Né freelance, né dipendenti ma viaggiatori d’affari

Il freelance di successo decide di uscire dall’azienda al culmine della sua carriera perché non è più plausibile perdere ancora tempo a rimuovere gli ostacoli ed è arrivato il momento di costruire qualcosa di proprio. (Osvaldo Danzi) C’è un grande equivoco di fondo, probabilmente lessicale, nell’assioma che identifica il “dipendente” con lo “schiavo”, ed il […]

Il freelance di successo decide di uscire dall’azienda al culmine della sua carriera perché non è più plausibile perdere ancora tempo a rimuovere gli ostacoli ed è arrivato il momento di costruire qualcosa di proprio. (Osvaldo Danzi)

C’è un grande equivoco di fondo, probabilmente lessicale, nell’assioma che identifica il “dipendente” con lo “schiavo”, ed il freelance con l’uomo libero, soprattutto se si capovolge la moneta. Ed ecco che il dipendente diventa una persona che può beneficiare di stipendio fisso, tredicesima, quattordicesima, ferie pagate e malattia, mentre il freelance deve combattere contro l’aumento dell’iva. Semplificazioni che generano mostri. Ho approfondito questi temi in un libro di cui non farò menzione, perché non è questo il focus del pezzo. Al centro, infatti, c’è una nuova consapevolezza, quella del mobile working.

La diffusione massiva – direi ormai totale – degli smartphone e dei device tecnologici impone una riconsiderazione del tempo: possiamo continuare tranquillamente a pensare a orari di lavoro fissi, ma nel frattempo saranno gli strumenti a dettarci task, compiti e orari. Con un conseguente aumento dello stress. Si passa gran parte del tempo in riunione, spesso deconcentrati dal focus della stessa, perché nel frattempo lo schermo dello smartphone continua a illuminarsi. E quando decidiamo di staccare, la sera, siamo spesso tentati dal controllare le notifiche, e così andiamo a letto con il pensiero di quello che dovremo fare il giorno dopo. Ma il mondo del lavoro di oggi non è peggiore di quello di ieri, è solo un mondo diverso con abitudini diverse. Oggi, ad esempio, è possibile lavorare in mobilità con la stessa efficienza con la quale si lavora da una postazione fissa. A volte anche meglio. In un’epoca in cui l’organizzazione del lavoro è diventata flessibile, ci troviamo di fronte a un grande problema e al tempo stesso a una grande responsabilità. Essere always on è una criticità che va affrontata e dominata, non gestita.

Millennials do it better

Circa 8 lavoratori su 10 utilizzano un device per oltre il 50% del proprio tempo lavorativo: il 68% fa uso di personal computer fissi per la maggior parte del tempo, il 17% di computer portatili, solo il 4% usa dispositivi mobile come strumento prevalente di lavoro. E, nonostante la diffusione delle tecnologie digitali e delle connessioni a banda larga, solo il 5% dei lavoratori lavora da remoto. Sono dati sui quali riflettere, perché il mobile oggi è in grado di velocizzare di molto tantissime operazioni che continuiamo a fare solo da PC. Fare il freelance, e quindi non lavorare in un’organizzazione è sempre di più una scelta consapevole. Vuol dire, in un certo senso, avere più possibilità di imparare nuove cose, bilanciare meglio la propria vita privata con quella professionale, fare un lavoro che appassiona, contare su una flessibilità superiore, dedicare più tempo alla propria famiglia e avere maggiori possibilità di viaggiare. Molti freelance dichiarano di sentirsi molto più eccitati quando inizia un nuovo giorno e quando sono chiamati ad affrontare progetti nuovi. Nonostante ciò che raccontano i telegiornali, molti Millennials dichiarano di preferire contratti a progetto, poter lavorare su diversi fronti e prendersi periodi di pausa tra un lavoro e l’altro. Le aziende non si adeguano a queste richieste, proponendo benefit che non sono tali per una generazione che preferisce il tempo all’auto aziendale o alla poltrona in pelle umana di fantozziana memoria.

