causale. Tuttavia, non è stato possibile dimostrare chi fosse responsabile nel momento in cui le persone si sono ammalate. Non c’è, quindi, una persona fisica che debba rispondere dei decessi”. E così tante, troppe morti sono rimaste impunite.

L’avvocato Laura Mara: “Non bisogna demoralizzarsi”

Sulla questione delle molte assoluzioni di Milano interviene l’avvocato Laura Mara: “Secondo me la parola fine su questi processi verrà messa dalla Corte di Cassazione. Io mi auguro che ci sia un annullamento di queste sentenze con un rinvio davanti alla Corte d’Appello di Milano, in altra sezione e in altra composizione, perché soprattutto nei processi dove hanno assolto andando a riformare le sentenze di condanna di primo grado – cioè Fibronit e Pirelli – non sono stati risentiti testimoni e consulenti; quindi bisognerebbe capire sulla base di quali presupposti la Corte d’Appello è arrivata a decisioni di questo tipo”. L’avvocato specifica anche che recentemente “il Tribunale di Torino nel processo Pirelli – dopo tutte queste sentenze di assoluzione che ci sono state a Milano – ha condannato gli imputati e ha aderito alla teoria multi stadio per il mesotelioma pleurico come teoria maggiormente condivisa dalla comunità scientifica. Questa è una bella risposta. Secondo me, da un lato non bisogna demoralizzarsi e dall’altro bisogna aspettare sicuramente le decisioni della Corte di Cassazione. In ogni caso il dato che emerge è che la stragrande maggioranza di periti e consulenti tecnici concordano sulla dose dipendenza e sul discorso che si tratta di una teoria multi stadio: tutte le dosi sono sostanzialmente causative della patologia, senza andare a identificare l’inizio e la fine del periodo di induzione per andare a imputare le responsabilità a chi si è succeduto nel tempo nella gestione degli stabilimenti”.

Parla la figlia di un lavoratore morto di tumore: “Siamo vittime costanti”

Non rinuncia a lottare Chiara Misin, figlia di Oscar, uno degli otto operai morti e che aveva contribuito a fondare la sezione turbighese dell’Associazione Italiana Esposti Amianto. Chiara fa parte dell’Aiea nazionale e in collaborazione con altre persone è impegnata nello sviluppo dello ‘Sportello Amianto Nazionale’, associazione di promozione sociale al fianco delle amministrazioni pubbliche sensibili per assistere e informare lavoratori e cittadini: “E ‘paradossale che si muoia di lavoro e sul lavoro; l’ho considerato paradossale fin da ragazzina. Sono troppe le situazioni in cui si muore per lavoro e l’amianto è una fra le più subdole perché le malattie a esso correlate si sviluppano dopo anni di latenza. Si muore di lavoro. Mio padre è morto ormai 5 anni e mezzo fa. Quello che continua a tenere la ferita spalancata sono proprio i processi. Le vittime continuano a pagare: è paradossale. Lo è anche il modo in cui ci si sente: continui a domandarti perché. Non smetti di provare dolore e non capisci i motivi per i quali ti viene inflitto. È paradossale perché ti danno ragione: sono morti di amianto al lavoro, eppure non è colpa di nessuno.  Noi siamo vittime costanti: si continua a combattere e si continua a perdere. È un segnale positivo il fatto che in altre parti d’Italia ci siano riscontri positivi ma è paradossale che dopo anni di combattimenti ci si guardi in faccia con un pugno di mosche in mano. Per i primi due gradi di giudizio non si può dare la colpa a nessuno. Alcuni ex manager in questo processo sono deceduti. E qui si crea un altro paradosso: non si possono condannare i morti ma quelli che ci sono stati non hanno avuto giustizia”.

Amianto al Teatro alla Scala: fra le vittime anche il direttore d’orchestra Edoardo Muller

E’ in corso al Palazzo di Giustizia di Milano il Processo amianto al Teatro alla Scala, che vede cinque imputati accusati della morte di 10 lavoratori a causa dell’amianto. Fra i deceduti a causa della fibra killer, insieme agli operai, anche l’ex pianista e celebre direttore d’orchestra Edoardo Muller e una cantante, entrambi morti per mesotelioma pleurico. Nell’udienza di venerdì 8 settembre sono state ammesse come parti civili, fra le altre, il Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio, Medicina Democratica e l’Associazione Italiana Esposti amianto difesi dall’Avvocato Laura Mara, insieme con altre associazioni (il Comitato Ambiente e Salute del Teatro alla Scala, il sindacato CUB Informazione Spettacolo, la CGIL, INAIL e ATS ex ASL). Ora il processo dovrà accertare le responsabilità personali degli imputati. L’accusa formulata dal Pm Maurizio Ascione è di omicidio colposo plurimo. Secondo il Pm, gli imputati, pur essendo a conoscenza della presenza dell’amianto nel Teatro e conoscendo la pericolosità mortale di queste fibre, non avrebbero protetto e informato adeguatamente i lavoratori e non avrebbero bonificato tempestivamente gli ambienti di lavoro. Nella prossima udienza del 26 settembre ci sarà apertura della fase dibattimentale e saranno sentiti i primi due testi del Pubblico ministero.

