Ogni generazione ha il suo prezzo

Nuove (e vecchie) generazioni alla ricerca di equilibrio fra lavoro e vita vera: essere sottopagati e sottovalutati non è più una priorità per nessuno.

“Molti dei miei amici lavorano in locali e bar qui a Milano, non ce n’è uno che abbia un contratto regolare. Nella migliore delle ipotesi lavorano con un contratto part time di 4 ore e le altre 6 le fanno in nero. Gli stipendi si aggirano fra i 700 e i 1.100 euro netti quando una stanza in comproprietà ne costa almeno 800. Con quello che rimane si devono pagare la salute e quello che serve per condurre la propria vita”.

Mi hanno molto colpito – ma per niente sorpreso – le parole di Paolo Romano, assessore al Welfare e Salute, Ambiente e Politiche Giovanili del Comune di Milano che era ospite con me in una trasmissione di MilanoPaviaTV qualche sera fa, perché in una frase ha fatto crollare un muro di retropensieri e tutto il racconto con cui i ristoratori e gli albergatori tengono a giustificare la carenza di personale per le loro organizzazioni d’estate, e con cui il resto degli imprenditori lo fa nelle stagioni autunno-inverno.

Questo articolo avrebbe dovuto intitolarsi Cercare lavoro sui social e coi social: i giovani lo sanno fare?, ma poi ho pensato che il rischio potesse essere ancora una volta quello di spostare il peso dell’occupazione (o della disoccupazione) da chi offre lavoro a chi lo cerca, dalle Persone agli strumenti, quando mi sembra invece evidente che, se un’offerta di lavoro è congrua e ben scritta, non c’è motivo al mondo per cui non si trovi personale in un Paese dove la disoccupazione svetta ancora troppo alta.

Sulla carenza diprofili specializzati”, quali possono essere tecnici informatici o operatori al limite dell’ingegneria, mi soffermerò solo nella misura di questo paragrafo, riservandomi di spiegare in altra occasione a certi imprenditori che per trovare personale bisogna ragionare in maniera imprenditoriale: attivando processi di selezione che vadano oltre il post-it appiccicato fuori dal bar del paese o il becero passaparola. Raccontarsi che in Italia funziona solo la raccomandazione è l’alibi perfetto per mettersi in pace l’anima e il portafoglio.

Andrebbe poi spiegato che le Associazioni di categoria si chiamano così perché dovrebbero servire a mettere in rete gli imprenditori, investendo in progetti seri di reclutamento e formazione laddove c’è domanda: prima di tutto al Sud. Invece diciamo come stanno le cose una volta per tutte, che è poi ciò che tutti pensano: questo genere di imprenditori da spiaggia e da tornio cercano prevalentemente giovani (sotto i 30 anni) perché vogliono pagarli poco, perché sono maggiormente condizionabili (o ricattabili), perché non conoscono i loro diritti, perché non sanno cosa significhi “sindacato”. Dichiarare ai giornali di cercare “personale specializzato” non li farà uscire dall’imbarazzo perché la rete inizia a parlare, a condividere informazioni, e quello che sta succedendo, ed è sotto gli occhi di tutti, è che quegli articoli ripubblicati prevalentemente su Facebook non servono altro che a raccogliere commenti negativi e far crollare la reputazione di giornali, giornalisti e imprenditori stessi.

Il caso della Cremeria San Francesco di Bologna è uno dei più recenti ed emblematici. Dopo due giorni di commenti negativi e un crollo reputazionale, dapprima i gestori hanno cancellato il post in cui si offriva lavoro – con la frase incriminata “ma ai miei tempi prima di chiedere qual è lo stipendio si facevano due giorni di prova” – poi lo hanno rimpiazzato con un altro in cui la pezza è stata peggiore del buco; alla fine hanno bannato tutti i profili che avevano espresso commenti negativi. A dimostrazione che ai gestori della gelateria, oltre che alle basi necessarie per assumere collaboratori, mancano anche quelle per gestire una pagina Facebook.

Un cameriere di professione (cioè quelle figure mitologiche uscite da una scuola alberghiera che sanno apparecchiare col coltello a destra e la forchetta a sinistra e a volte anche più di una forchetta o che sanno sporzionare il pesce) costa un minimo di 2.500 euro netti al mese, e di certo non se li può permettere – ma nemmeno sono necessari – una pizzeria sui Navigli o il baracchino sulla Riviera romagnola. Un operaio specializzato non può avere 30 anni e non si può pensare che, uscendo da un istituto tecnico dove la macchina a controllo numerico con cui si è esercitato nell’ultimo anno ha almeno il doppio dei suoi anni, abbia le competenze necessarie per svolgere un lavoro in autonomia.

Quando lo chef Alessandro Borghese dichiara che la gavetta non ha più un valore per le generazioni digitali non si sbaglia; si dimentica però che nelle pizzerie, nei baretti sotto gli uffici delle multinazionali o negli stabilimenti balneari non si impara a cucinare, a servire o a dirigere una sala. Chi riesce a finire una stagione turistica massacrante fatta di orari senza tregua, malattie non pagate e diritti negati, non solo non ha raccolto nemmeno i contributi minimi pensionistici, ma non può di certo raccontare di aver lavorato con uno chef stellato che, quantomeno, “farebbe curriculum”.

È un altro chef, Filippo La Mantia, a chiudere la parentesi e ad ammettere che questo settore non può più ragionare con le logiche di 20 anni fa (dove almeno veniva garantito vitto, alloggio e un giorno di pausa a chi faceva la stagione a Rimini o in Sardegna), ed è necessario riaggiornare i contratti collettivi, prevedere una normativa diversa, permettere un accesso al lavoro più agile (parola molto di moda negli uffici, perché allora non nei bar?) sia da parte di chi cerca che da parte di chi trova. Esattamente quello che chiedono anche le società di food delivery a cui viene concesso di operare in totale assenza di regole, di normative chiare e di etica in nome dell’ ”innovazione”, cavallo di battaglia di aziende che fanno guadagni miliardari e corrispondono una miseria in tasse. Con la differenza che a farsi un uovo al tegamino o un piatto di pasta dovremmo essere tutti capaci senza dover dipendere da uno schiavo chiamato a distanza tramite un’app.

Mentre il turismo e l’industria manifatturiera dovrebbero essere asset strategici del nostro Paese, abbiamo raccontato ai nostri ragazzi quanto era più fico fare startup anziché fare uno stage in un’industria meccanica o automobilistica, abbiamo dato loro come riferimenti be hungry, be fool anziché parlargli di Adriano Olivetti, Luisa Spagnoli e Alfonso Bialetti. E adesso, chi non diventa Masterchef finisce per fare il rider.

Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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