Uno spazio non fisico

Se da un lato l’essere sempre connessi può essere interpretato come una fonte di maggiore stress, dall’altro non può e non deve essere sottovalutato il ruolo abilitante delle nuove tecnologie in termini di semplicità di utilizzo, risparmio di tempo e miglioramento complessivo della qualità della vita. Sempre più spesso, lo stesso luogo di lavoro viene identificato con uno spazio non fisico in cui ci si connette per lavorare in modo più semplice, piacevole e produttivo: oggi la maggior parte delle persone è in grado di lavorare per una buona porzione di tempo fuori dall’ufficio e di utilizzare diversi dispositivi, inclusi quelli mobili, e non parliamo solo di freelance. Le soluzioni di comunicazione e collaborazione permettono di accedere tanto dalla postazione di lavoro quanto dall’esterno (personale di altri enti, colleghi in telelavoro oppure in mobilità sul territorio), in modo semplice e intuitivo, a tutti i canali di comunicazione e offrire nuovi servizi di collaborazione tramite strumenti di editing documentale integrati agli strumenti di comunicazione. Ciò comporta una produttività aumentata a tutti i livelli che si avvale della condivisione della conoscenza e della cooperazione di ciascuno in ogni momento e in ogni luogo, bypassando vincoli geografici o gerarchici e velocizzando il processo decisionale.

Grazie alle straordinarie possibilità offerte dagli strumenti digitali, è concretamente possibile puntare sul capitale umano per aumentare la competitività e la produttività facendo leva su elementi di accelerazione come lo smart working, l’apprendimento “just in time” e la cultura manageriale agile e rapida.

Tecnologie orientate all’utente e un luogo di lavoro digitale efficiente rendono possibile l’adozione di un nuovo modello organizzativo che, secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, è in grado di aumentare la produttività delle aziende per un valore di 27 miliardi di euro e ridurre i costi fissi di 10 miliardi di euro. Telelavoro e riduzione degli spostamenti possono far risparmiare fino a 4 miliardi di euro ai lavoratori. Sempre secondo l’Osservatorio, dal 2013 circa il 67% delle aziende ha già attivato iniziative importanti in questa direzione e il Ddl in materia di lavoro, recentemente approvato, ha finalmente colmato il vuoto legislativo responsabile del gap fra l’Italia e la maggior parte dei paesi europei; nell’ultima classifica disponibile sul telelavoro l’Italia si posizionava solo al 25° posto su 27 Paesi censiti con il 2,3% dei lavoratori che lavorava da remoto per almeno un quarto del tempo, contro il 15,5% della Repubblica Ceca, il 14,4% della Danimarca, il 13% del Belgio, e il 12% della Norvegia.

La ricerca dell’Osservatorio mette in luce la differenza nell’approccio allo smart working tra le PMI e le grandi aziende: nelle PMI la flessibilità nell’orario di lavoro è presente nel 25% delle aziende, ma viene offerta a tutti i dipendenti solo nel 10% dei casi; il telelavoro è presente nel 20% delle imprese, ma è concesso a tutti i dipendenti in meno del 2% dei casi. Nelle grandi aziende italiane, invece, la diffusione della flessibilità nell’orario di lavoro è circa il triplo delle PMI e il doppio per quanto riguarda il telelavoro. Oltre ad avere policy organizzative mediamente più flessibili, le grandi aziende si distinguono anche per una maggior attenzione all’innovazione del layout fisico degli spazi di lavoro: circa una impresa di grandi dimensioni su due ha in atto iniziative di ri-progettazione degli edifici con la creazione di ambienti maggiormente aperti, flessibili e orientati alla collaborazione e al benessere delle persone. Alessandra Vizzi, oggi HR Manager di Merloni Termosanitari e un tempo HR Manager di Indesit Company, mi raccontò di come già 10 anni fa avesse fatto rivoluzionare gli spazi e il layout della Wrap, spin-off di ricerca e sviluppo dell’azienda, per favorire il lavoro in team e per creare spazi di lavoro in grado di favorire lo scambio, la creatività, la conoscenza con aree destinate alla collaborazione, open space, postazioni non riservate alle singole persone e aree di relax.