Il mancato riconoscimento dei benefici previdenziali in Sardegna

C’è anche un altro paradosso nel mondo delle malattie professionali e delle morti collegabili all’amianto e accade in Sardegna: il mancato riconoscimento dei benefici previdenziali previsti dalla legge 257 del 1992 da parte dell’Inail sardo. Il tema è anche oggetto della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, con particolare riguardo al sistema della tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, nel resoconto degli inizi di agosto di quest’anno. In particolare, la relazione della Commissione si concentra sullo stabilimento ex Eni di Ottana, in provincia di Nuoro. La Commissione riconosce che nell’ex Enichem di Ottana vi era esposizione all’amianto. Si contano circa 120 decessi di ex lavoratori, anche se ancora non è attivo un registro regionale dei tumori. E dai dati emerge che a fronte di 1.081 domande, ben 1.066 siano state respinte dall’Inail. Il motivo? In sostanza per l’Inail sardo non ci sarebbe la prova “di una esposizione qualificata (cioè superiore al limite previsto dalla normativa, ndr) prevista dalla legge per il riconoscimento delle speciali previdenze”. Dopo una serie di ricorsi e le battaglie dell’Aiea nazionale e dell’Aiea sarda, guidata dal presidente Sabina Contu, sono dei mesi estivi i primi riconoscimenti, in attesa del riesame delle altre domande.

Sempre in Sardegna, una vedova si è vista riconoscere la rendita agli eredi dovuta alla malattia professionale dopo tre anni da quando il marito – un ex operaio dell’Alfa Romeo di Arese (Mi) che in pensione si era trasferito in Sardegna e che è deceduto – ne aveva fatto richiesta. La cosa paradossale è che gli ex colleghi dell’uomo avevano ottenuto il riconoscimento da parte dell’Inail di Milano in tempi brevi dalla domanda.

“Nel 2010 c’è stato un grande picco di malati e morti ma il vero picco sarà in questi anni – spiega Sabina Contu – Anche grazie al nostro intervento, ora le cose si stanno muovendo: se ne sta occupando la senatrice Camilla Fabbri, se ne è occupata la Boldrini, abbiamo ottenuto un nuovo protocollo di sorveglianza sanitaria ed è stato istituito un tavolo tecnico. Per me la priorità è alla tutela civilista: per lo più sono famiglie mono reddito, cioè lavorava il marito e la moglie no. Queste donne si sono trovate vedove, magari con figli piccoli o che vanno all’università. Questa famiglie vanno tutelate”. “Ci opponiamo al fatto che sia l’Inail a decidere se è malattia professionale o meno – precisa Valentino Gritta – Se ne dovrebbe occupare l’Unità Operativa Ospedaliera di Medicina del Lavoro oppure istituire centri di eccellenza per asbesto e malattie correlate, almeno uno per zona. Al momento ci sono più di cento ospedali che si occupano di malattie correlate all’amianto: c’è una dispersione molto grande. Manca la conoscenza su larga scala. Ci sono circa 700 mesoteliomi ogni anno ma sono dati inferiori ai mesoteliomi reali. Tanti mesoteliomi, infatti, non sono classificati come certi. Molti ex lavoratori decedono prima che venga riconosciuta la pratica. Bisogna intervenire”.

Morti sul lavoro: ci sono le leggi manca la cultura

Ecco allora che se da una parte con il Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro (D.Lgs. 81/2008 e s.m.i.) si sono fatti notevoli passi avanti, dall’altra ancora manca, in alcuni datori di lavoro, una maggiore consapevolezza del fatto che la prevenzione in materia di sicurezza sul lavoro è la vera arma per prevenire infortuni e malattie professionali, così come la formazione che fornisce gli strumenti per poterla applicare al meglio. Ne parliamo con Rosella Giola, Responsabile della gestione, pianificazione e organizzazione della sicurezza negli ambienti di lavoro: “Oggi la prevenzione fa la sua parte: il Testo Unico 81/08 – a differenza del precedente 626/94, dove era sufficiente un’autocertificazione – ha reso obbligatorio l’applicazione del piano sicurezza anche alle realtà inferiori ai 10 lavoratori e questo è stato un passo avanti notevole.

Tra l’altro rientrano non solo i lavoratori dipendenti ma anche chi lo fa senza ricevere stipendio, i volontari. Inoltre, c’è l’obbligo di denuncia di infortunio dal primo giorno. Insomma, oggi ci sono strumenti che funzionano molto bene rispetto alla media europea, proprio perché abbiamo un sistema molto restrittivo nel campo della sicurezza sul lavoro. Quello che ancora resta un nocciolo duro da superare nella mentalità delle persone è che la sicurezza non deve essere vissuta come un puro costo senza ritorno, ma come un investimento sulle persone e sulle attrezzature per rendere il posto di lavoro più sicuro per tutti. Un infortunio o una malattia professionale sono un costo sociale che ricade non solo sul datore di lavoro, ma su tutti i cittadini. Sottovalutare una situazione pericolosa e affidare una mansione a chi non ha ricevuto un’adeguata formazione può causare danni con gravi conseguenze. Anche il datore di lavoro deve ricevere la giusta formazione in base alla tipologia di rischio a cui appartiene la propria azienda; anche se questo in parte è già previsto, si dovrebbe fare ancora qualche sforzo per adeguare meglio la formazione così come è stato fatto per i lavoratori. Anche se è possibile affidare l’incarico dell’organizzazione della sicurezza a consulenti esterni, come previsto dalle vigenti normative, il datore di lavoro ha comunque la responsabilità della sicurezza nei luoghi di lavoro, con l’obbligo di vigilare affinché tutti i lavoratori la rispettino. L’applicazione e il mantenimento del piano sicurezza spetta al datore di lavoro che ha il potere di spesa, ed è per questo motivo che rimane il maggior responsabile in caso di infortunio o malattia professionale. Su questo aspetto servirebbe una maggiore sensibilizzazione”.

Si chiude il cerchio: è fondamentale una decisa opera di sensibilizzazione verso la cultura della sicurezza, verso tutti: datori di lavoro, lavoratori, cittadini. Forse in questo modo un giorno si potrà superare o almeno rallentare il più grande paradosso contemporaneo: morire per voler esercitare il diritto al lavoro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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