In qualità di HR manager mi sono trovata inevitabilmente ad essere una Progettista di Spazi e Tempi di lavoro – dice Alessandra Vizzi -. Costruzione di nuove sedi, stabilimenti, cambiamenti organizzativi, trasferimenti fisici di gruppi di lavoro, costituzione di nuove funzioni, di nuovi ruoli, di nuovi progetti con team dedicati in collocation, sono materia quotidiana sulla quale lavorare. Insieme alla valutazione delle competenze delle persone, alla riassegnazione su nuovi centri di costo, ragionare su come massimizzare la comunicazione, la condivisione delle conoscenze e delle informazioni attraverso la prossimità fisica, faceva parte di ogni progetto di “change management” organizzativo. E allora simulazioni con CAD di isole di lavoro, ricerca di nuove soluzioni di arredamento, di nuovi materiali fonoassorbenti, nuovi hot spot di luce. L’ergonomia della postazione di lavoro. Ma anche gli spazi, i colori delle pareti, i corridoi con le vie di transito da “user experience”, gli spazi di ristoro, la frutta nei salottini.

Quanta avanguardia nel creare nei primi anni 2000 team misti di progettazione hardware tra Italia e Cina per sfruttare competenze e fusi orari. Concedere i primi part time verticali in un mondo abituato all’orizzontale. Inventarsi il primo contratto individuale di quello che oggi si chiama Lavoro Agile e che allora avevamo chiamato “telelavoro” anticipando il legislatore del Jobs Act 2016 nella definizione di accordo con il lavoratore; per noi era soltanto “andare incontro alle esigenze di una persona” la cui competenza era chiave e di cui ci si fidava completamente, che per ragioni di salute aveva difficoltà a garantire la sua presenza fisica in ufficio.”

L’ambiente fisico di lavoro è a tutti gli effetti un elemento fondamentale sull’engagement delle persone, sulla loro felicità e sul loro benessere e quindi sulla loro efficienza. Ovunque sia questo spazio e questo tempo.

Né freelance, né manager ma viaggiatori di affari

I viaggiatori sono turisti che si lasciano viaggiare (Lucio Dalla)

I viaggiatori d’affari sono già diventati lavoratori “just-in-time”: molti di loro completa la preparazione delle riunioni in viaggio. L’utilizzo della tecnologia odierna consente all’88% dei viaggiatori d’affari di portarsi avanti e di mantenere la produttività, restando aggiornati tramite email (31% del tempo), cercando informazioni (24% del tempo) e modificando il contenuto di documenti (22% del tempo). L’ufficio non è più il luogo in cui molti lavoratori si sentono maggiormente produttivi. Secondo una ricerca svolta da HP, il 73% dei viaggiatori per lavoro vede effettivamente il tempo speso in viaggio come una chance da sfruttare per portarsi avanti e aumentare la propria produttività. Un ulteriore 56% afferma di avere le idee migliori mentre si trova fuori ufficio.

Tuttavia, nonostante i dipendenti siano desiderosi di disporre di nuovi e flessibili modi di lavorare, le organizzazioni sono ancora alle prese con tecnologia e limitazioni di budget per poterli accontentare. La ricerca indipendente del 2015 The mobile multiplier, nella quale sono stati intervistati 1.500 impiegati di grandi organizzazioni in Europa, ha evidenziato l’avvento di una nuova era, in cui il mobile working non è più un valore aggiunto, ma un requisito di base. I risultati mostrano che i lavoratori sono pronti a lasciare l’ufficio “fisico”: gli impiegati pongono il lavoro flessibile in cima alla lista dei benefit, e addirittura il 76% lo mette in una delle prime tre posizioni. Tuttavia, comunicare in modo efficace con i colleghi è ancora un problema: spesso si perde la maggior parte del tempo cercando di entrare in contatto con le persone quando lavoriamo da remoto, elemento che ritarda le decisioni. Oppure si hanno difficoltà ad accedere a documenti e file. C’è pertanto la necessità di strumenti tecnologici migliori, e di nuove funzionalità per lo smartphone, tra cui le preferite, sempre secondo la ricerca, sono la condivisione dello schermo, l’instant messaging e la videoconferenza (premesso che la connettività dovrebbe essere una priorità).

Le aziende si dicono disposte ad assecondare la richiesta dei dipendenti verso un modo più flessibile di lavorare, ma la realtà è ancora lontana dall’ambizione. Spesso la tecnologia installata non è in linea con le aspettative e ciò causa ritardi e frustrazione. È importante per le aziende rendere il proprio business a prova di futuro, investendo nella mobile collaboration per supportare un modello di lavoro flessibile. Migliore è l’experience che i dipendenti hanno del lavoro in mobilità, maggiori saranno i benefici per le loro organizzazioni”, afferma Andrew Small, Vice President Unified Communications, Mobile e Contact Center Portfolio di BT

Freelance o Ceo di se stessi?

“Poche delle persone che conosco sono freelance naturali, – scrive Osvaldo Danzi – categoria in cui rientrano coloro che, una volta tagliato il cordone ombelicale dalla scuola e dalla famiglia, hanno deciso di essere freelance immediatamente. Di queste, nessuna di cui io abbia memoria ha avuto vero successo. Naturalmente in questo gruppo non si può annoverare chi si ritrova in posizioni al vertice nell’azienda di famiglia (quelli sono comunque imprenditori) né tantomeno gli innumerevoli “CEO di se stessi” che tentano di nascondere dietro un job title onanistico e tanto in voga la frustrazione di non avere competenze tecniche e una storia di successo aziendale. L’imprinting aziendale è fondamentale per chi vuole intraprendere la strada della libera professione: si tratta di un percorso obbligato che permette al vero freelance di assimilare una cultura “ambientale” e accumulare un’esperienza che lo metteranno alla pari – se non al di sopra – dei suoi futuri clienti. È fondamentale conoscere i ritmi, i riti, le dinamiche, le gerarchie, i processi che regolano un’azienda; è utile per il proprio posizionamento professionale oltre che per un aspetto di “riconoscibilità sociale” fra chi offre un servizio e chi lo acquista”

Aver lavorato in azienda è anche il vero motore dell’azione per chi decide di fare questo passaggio con gli strumenti giusti e con la dovuta convinzione. I freelance che approdano alla libera professione con la consapevolezza delle proprie capacità e della propria professionalità, riconosciute loro da capi e colleghi e da qualche anno di progetti con clienti, sono quelli che intraprenderanno il percorso in maniera strutturata, ed è questo cioè che distingue un professionista, un consulente aziendale, da un semplice fornitore esterno.

La quotidianità acquisita

Il mobile working non è il futuro, non è una tendenza, ma una necessità. È il presente di molti freelance e di tanti dipendenti di azienda, sempre più soggetti a spostamenti, viaggi, riunioni virtuali. Che poi, in fondo, non c’è nulla di virtuale ad accendere una telecamera e parlare con una persona che vive dall’altra parte dell’Oceano. È la nostra quotidianità acquisita, quella che ci fa sentire parte di un mondo globale. È una storia di vantaggi e di opportunità, a patto che si sappia distinguere la mobilità dal multitasking, spesso portato all’eccesso, in negativo. Lavorare bene significa anche mettere le persone nelle migliori condizioni di poterlo fare. Non è detto che in futuro useremo ancora gli smartphone; l’“Internet delle cose” ci permetterà di avere oggetti sempre più connessi, e di conseguenza ancora più opportunità. Dovremo salvaguardare il nostro tempo, la nostra privacy, i nostri spazi, ma poi si apriranno degli scenari importantissimi, da sfruttare per realizzare cose sempre più belle. Da freelance, da dipendenti, o semplicemente da viaggiatori d’affari.

 

 

 

 

 

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